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Jack the Smoker e il Gattopardo: l’arte di sapersi rinnovare senza perdere se stessi

17-03-2016 Marta Blumi Tripodi

Jack the Smoker e il Gattopardo: l’arte di sapersi rinnovare senza perdere se stessi

Ammettiamolo: per chi conosce e segue Jack the Smoker fin dagli albori (anzi, fin da L’alba, passateci il gioco di parole) il primo ascolto di questo album è un piccolo shock. Le sonorità, anche se sono variegate, sono minimali, cupe e contemporanee, non c’è traccia dei campioni soul e ariosi che di solito usa quando produce. Parte dell’ironia e della leggerezza che lo contraddistinguevano sono scomparse, per lasciare spazio alla consapevolezza che stavolta si fa sul serio, si gioca in Champions League. Una volta superato questo momento di smarrimento, in cui ti chiedi se stai ascoltando il disco giusto o se hai sbagliato rapper, arrivano considerazioni più profonde: tipo che la grande padronanza del flow è sempre la solita, che la profondità nell’affrontare certi temi rimane una certezza, che la cura certosina che mette in ogni brano gli ha sicuramente tolto il sonno anche stavolta (“C’è voluto un anno e mezzo di lavoro per arrivare a questo risultato”, ammette lui stesso all’inizio della conferenza stampa). Insomma, è sempre il nostro Jack, anche se in una veste un po’ più insolita.

Jack uccide si intitola così per il tipo d’impatto che vorrebbe avere sulla scena”, spiega il diretto interessato. “È un album aggressivo, diretto, studiato per rendere il più possibile anche nei live”. A lavorarci insieme a lui, in qualità di direttori artistici del progetto, c’erano dj Slait, che da sempre rappresenta un’eccellenza di Machete, e Low Kidd, un giovane virtuoso della produzione che ha già messo le mani su vari lavori della crew e non solo, facendosi notare per la sua versatilità. Sono tutti consapevoli che il suono di quest’album non corrisponde all’immagine che i fan di Jack the Smoker avevano di lui fino ad ora. “Abbiamo sperimentato pezzi diversi, con atmosfere e bpm che variavano da brano a brano. Volevamo dimostrare che sono in grado di fare un disco adulto, con tematiche e sound competitivi: insomma, l’idea era quella di rinfrescare un po’ il mio catalogo con qualcosa che fosse coerente con il mio percorso, ma che fosse uno step in avanti” racconta. Oggi è prematuro dirlo – Jack uccide è fuori solo da poche ore e nessuno ha avuto ancora il tempo di ascoltarlo un numero sufficiente di volte per assimilarlo a dovere – ma viene spontaneo chiedersi come reagiranno i suoi fan, quelli che lo hanno sempre visto come un alfiere dell’underground e di un certo tipo di immaginario molto classico. “La gente in Italia è un po’ refrattaria ai suoni che si avvicinano alla trap (anche se ormai non ha più senso parlare di trap, perché è già diventata un’altra cosa)” ragiona lui. “E infatti quando è uscito il primo singolo, 666, che è il brano più vicino a quel mondo lì, molti hanno storto il naso, ma per me è importante non rimanere immobile e fare cose sempre diverse. In qualche modo con questo album volevo scuotere i miei vecchi ascoltatori e guadagnarne di nuovi. Anche perché, diciamocelo, molte delle persone che preferivano la mia vecchia musica oggi non comprano più dischi e non vanno più ai concerti: è la nuova generazione che mantiene vivo il fermento, ormai”. “E comunque bisogna osare e non pensare alla propria fan-base, perché è impossibile fare felici tutti” chiosa Slait.

Il ragionamento non fa una piega: per guadagnarsi il diritto di lamentarsi della scena hip hop di oggi bisognerebbe anche essere direttamente partecipi delle sue sorti. Se non compri un disco o non vai a un concerto dal 2007, forse non hai neanche gli strumenti in mano per capire cosa sta succedendo. Ma in effetti la riflessione di Jack è più articolata di così: “La mia generazione è piena di gente validissima, che ha fatto la storia, che ha avuto una rilevanza pazzesca. Ma il pubblico del rap si dimentica facilmente di te: molti della mia generazione non sono riusciti a far affezionare le generazioni nuove, e oggi non riescono più a trovare il posto che meritano all’interno della scena. Non mi piace essere legato a un’epoca o ad un suono: bisogna saper parlare a tutti, non solo ai propri coetanei”. Anche perché, come giustamente ricorda El Raton, quello dei giovanissimi non è un pubblico di serie B: tutti quanti abbiamo avuto quattordici anni, e la musica che ascoltavamo a quell’età ha segnato in maniera indelebile i nostri gusti.

Se da una parte questo è l’album di Jack the Smoker in cui ha investito di più emotivamente e musicalmente, allo stesso tempo è anche il primo album in cui rinuncia ad alcune sue sicurezze: non ha prodotto nessun beat, ad esempio, e i featuring che storicamente lo accompagnano (Bassi Maestro, Asher Kuno, Bat, Zampa) non ci sono. “Per quanto io ami molto mettere mano alle strumentali, mi rendo conto che i miei beat al momento non sono al livello delle produzioni di oggi, ecco perché ho preferito affidarmi ad altri. Senza contare che il mio mood come beatmaker non era adatto a questo disco” ammette senza problemi, spiegando però che spesso e volentieri ha affiancato Slait e Low Kidd nel decidere cosa fare e come farlo. “Quanto ai featuring, non sempre si riesce. Abbiamo registrato moltissimi pezzi prima di decidere quali sarebbero finiti nella tracklist finale; con Bassi abbiamo provato a chiudere qualcosa fino all’ultimo, ma alla fine non ce l’abbiamo fatta ad arrivare in tempo”. In scaletta resta però buona parte della Machete (compresi Nitro e Salmo in forma smagliante) e altri nomi caldi del momento come Gemitaiz, Madman, Noyz Narcos.

Il modo di lavorare della Machete, unico nel suo genere, ha evidentemente influenzato moltissimo l’album. “Noi non vogliamo artisti fatti con lo stampino” interviene Salmo, universalmente riconosciuto come autore di uno dei dischi più belli dell’anno. “Ogni membro della Machete deve avere il suo stile e il suo immaginario. Che deve essere suo, e non copiato da americani e francesi. Fare la roba a modo proprio non è difficile, ve lo assicuro, è che quasi nessuno sembra aver voglia di provarci, là fuori. Poi però c’è talmente tanto materiale che esce che la gente fa per forza una selezione, e a quel punto la qualità emerge”. È proprio qui che interviene Machete, una macchina da guerra che fornisce gli strumenti più adatti ad ogni suo artista, studia come differenziarlo e renderlo unico e interviene compatta a supportarlo quando è il momento di promuoverlo.

Alla fine del nostro incontro è impossibile non pensare al Gattopardo: a volte bisogna cambiare tutto per non cambiare niente. Jack resta una persona innamorata dell’hip hop, che passa il suo tempo libero a fare laboratori di scrittura testi con i ragazzini, che resta saldamente legato all’underground e alla golden age, che pesa le parole al punto che pubblica un album ogni morte di papa, che dà la paga a un buon 90% degli mc italiani in circolazione. Ha semplicemente aggiornato un po’ la sua forma espressiva, anche per non rischiare di dover smettere di esprimersi in futuro – o peggio, di esprimersi ma di non farsi capire più. Se la cosa verrà accettata o meno (anche da chi vi scrive, che è una persona che ha superato i trenta e con i nuovi sound fa un po’ fatica) è solo il tempo che ce lo dirà. Anche perché, lo ribadiamo, un ascolto solo non basta per digerire un cambiamento così netto. Ma basta scorrere la tracklist fino in fondo e arrivare a un brano monumentale come 5 momenti top, che tra l’altro è anche il suo preferito, per fare pace con il mondo e capire che Jack uccide è un disco all’altezza del grandissimo talento di Jack the Smoker.