A volte basta una singola canzone a farti entrare nella Storia del rap italiano. E’ il caso di Frank Siciliano, la cui indimenticata e indimenticabile Notte Blu occupa da sempre un posto speciale nei nostri cuori. Dopo il travolgente successo di quel brano – che, lo ricordiamo, era contenuto in 60 Hz di Shocca, uscito nel lontano 2004 – sarebbe stato lecito aspettarsi la pubblicazione di un album intero, anche perché Frank, nonostante fosse già da anni un nome noto della scena italiana, non era ancora mai uscito con un disco solista. Ma non successe: nel 20o7 uscì Struggle music, un progetto in coppia con il socio e l’amico di sempre Shocca, e poi più niente, a parte sporadiche collaborazioni ogni tanto. Nell’ultimo decennio le voci di un suo possibile album solista si erano più volte rincorse (così come quelle sui motivi della sua prolungata assenza dalle scene) ma ormai lo consideravamo al pari di Detox di Dr. Dre o del terzo album di D’Angelo: una specie di miraggio irraggiungibile. E invece il 2015 è arrivato, Detox ancora non è uscito, D’Angelo ha finalmente pubblicato il suo terzo album e anche Frank ci ha regalato una gran bella soddisfazione: L.U.N.A. è fuori. Ci vuole coraggio a concretizzare un progetto così atteso, soprattutto dopo così tanto tempo: Frank avrebbe potuto tranquillamente continuare a godersi gli attestati di stima di fan e colleghi senza mai esporsi davvero, continuando a dedicarsi al videomaking e droppando una strofa ogni tanto. Invece ha voluto mettersi in gioco, con un prodotto sofisticato e maturo che ci fa capire quanto già dieci anni fa avesse anticipato molte tendenze di oggi. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lui al telefono.
Blumi: Questo è un disco d’esordio abbastanza anomalo, visto che arriva solo ora che sei un veterano della scena. Perché proprio ora?
Frank Siciliano: Non c’è un motivo vero e proprio, non era calcolato. Negli ultimi anni ho lavorato soprattutto come videomaker, accantonando per un po’ il rap. Il perché ho deciso di fare uscire adesso l’album non lo so neanche io, è stato casuale. In altre interviste mi è capitato di sentirmi dire che questo probabilmente era il momento sbagliato per uscire con il disco, più che il momento giusto…
B: Perché il momento sbagliato?
F.S.: Perché è un periodo molto competitivo, oggi c’è un’ondata di rap sempre sul pezzo a livello di sound e contenuti; persone che ci tengono ad essere moderne a tutti i costi, che si forzano a fare qualcosa di nuovo. Che poi nuovo spesso non è, perché molti si limitano a ricalcare quello che va di moda in America in questo periodo.
B: O addirittura ricalcando cose che tu facevi già più di dieci anni fa: ritornelli canticchiati, un certo tipo di cura per gli hook…
F.S.: Molti storcevano il naso, ma a me è sempre piaciuto canticchiare. Sono contento che la maggior parte della gente abbia cambiato idea e sia più aperti. Finalmente capiscono che è una cosa che si può fare, e non se ne discute più.
B: Tornando a L.U.N.A., quanto ci hai messo a concepirlo e realizzarlo?
F.S.: Tanto! (ride) La chiusura del progetto risale al 2014 (copertina, mixaggio, gran parte delle registrazioni), ma molte strofe risalivano a diversi anni fa. La dilatazione dei tempi, poi, ha fatto sì che io spesso provassi una certa strofa prima su un beat, poi su un altro, poi su un altro ancora… Non avendo fretta, era possibile fare dei ripensamenti.
B: Il problema di un certo tipo di lavorazione senza fretta, però, è questo: quand’è che arriva il momento in cui decidi che l’album è effettivamente finito?
F.S.: Mai, per quanto mi riguarda! (ride) La parola fine l’hanno messa più che altro Stokka e Shocca, che insieme a me si occupavano di curare il progetto. Io sono un gran perfezionista, per non dire un cagacazzi, perciò per me c’è sempre qualcosa da migliorare, e sono loro a tenermi sui binari della realtà, facendomi capire quando le cose suonano bene e non c’è bisogno di cambiarea. Ci siamo dati un ultimatum: oltre a questa data non si va. E abbiamo cercato di rispettarlo.
B: Il cielo come china sembra un po’ una versione 2.0 di Notte blu, che ancora oggi è riconosciuta come una delle migliori canzoni rap italiane di sempre. L’hai fatto apposta, a mo’ di omaggio ai fan che l’hanno trasformata in un classico immortale?
F.S.: Assolutamente no, anzi, mi sono reso conto delle similitudini solo quando il pezzo è uscito. La cosa mi preoccupava parecchio, perché ho sempre avuto la sensazione che Notte Blu non fosse una semplice canzone, ma un ricordo, qualcosa di affettivo. Tutti noi la leghiamo a un periodo della nostra vita a cui ripensiamo con grande gioia. Quando un pezzo diventa un gancio emotivo per qualcosa, è difficile emularlo; e vale anche per me, perché ci sono sinceramente affezionato e ancora oggi sono contento che tutti lo amino. Ma credo che tutto l’album sia una specie di Notte Blu portato all’esasperazione. Però con dieci anni di più, cosa che mi ha fatto un po’ cambiare visione.
B: In effetti il filo conduttore di L.U.N.A. in un certo senso è la notte: lo si percepisce fin dal titolo e da brani come Il cielo come china, ma anche da pezzi più scanzonati come Vieni con noi, che racconta appunto di una notte trascorsa a divertirti e a girare per la città insieme ai tuoi amici di sempre…
F.S.: Tutto l’album ha delle ambientazioni notturne, a parte forse Buongiorno che si concentra più che altro sul risveglio (ma la premessa è comunque l’aver passato una notte insieme). La notte è una metafora della possibilità di essere liberi, di essere se stessi, di trovarsi oppure di nascondersi: è la parte più interessante di tutta la giornata, quella in cui sei libero dai tuoi impegni di lavoro o di studio.
B: L’album è intervallato costantemente da dei brevi skit, un espediente che andava di gran moda fino a una decina di anni fa e che poi si è un po’ perso per strada, almeno fino a qualche mese fa. Tu personalmente perché hai scelto di inserirli?
F.S.: Ho sempre amato molto gli skit nei vecchi dischi che ho consumato, erano piccoli episodi ma nascondevano delle vere e proprie gemme. È un po’ come quando incontri i fan: sì, ti fai una foto, ma poi c’è anche un momento di chiacchiera estemporanea che poi è forse quello che ti resta più impresso, quando torni a casa e ci ripensi. Lo skit, per me, è proprio come quella chiacchiera estemporanea. Non c’è il peso del fare una canzone intera, del dover essere completi, ci si può sbizzarrire e lasciare all’ascoltatore l’interpretazione.
B: A proposito di questo, vorrei però una tua interpretazione dello skit Oh boy. Cosa intendevi dire con “Tu quindi pensi che a nessuno importi di te/ Che cosa stupida da pensare”?
F.S.: Ecco, la spiegazione che ti ho appena dato si applica perfettamente a questo caso: è una cosa estemporanea, fatta su un beat di Buddy che amavo moltissimo. Alla fine questo beat non ero riuscito a usarlo per una canzone, così ho deciso di utilizzarlo per valorizzare questa manciata di parole che per me hanno un grande valore: credo davvero nel loro significato. Quando ho fatto sentire lo skit a Buddy gli sia piaciuto molto, mi ha detto che ero riuscito a centrare il mood del suo momento. E la cosa mi ha reso molto contento.
B: Restando in tema di produzioni, dato che l’aspettativa per un tuo album solista era davvero alta, immagino che i vari beatmaker abbiano fatto a gara per ricoprirti di strumentali. Come hai scelto quelle che sono poi finite nell’album?
F.S.: Un po’ di pancia, un po’ in base alla resa che avrebbero avuto nel live… Non c’è stato un solo criterio. A differenza di molti rapper, per cui l’importante è avere una base – spesso basta anche solo un beatbox – per poter scrivere una strofa, per me i beat non sono intercambiabili, anzi, strofa e strumentale devono essere strettamente intrecciate.
B: Vorrei farti una domanda specifica su una strumentale, quella di Pelle, Fumo e sogni: il brano in generale è piaciuto parecchio, ma secondo molti la produzione è troppo ispirata a quella di I need a dollar di Aloe Blacc (e tra l’altro anche l’argomento ricorda vagamente quella canzone). Tu cosa ne pensi?
F.S.: C’è effettivamente un pianoforte in levare in entrambi i brani, quindi capisco che possa ricordare un po’ I need a dollar. Non sto a sindacare sulla cosa: se ad alcuni ricorda quel pezzo, chi sono io per dire il contrario? È una percezione soggettiva, anche se posso assicurare a tutti che non l’abbiamo fatto apposta. A me ricorda anche un sacco di altri pezzi, nel senso che l’uso di un giro di piano del genere è un espediente molto comune nella musica moderna. Se sul beat posso ammettere che ci sia qualche similitudine, però, non credo che sull’argomento ci siano delle somiglianze.
B: Cambiando del tutto argomento, l’anno scorso Unlimited Struggle ha festeggiato la prima decade di attività. Ti saresti mai immaginato che quella crew che hai fondato insieme ai tuoi amici di sempre sarebbe diventata una storica pietra di paragone per tutti gli altri collettivi?
F.S.: No, assolutamente. Non l’abbiamo fatto per diventare un punto di riferimento, ma in maniera molto spontanea, per la voglia di condividere. E non eravamo neanche sicuri di durare così tanto: le crew nascono e poi spesso si sciolgono, il tempo e le strade spesso dividono anziché unire. Il segreto, forse, sta nel fatto che in questi dieci anni siamo cresciuti in maniera individuale, ma seguendo più o meno la stessa direzione, cosa che ha fatto sì che la nostra unione rimanesse salda nonostante tutto. E sono davvero felice di essere ancora qui, con le nostre mete da raggiungere e ancora tanta voglia di creare qualcosa tutti insieme.
B: Hai dato un grosso input all’attività della crew anche come videomaker, firmando molti video dei tuoi soci e contribuendo a forgiare un certo tipo di estetica…
F.S.: Negli ultimi dieci anni il mondo dei videoclip ha subìto una forte evoluzione, sia dal punto di vista dei visual che dal punto di vista pratico – i soldi che girano oggi, per fare un esempio, non sono certo gli stessi che giravano dieci anni fa. L’idea del mio team è quella di fare meno, ma meglio, andando alla ricerca di una maggiore originalità: il tipico street video, quello del rapper che sputa le sue rime in strada, come idea mi piace ancora, ma se non ha un concetto un po’ più forte dietro tende a stufarmi un po’. La bellezza delle immagini da sola non basta; quando c’è anche un significato, diventa molto migliore. È importante continuare ad andare a caccia della libertà e dell’ispirazione, anche se ovviamente quando fare video diventa un lavoro tendono ad emergere molte più regole, paletti, tempistiche… Insomma: cerchiamo di non “lavorare” troppo! (ride)
B: Quindi è lecito aspettarsi in futuro un tuo film o un tuo documentario?
F.S.: No, direi di no. Non sento il bisogno di lavorare in quella direzione, preferisco le arti visive in generale piuttosto che il formato del lungometraggio.
B: Curiosità totalmente estemporanea: uno potrebbe pensare che, come il vero nome di Johnny Marsiglia è Giovanni Marsiglia, il tuo vero nome sia Francesco Siciliano. Invece è Matteo Podini. Perché hai scelto un aka del genere?
F.S.: È una lunga storia! Innanzitutto non è stato scelto da me, ma da quello che è stato fin da ragazzini il nostro spacciatore ufficiale di soprannomi, ovvero Shocca. Rispetto a tanti altri nomignoli coniati da lui, a me è andata molto bene: si è limitato a ribattezzarmi Frank! (ride) C’è stato un periodo, nell’hip hop, in cui andavano di moda i nomi composti, così ho deciso di aggiungere a questo Frank anche una specie di “cognome” che lo ricollocasse in Italia: alla fine ho scelto Siciliano, per celebrare un pezzo della mia famiglia che viveva proprio lì.
B: Non mi resta che chiederti i progetti futuri, e a questo proposito: non ci farai aspettare altri quindici anni prima di pubblicare il tuo secondo album, vero?
F.S.: (scoppia a ridere, ndr) Diciamo che al momento sono concentrato sull’organizzazione dei live, una cosa piuttosto nuova per me, anche se ho lavorato nella musica per metà della mia vita. Saremo io, Shocca e Alo, un bravissimo ragazzo di Bologna che ha una voce molto particolare e mi accompagnerà sul palco. A parte questo, ci sono tante idee che bollono in pentola, ma per ora al centro di queste idee c’è ancora L.U.N.A. Visto che ci ho messo così tanto a farlo uscire voglio dargli ancora un po’ di spazio: se lo merita!