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Piotta: l’intervista

28-05-2015 Marta Blumi Tripodi

Piotta: l’intervista

La carriera di Piotta si può dividere a grandi linee in due distinte fasi: prima del Supercafone e dopo il Supercafone. In realtà a cambiare tra il prima e il dopo non è stato lui (o meglio, è cambiato anche lui, ma ovviamente è normale, essendo trascorsi più di quindici anni da quel fatidico 1998 ) quanto la percezione che il pubblico ha di lui. Quello generalista è tuttora talmente affezionato alla canzone che non riesce a rassegnarsi all’idea che si trattasse semplicemente di una macchietta; quello di settore, e in particolare la scena rap italiana, si è convinta che l’hip hop non gli interessi più, e che il suo vero obbiettivo è il mercato del pop. Inutile dire che né l’una né l’altra versione dei fatti hanno un fondamento vero e proprio. Piotta, anzi, si è sempre mantenuto molto coerente con se stesso: ama l’hip hop e non lo rinnega affatto, ma ama anche sconfinare in altri generi, e giustamente non rinnega neanche questo. Non va alla ricerca del successo facile, ma non ha neanche intenzione di rimanere ancorato al suo passato di mc underground per paura che qualcuno gli dia del venduto. Con la sua crew, Robba Coatta, ha fatto la storia del rap romano, e oggi come allora continua a sfruttare la propria popolarità per dare spazio ad altri artisti (vedi alla voce La Grande Onda, l’etichetta che ha fondato e che tuttora dirige). E se c’è una cosa che ha imparato dopo il successo del Supercafone è proprio quella di non cedere alle facili lusinghe della tv, che soprattutto negli ultimi anni crea idoli musicali e li distrugge nel giro di una stagione con il meccanismo dei talent show. Non a caso il suo ultimo album si intitola Nemici, il logo richiama volutamente quello di Amici di Maria De Filippi e vuole contrapporsi decisamente a quel tipo di standard. Abbiamo approfittato della sua venuta a Milano (ci tornerà proprio sabato 30 per inaugurare il suo tour, in partenza dal Magnolia) per scambiare quattro chiacchiere con lui.

Blumi: Perché hai scelto di chiamare l’album così e, soprattutto, non hai avuto timore di qualche ritorsione legale o professionale, mettendoti contro una corazzata mediatica come quella della De Filippi?

Piotta: Anche se i tempi sono quelli che sono, vige ancora un sano e libero diritto al confronto democratico. Per mia attitudine e per il mio percorso musicale mi piace esternare le mie idee in una maniera un po’ più pungente: qualcuno ha definito il titolo del mio album una parodia, ma credo sia riduttivo, è molto più sarcastico di così. A Roma c’è una fontana, in Piazza Navona, dove durante il potere temporale della chiesa ogni notte un tale di nome Pasquino lasciava un pensiero in rima contro il Vaticano: ecco, la mia potrebbe essere definita una pasquinata! Affidarsi alla forza della parola è tipico del rap, anche se questo non è un album rap in senso stretto.

B: A proposito di questo, tu sei stato uno dei primi ad affermare il principio secondo cui un album che non suona necessariamente rap può comunque rientrare nella sfera della cultura hip hop, e a tratti sei stato molto criticato per questo. Oggi molti altri sembrano essere giunti alla tua stessa conclusione…

P: La mia non è mai stata una mossa calcolata, con fini discografici o economici. Anzi, a livello economico è molto più dispendioso fare un disco con i musicisti, perché devi registrare tutti gli strumenti dal vivo. Io mi annoio sempre un po’ all’idea di rifare qualcosa che ho già fatto: vale per le canzoni, per l’approccio alla musica, per i contenuti e per il suono. E non mi piace l’idea di fare un disco sulla falsa riga di ciò che va di moda all’estero, preferisco pescare dalla nostra tradizione sonora. Però non voglio dare un taglio netto con il passato: resto fedele all’hip hop, ma cercando un suono a tratti più aggressivo, che si contamina con il rock, e a tratti più solare grazie all’impronta del reggae. Ho sempre amato molto i ritmi in levare, sia da ascoltatore che da discografico, tant’è che con La Grande Onda sto producendo diversi artisti reggae: da Virtus, un ragazzo di Roma che canta anche in patwa e già suona in tutta Europa, a Mattune, un ragazzo salentino che ha un sound che ricorda un po’ la taranta, fino agli Inna Cantina, una band romana dall’impronta raggamuffin.

B: A proposito di origini e radici, quest’album contiene anche una collaborazione con Afrika Bambaataa, il padre nobile dell’hip hop. Come è nata?

P: Anche se sono una persona di solito molto razionale, stavolta sembrava quasi destino! Ovviamente, come tutti coloro che si sono appassionati di hip hop negli anni, la mia stima nei confronti di Bambaataa è enorme. Non mi era mai capitata l’occasione di conoscerlo, finché un giorno l’anno scorso ho fatto una data a Torino. Sulla via del ritorno ci siamo fermati in Autogrill dalle parti di Piacenza, entra il mio tour manager e mi dice che al self service c’è Afrika Bambaataa. Non volevo crederci! Io di solito non vado mai a presentarmi, a meno che non siamo nel backstage insieme, ma in questo caso ho fatto un’eccezione perché lo considero davvero come un fratello maggiore. Lui è stato gentilissimo, mi ha perfino lasciato il suo biglietto da visita dicendomi di mandargli il mio materiale.

B: E da lì e nato tutto…

P: In realtà no! (ride) Quella mail non ho mai voluto usarla, non mi sembrava il caso. Passa qualche mese, io sono sempre in tour, e quando mi capita un sospirato day off a Roma decido di usarlo per andare al mare da solo, per rilassarmi. Tornando dalla spiaggia sono fermo al semaforo, sto trafficando con l’autoradio e con la coda dell’occhio vedo l’ombra gigantesca di un pedone che attraversa la strada: alzo lo sguardo e vedo che è proprio lui, Bambaataa! Scendo dalla macchina, lo chiamo, gli ricordo chi sono, gli chiedo cosa ci fa lì; lui mi dice che è in città qualche giorno per suonare e sta cercando il suo albergo. Mi offro di accompagnarlo. In quei giorni restiamo in contatto e a quel punto mi faccio coraggio e gli racconto timidamente che sto registrando un disco e che sarei onorato di averlo ospite. Lui mi ha risposto di sì, spiegando che gli piacevo come persona e gli piaceva anche il mio eclettismo nel mischiare i generi musicali. Siamo andati subito in studio e nel giro di qualche ora abbiamo registrato due pezzi, tra cui Rise up che poi è finito nell’album.

B: Sembra una favola!

P: Già! E dimostra quanto sia sbagliato il concetto che stiamo inculcando ai ragazzini di oggi: i featuring non si fanno per soldi. Certo, quelli tra Madonna e Nicki Minaj hanno senz’altro le loro regole, ma quello tra due artisti che puntano all’aspetto creativo deve essere bastato su altro: rispetto, stima, affinità. Come in questo caso, e come nel caso di tutti gli altri ospiti di Nemici.

B: A proposito di cattive abitudini dei rapper italiani di oggi, tolto l’omonimo intro Nemici apri l’album con un brano intitolato Logo, in cui parli del fatto che oggi brandizzare se stessi è diventata praticamente una necessità. È davvero indispensabile?

P: Da quando ci sono i social network, Facebook in particolare, tutti noi siamo diventati dei personaggi e ragioniamo da personaggi: che uno abbia cinque milioni di fan o cinquemila amici cambia poco, perché quando scrivi un post lo fai comunque per piacere a quel tuo potenziale pubblico, anche se è un pubblico ristretto e conosciuto. Un’attitudine da marketing, di fatto, che ti spinge a scrivere cose che magari non pensi in assoluto, ma che ti fanno ottenere più like. Se è così nella vita di tutti i giorni, figurati nella musica… Ma un’altra strada è possibile: per quanto mi riguarda il mio personaggio l’ho sacrificato, perché stava prevalendo sulla persona. Non ho voluto portare avanti la maschera del Supercafone, che a livello commerciale mi avrebbe fatto molto gioco: è una canzone che amo, se tornassi indietro la rifarei, ma non voglio fossilizzarmi su quello. Non mi piace ripetermi e stimo chi non lo fa, tipo Battiato: non sai mai cosa aspettarti dal suo progetto successivo.

B: Hai deciso da subito che non avresti sfruttato l’onda lunga del successo di Supercafone, oppure per un po’ la tentazione c’è stata?

P: No, ho preso quella decisione abbastanza istintivamente. Oddio, forse La mossa del giaguaro era ancora abbastanza simile al Supercafone. Ma sono state scritte la stessa estate – anche se non sembra, perché erano state inserite in due album diversi – in un periodo in cui ascoltavo molto funk e molta disco, quindi è normale che abbiano delle somiglianze. Ho sempre avuto l’idea di citare più mondi musicali, ma essendo nato come dj lo sapevo fare solo attraverso l’utilizzo dei sample. Con il passare degli anni, invece, soprattutto da La grande onda in poi, mi sono avvicinato alla musica strumentale e ho studiato per riuscire a tradurre le mie idee in un linguaggio comprensibile ai musicisti con cui collaboro. Non è un lavoro semplice: bisogna essere chiari e decisi, perché se no il rischio è di ritrovarti con un album completamente diverso da quello che avresti voluto fare.

B: Passando dal serio al faceto, hai dedicato lo skit Who is Pagnotta alla giornalista che durante una diretta dal concertone del Primo Maggio ti ha chiamato per sbaglio Er Pagnotta…

P: Bisogna essere autoironici se si vuole fare ironia nei confronti degli altri, per cui mi piaceva ricordare questo episodio assurdo e sopra le righe che mi ha visto protagonista. La giornalista in questione non si occupa di musica di solito, quindi si è incartata in diretta sul mio nome; Ficarra e Picone hanno ripreso la gaffe a Striscia la Notizia, e quindi alla fine è diventata famosa. Per lo skit ho ripreso una canzone techno che andava molto quando io ho iniziato a fare il dj e ripeteva continuamente “Who is Elvis?”.

B: Tornando a cose più importanti, invece, nell’album ci sono due brani che parlano di donne: il primo, BBW, è un inno alla bellezza delle ragazze normali e in carne, mentre il secondo, Barbara, sviscera un tema che ultimamente è al centro delle cronache, ovvero la violenza fisica e psicologica che spesso le donne subiscono…

P: Le nostre donne e le nostre mamme hanno fatto tanto per sganciare la figura della donna dai cliché imposti dai maschi, e quindi trovo sbagliato portare avanti l’atteggiamento machista che va per la maggiore nel rap italiano di oggi. Barbara è una canzone molto amara e intima, tant’è che non credo che la suonerò nei miei concerti, non sarebbe adatta alla situazione. BBW invece è una canzone più leggera, almeno in apparenza, perché dietro all’omaggio alle ragazze con qualche chilo in più si nasconde una critica a chi cerca di spillare soldi alle donne convincendole che hanno bisogno di un certo tipo di dieta, un certo tipo di look, trattamenti pericolosi per la salute e chi più ne ha, più ne metta. Trascinandole oltretutto verso una perenne frustrazione di fondo, perché il modello proposto dalle riviste patinate è irraggiungibile in quanto creato con Photoshop.

B: Curiosità: è vero che sei stato invitato a partecipare a diversi talent e reality show nel corso degli anni?

P: Finora sono a quota cinque: due edizioni dell’Isola dei Famosi compresa l’ultima, Music Farm, il prestigiosissimo La Talpa e infine un Grande Fratello in qualità di ospite speciale (dovevo cantare La Grande Onda in onore di Floriana che si apprestava a vincere). Ho sempre declinato gentilmente, e a volte anche non troppo gentilmente. Se nel 2002 può starci che mi propongano di cantare la mia canzone di punta al Grande Fratello, è francamente assurdo che nel 2015 mi chiamino per partecipare all’Isola, quando è evidente che non c’entro assolutamente nulla con quel mondo. È facile cadere in tentazione, i soldi che offrono sono parecchi, ma per me il gioco non vale la candela: per anni ho litigato con i miei genitori perché avevo deciso di fare musica anziché fare l’avvocato com’era previsto all’inizio, e adesso dopo tanti sacrifici voglio fare musica, appunto, e non inseguire la visibilità e il successo ad ogni costo distruggendo la mia credibilità di artista. Sono felice della mia attività e non voglio trovarmi costretto a frequentare giri che mi fanno schifo. Grazie alla rete, oltretutto, oggi non c’è più bisogno di andare per forza in radio e in tv per farsi conoscere; se vengo invitato per fare qualcosa che ha a che fare con me e il messaggio che voglio trasmettere, vado volentieri, altrimenti se devo fare il pagliaccio rinuncio senza problemi.

B: Un’altra curiosità, che non so se sia una leggenda metropolitana o no: la tua pagina Wikipedia riporta che nel 2008 hai scritto l’inno ufficiale del V-Day, manifestazione legata al Movimento 5 Stelle. Ben prima che Fedez ne scrivesse l’inno, tra l’altro…

P: Ero sicuro che prima o poi sarebbe spuntato fuori un gancio con Fedez! (ride) Scherzi a parte, è tutto vero: l’ho scritto con Leo Pari, un cantautore romano. Lo cantammo anche durante la manifestazione. Ai tempi ero ingenuamente convinto che Grillo non sarebbe mai sceso davvero in politica e che dietro di lui non ci fosse tutto ciò che ora intuiamo. Pensavo che ci mettesse la faccia per impegno sociale, e magari anche per un ritorno di immagine. Quando però mi sono ritrovato a Torino sul palco del V-Day ho capito che le cose stavano diversamente: la comunicazione era gestita come una macchina da guerra, il palco e l’organizzazione erano di proporzioni simili a quelle del primo maggio. Insomma, l’investimento era davvero notevole, era evidente che non volevano fermarsi ad essere un movimento civile.

B: Lo rifaresti, quindi?

P: In generale non scriverei mai l’inno per un partito, e infatti quella volta l’ho fatto perché non pensavo che il M5S sarebbe diventato un partito.

B: A proposito di cose che hai fatto in passato, hai anche firmato la regia e la sceneggiatura di un film, La mossa del giaguaro. Anche in questo caso la domanda è la stessa: lo rifaresti?

P: Penso che di tutte le cose che ho fatto nella mia carriera, quel film sia la più brutta! (ride) Col senno di poi lo rifarei comunque: essendo di Roma sono cresciuto con il mito del cinema e non capita tutti i giorni di poter curare un lungometraggio in tutto e per tutto, dalle musiche ai dialoghi. Però a essere oggettivi era una situazione più grande di me. Mi sono ritrovato a dover gestire una cinquantina di persone senza avere il carisma e l’esperienza necessaria per traghettare tutti verso la mia idea finale: sarebbe stato meglio affidarsi a qualcuno che potesse darmi una mano a decifrare quel mondo, anziché cercare di cavarmela solo. Io volevo fare un film sporco, alla Tarantino, mentre la produzione pensava a una commedia per famiglie, e alla fine è uscita fuori una cosa un po’ confusa che non era né l’una, né l’altra. In quei mesi ero davvero esaurito, cercavo di seguire la lavorazione sotto ogni profilo e nulla sembrava andare per il verso giusto. L’unico aspetto di cui sono davvero soddisfatto è la colonna sonora, con Danilo Rea al pianoforte. Insomma, basta cinema. O meglio, sì a qualche incursione toccata e fuga – canzoni per colonne sonore, partecipazioni a un corto, produzione di docu-film – ma niente di più.

B: Cambiando argomento, nella scena italiana sei stato tra i primissimi a credere nelle potenzialità dell’apertura di un’etichetta indipendente. Oggi che spuntano nuove etichette ogni giorno, che consiglio daresti ai tuoi giovani emulatori?

P: Un conto è essere un’etichetta anche a livello fiscale, un conto è dire “Siamo un’etichetta” e basta. Per fare un esempio, Robba Coatta era una crew che stampava dei loghi sui propri prodotti, mentre La Grande Onda è una vera e propria label. Il mio consiglio è il seguente: se decidete di fondare un’etichetta perché non c’è nessun altro disposto a farvi un contratto, lasciate perdere. Non serve a niente, o meglio, non cambia niente, tanto vale autoprodursi. Io l’ho fatto perché avevo già la mia attività di produttore e ci tenevo a fare quello che volevo e come lo volevo, promuovendo artisti validi. C’è chi lo fa per fare a gara con le multinazionali della discografia, e quello secondo me non ha senso.

B: Last but not least: progetti futuri?

P: Il 30 maggio partirà il tour al Magnolia: sono oltre due ore di show, con musica vecchia, musica nuova, riletture e mash-up. Credo che la dimensione live sia quella dove riesco a raccontare meglio chi sono, quindi non vedo l’ora. Con La Grande Onda, invece, siamo in uscita con l’album dei già citati Inna Cantina, con il mixtape di Marti Stone e con l’album di Janahdan. È in arrivo anche un mixtape de La Grande Onda che sarà allegato a Hit Mania, la famosa compilation di sapore anni già dagli ’90. Arriverà anche in posti dove ormai la musica è tabù: centri commerciali, stazioni di servizio e via dicendo. È questa la nostra missione! (ride)