HOTMC

Cinema in rima: intervista a Luca Gricinella

29-10-2013 Reiser

Cinema in rima: intervista a Luca Gricinella

Luca Gricinella – giornalista e scrittore – era già stato ospitato su HotMC in occasione dell’uscita del suo libro precedente, Rapropos. Sempre per i tipi di Agenzia X, il prossimo 6 novembre uscirà in libreria Cinema in rima, opera che si prefigge di illustrare la reciproca contaminazione tra hip hop e celluloide. Dato l’argomento, sarebbe stato peccaminoso lasciarsi sfuggire un’intervista, ed ecco quindi il risultato di una chiaccherata piuttosto lunga con Luca, che ci aiuterà a trovare il fil rouge tra Melvin van Peebles e Jim Jarmusch, tra Dennis Hopper e Cam’Ron e tra Gabriele Salvatores e gli Articolo 31. Però non mi sembra il caso di spoilerare troppo; prima di lasciar spazio all’intervista, vi segnalo che la presentazione ufficiale del libro si terrà all’Ostello Bello il 24 di novembre. Nel frattempo, potete seguire Luca anche sul suo blog BlaLuca. Buona lettura.

Reiser: Parto con una domanda tanto banale quanto necessaria: cosa ti ha spinto a scrivere un libro che si cimenta nell’impresa – non facile – di ricostruire i gradi di separazione tra hip hop e cinema?

Luca Gricinella: Innanzitutto è una questione di interessi personali. Da un lato, infatti, seguo e ascolto rap più o meno dall’89/90, e dall’altro ho studiato alla Civica scuola di cinema; perciò mi è venuto spontaneo unire le due aree in cui ritengo di avere delle competenze. In secondo luogo, negli anni mi sono accorto di come nell’hip hop sia diventata quasi una consuetudine passare dall’ambito musicale a quello cinematografico: non mi riferisco solo agli Stati Uniti ma anche alle scene europee, specie le più evolute, prima fra esse la Francia, dove Joey Starr è ormai quasi più famoso come attore che come rapper. E non solo lui: penso ad Akhenaton o persino ai La Rumeur, che nonostante siano piuttosto underground sono comunque stati chiamati da Canal+ per scrivere e dirigere un lungometraggio che racconta la storia di una rapper (De l’encre, 2011). Individuata questa tendenza, per scrivere il libro ho intensificato le ricerche, trovando diversi spunti interessanti sulla materia e alcuni dei quali ho riproposto nel mio libro. Ce n’è uno in particolare che trovo rivelatore: citando la scena de L’Odio in cui Vincent Cassel fa il verso a Travis Bickle, si spiega giustamente che non si tratta di citazionismo autoriale di Kassovitz, bensì di una rappresentazione di certe abitudini proprie dei giovani delle banlieues – più in generale, di ogni periferia urbana – che spesso e volentieri si nutrono di miti cinematografici e li reinterpretano nella vita di tutti i giorni per tentare una fuga dalla realtà. Anche tenendo presente che l’hip hop nasce proprio nei sobborghi (nell’accezione italiana), è un cerchio che si chiude: il cinema ha influenzato la cultura hip hop, la quale a sua volta lo reinserisce nel suo tipo di narrazione, che poi torna ad essere cinematografica.

R.: Parlando appunto di reciproche influenze, a me sembra però che, tolta una breve parentesi a cavallo degli anni ’80 e ’90, quello che chiamiamo adesso “cinema hip hop” non abbia lasciato un marchio netto e ben definito. In altre parole, dopo pellicole fortemente identitarie come Fa’ la cosa giusta o Boyz ‘n’ the hood, mi sembra che un certo tipo d’identità si sia annacquata. E questo vale doppiamente per paesi con una cultura e tradizione cinematografica molto forti, come appunto la Francia.

L.G.: In parte ti do ragione, e difatti – a costo di tirarmi la zappa sui piedi – parlare di “cinema hip hop” in senso stretto è sbagliato; è una definizione che possiamo usare per convenzione linguistica, ma nel libro spiego proprio che non si tratta di un filone. Ciò detto, è innegabile la forte influenza esercitata dall’hip hop nell’arco di trent’anni sulla maggioranza delle produzioni che abbiano a che fare con delle realtà urbane, per fare un esempio emblematico. Te ne faccio un altro specifico e differente: Ghost Dog non è un “film hip hop”, eppure i rimandi, le intuizioni e le provocazioni che ci infila Jim Jarmusch mostrano proprio quanto la società (non solo americana) abbia assimilato quel tipo di cultura ed estetica – vedi ad esempio la scena in cui il mafioso italoamericano fa il verso a Flavor Flav. Potrei fare una serie di altri esempi, ma il senso è che il marchio netto lo sta lasciando il rapporto tra rap e cultura popolare, in particolare tra rap e cinema e, andando ancora oltre, tra rap e finzione (o messa in scena, che dir si voglia).

R.: Rispetto alla Blaxploitation, che era un vero filone con una forte componente culturale ed estetica sovversiva rispetto agli standard dell’epoca, ritieni quindi che l’influenza ci sia stata ma abbia agito in maniera più sotterranea?

L.G.: Sì – più tra le righe. Teniamo conto che diverse pellicole della Blaxploitation sono state girate da registi bianchi, in sostanza culturalmente “esterni” alle realtà descritte nelle pellicole, al contrario di quanto è avvenuto con la generazione di filmmaker afroamericani di fine anni ’80 – a cui va dato atto di aver messo in luce una volta per tutte questo rapporto privilegiato tra arti. E questa differenza è significativa perché questi ultimi, diversamente dai primi, sono cresciuti in un contesto dove la cultura hip hop era di fatto onnipresente, ed era inevitabile che le loro opere la contenessero in maniera più sottile, o, se vogliamo, “integrata”, non solo a commento, e in maniera esteticamente esplicita.

R.: Che, nella pratica, è ciò che scrivi in merito alla differenza che passa tra Colors e le opere di John Singleton o dei fratelli Hughes: si passa cioè da una narrazione esterna, quindi per certi versi anche stereotipata, ad una dall’interno e quindi solo apparentemente meno forte.

L.G.: Esatto. In Colors la prospettiva cardine è quella di due poliziotti bianchi che si trovano ad agire sullo sfondo di una guerra tra gang nere e latine, mentre in un Menace II Society, per esempio, i protagonisti vivono in prima persona la guerra tra gang, sono degli interni. E questo è un punto di vista che Dennis Hopper, quand’anche avesse voluto restituirlo, non avrebbe comunque potuto rendere in maniera ugualmente realistica e forte.

R.: Cosa che invece anni dopo hanno saputo fare gli sceneggiatori di The Wire, per dirne una.

L.G.: Sì, una serie tv molto prossima al cinema, che cito infatti nella breve introduzione alla filmografia e le cui ambientazioni dimostrano che un’eredità culturale di quella stagione di filmmaker afroamericani c’è stata, eccome.

R.: Tornando per un attimo alla generazione di registi di cui stavamo parlando – Spike Lee, John Singleton eccetera – è singolare quanto i film dell’epoca rispecchiassero in tempo reale i mutamenti in corso in ambito musicale, dall’afrocentrismo dei Native Tongues al gangsta rap di Ice Cube. Ora: alla luce del ruolo che ha (involontariamente?) giocato la musica e la cultura hip hop nella stesura di certe sceneggiature, e tenendo conto di quanto oggi il rap sia pop in senso lato, pensi che potrà esserci un nuovo ciclo di registi così “identitario”?

L.G.: Condivido la tua osservazione sui mutamenti musicali. Aggiungerei banalmente che i tempi odierni sono ben differenti da quell’epoca che – di fatto – ha abbattuto dei muri. Del resto, oramai i produttori cinematografici puntano direttamente su film che contengono esplicitamente elementi hip hop. Vedi innanzitutto quel filone contemporaneo che definirei “teen urban movie”, che va da Save the last dance in giù, e in cui il canovaccio prevede immancabilmente l’incontro, se non proprio l’amore, tra una qualche danzatrice classica con una realtà di breaker o meglio – come ormai si è portati a definirli – di “ballerini hip hop”. Sulla cosiddetta danza hip hop a dirla tutta ci sarebbe da fare varie precisazioni perché resta un concetto abbastanza confuso, ma la natura di certe mosse e di certo look è evidente. Poi ci sono le biopic, come quella su Notorious B.I.G. o quella su 50 Cent; sono opere che hanno ovviamente a che vedere con l’hip hop, ma non è più quello il loro tratto distintivo, dato che raccontano prima di tutto una storia umana che in qualche modo trascende e mette in secondo piano la professione dei protagonisti. Per avere un nuovo ciclo di registi così “identitario”, come lo definisci tu, credo debba succedere qualcosa a livello sociale. Magari questa crisi sta facendo in modo che accada, e forse The wire sarà considerato un precursore di questo ipotetico nuovo ciclo, perché già la scelta di ambientarlo in una città complicata come Baltimora la dice lunga.

R.: Quanto invece film ghettusi di serie Z, di cui non parli molto nel libro…

L.G.: Tipo How high?

R.: No, molto peggio: intendo i hood movies girati con la fotocamera del Nokia, tipo Baller Blockin, Killa Season o Murda Muzik.

L.G.: Alcuni – Murda Muzik, per dire – li menziono comunque nella filmografia dei film non citati, ma ho preferito non scriverne esaustivamente per una questione di linea editoriale. Volevo infatti proporre un libro che risultasse accessibile anche e magari soprattutto a chi non mastica hip hop e, di conseguenza, ho scelto dei macrotemi significativi e riconoscibili un po’ da chiunque; quindi era inevitabile fare una cernita di titoli e, tra quelli che rientrano nella definizione di hood movies, ho preferito piuttosto inserire titoli meno di nicchia e meno autocelebrativi e, soprattutto, che aggiungessero valore all’analisi, come Belly, per esempio. Lo stesso discorso di fruibilità vale anche per i film che a loro volta hanno influenzato la musica: mentre cito, che so, Scarface, ho preferito non inserire tutti i film di kung fu che si è guardato RZA, altrimenti sarebbe venuto fuori un libro molto diverso. Pur reputando impossibile fornire una visione completa su questa relazione tra rap e cinema, ci tengo però a precisare che ho evitato di concentrarmi solo su alcune tendenze, che magari reputo più valide, tralasciandone altre che, al di là dei miei gusti personali, sono oggettivamente altrettanto importanti. Vedi appunto i teen urban movies di cui parlavamo prima: non potevo ignorarli. Per cui, riassumendo, ho preferito accennare a una parte di questi sottogeneri in maniera più “generica” ma lasciando comunque degli indizi, cosicché chi lo volesse può comunque approfondire l’argomento. Non mi interessava fare un dizionario. Il primo proposito era quello di descrivere questo intenso rapporto tra due arti indagando sulle ragioni dello stesso.

R.: Infine, dedichi dello spazio anche al “cinema hip hop” del Belpaese, guardando – inevitabilmente – al passato: Zora la vampira, Torino boys, ma anche Sud di Salvatores. Stante la situazione attuale, secondo te potremo mai girare un film che sappia rappresentare in un qualche modo lo stato dell’hip hop in Italia?

L.G.: Dipende da come lo s’intende. Premetto che, piaccia o non piaccia, oggi il rap italiano rappresenta nel bene e nel male quello che è il Paese, a prescindere da cosa è, potrebbe o “dovrebbe” essere il rap. Anche considerando che il rap, in vari modi che variano da nazione a nazione, è entrato quasi ovunque nell’immaginario popolare, se mai qualcuno vorrà mettere in piedi una produzione simile dovrà senz’altro fare i conti con il grande pubblico e con la sua conoscenza dell’hip hop. Non dico che bisognerà assecondarlo ma neanche peccare di presunzione. Alla fine non è detto che ci si ritrovi in mano con qualcosa come Sud, che pur in buona fede restituiva un’immagine distorta e incompleta del movimento dell’epoca e della cultura di riferimento, e nemmeno con un nuovo Senza filtro, che era oggettivamente scritto e pensato esclusivamente per i fan degli Articolo 31 di allora. Mi viene da dire che sarebbe interessante, e secondo me possibile, girare qualcosa che possa partire dal particolare per toccare temi più universali e di maggior interesse, un po’ come è stato fatto per esempio con Dogtown and Z-Boys, che è un documentario che cito spesso perché ha coinvolto anche gente a cui non frega un cazzo della cultura skate californiana degli anni ’70. Con la finzione magari è un po’ più difficile ma credo che storie italiane dal respiro universale in cui ci sia di mezzo il rap esistano. Per esempio, l’anno scorso, prima di vedere Alì ha gli occhi azzurri, una volta che sono venuto a conoscenza della storia mi aspettavo in qualche modo la presenza dell’hip hop, che invece non c’è… Non che questo incida sul valore del film, sia chiaro. Mi limito a notare che con quell’ambientazione poteva starci.

R.: Qualcuno che lo possa realizzare in Italia, secondo te, c’è?

L.G.: Beh, sì, certamente. Perché no? Se poi vuoi sapere se può essere un film che parta dall’interno della scena hip hop o in cui questa abbia un ruolo, ho qualche dubbio, soprattutto alla luce dell’approssimazione comunicativa dimostrata in seguito alle polemiche scoppiate nell’ultimo anno sui vari social network. La scena hip hop italiana, come è risaputo, spesso si protegge chiudendosi a riccio . Per carità, talvolta ha anche delle valide ragioni storiche e di attualità per farlo. Però, ecco, spero che la chiusura non serva in realtà a nascondere delle carenze culturali, perché così facendo ci si precluderebbero delle opportunità potenzialmente importanti. Allo stesso modo sta anche ai cineasti aprirsi senza pregiudizi: quelli che negli anni ’90 si sono avvicinati al rap ne condividevano dei tratti culturali la cui rilevanza per lo più è rientrata… se ora i cineasti italiani si sentono lontani dal nostro rap, direi che è il momento di avvicinarsi alla materia e approfondire. Anche in questo caso vanno solo trovati i canali giusti.