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Speciale Fly Girls: intervista a Sookee

28-10-2013 Marta Blumi Tripodi

Speciale Fly Girls: intervista a Sookee

Sorpresa: il nostro speciale Fly Girls abbandona momentaneamente il suolo patrio e si sposta in Germania, paese d’origine di Sookee, una delle rapper più singolari e interessanti del panorama europeo. La ragazza in questione è molto apprezzata in patria, soprattutto dalla scena alternativa e underground, dove è celebre non solo per la sua musica, ma anche per le sue battaglie civili. Sookee, infatti, è una esponente del cosiddetto queer rap, che potrebbe essere banalmente definito “rap omosessuale”, ma in realtà è molto di più, come scoprirete se proseguirete nella lettura di questa intervista. Inoltre è molto impegnata anche sul fronte dell’attivismo politico, del femminismo e dell’antifascismo. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lei alla vigilia della sua unica data italiana: domani (30 ottobre) suonerà infatti a Bologna in occasione di Soggettiva, una rassegna di cultura lesbica contemporanea nell’ambito del Gender Bender Festival (ebbene sì, è un evento gay, astenersi omofobi militanti – che comunque, ne restiamo convinti, sono più numerosi in altre scene musicali che nel rap italiano, che è molto più aperto mentalmente di quanto non sembri ai profani). Le recensioni dei suoi live sono sempre ottime, quindi vi suggeriamo di fare un salto, se siete da quelle parti. E di leggere questa chiacchierata, molto interessante sotto diversi punti di vista.

Blumi: Cenni biografici.

Sookee: Sono nata nella ex Repubblica Democratica Tedesca, la DDR, nel 1983. I miei genitori hanno avuto la rara opportunità di lasciare il paese nel 1986 e di trasferirsi a Berlino Ovest, perché erano degli oppositori politici. Fino a poco tempo fa facevo l’insegnante e coordinavo un progetto su giovani e cultura, ma ora, per fortuna, riesco a vivere concentrandomi semplicemente su hip hop e attivismo, in particolare antifascista e femminista.

B: Quando ti sei innamorata dell’hip hop?

S: Quando ero bambina l’astuccio di mia sorella era decorato con il pezzo di un writer. Mi piaceva lo stile del disegno, i colori, la forma. Negli anni, poi, ho scoperto che c’erano anche il rap, il djing, la breakdance, il beatboxing e tutte le altre bellissime espressioni culturali proprie dell’hip hop. Mi ci è voluto un po’ per attivarmi anch’io, perché ero molto intimidita dalla predominanza maschile nella scena. Ma alla fine ce l’ho fatta a modo mio, e ora l’hip hop è sia la mia passione che la mia professione.

B: Pratichi qualche altra disciplina, a parte il rap?

S: Anche se il mio primo approccio con l’hip hop è stato tramite i graffiti, le mie skillz in merito non brillano granché. Non pratico nessuna delle altre discipline “tradizionali”, ma visto che mi impegno in prima persona per combattere la discriminazione, il sessismo, l’omofobia e la transfobia, nonché per combattere la società patriarcale, razzista e classista che è responsabile dell’intero scenario attuale, mi sento più di una semplice rapper.

B: Qual è stato il momento in cui hai capito che la gente cominciava a prendere davvero sul serio il tuo messaggio, e che forse eri finalmente a una svolta?

S: Ho rotto con gran parte dei miei vecchi soci nel 2008. Non ne potevo più dei loro sottointesi sessisti e omofobi, sia grandi che piccoli, e di tutto il resto. Di conseguenza non avevo più nessuno con cui suonare, scrivere, registrare. Niente palchi, pubblico, feedback. Temevo di dover smettere di fare rap a causa di tutto questo. Però poi ho partecipato a We B* Girlz, un festival di hip hop al femminile organizzato a Berlino, e lì ho incontrato delle persone che mi hanno aiutato a ricreare la struttura che avevo appena perso. Si esibivano in posti in cui i messaggi di emancipazione erano i benvenuti, dove il sessismo e l’omofobia erano totalmente rifiutati e dove le donne non erano trattate come oggetti sessuali – o almeno, molto meno del solito. Quando queste persone mi hanno invitato ad entrare nel loro giro, ho capito che non era la fine di tutto, ma l’inizio.

B: Quanti album hai pubblicato finora?

S: Finora, tre album e due EP. Il prossimo EP non è ancora uscito ma l’ho già registrato, e il mio nuovo album sarà fuori nell’aprile 2014. Faccio parte di una piccola ma ottima etichetta, la Springstoff, che lavora molto bene e il cui aspetto più positivo è che chiunque abbia un rapporto professionale con loro si trova sempre molto a suo agio. Non vogliamo imitare i colossi dell’industria musicale, non vogliamo metterci addosso pressione per fare numeri e rientrare nelle statistiche. Vogliamo essere liberi e indipendenti, perciò cerchiamo di prendere delle decisioni intelligenti che ci facciano crescere.

B: Descrivi la tua musica per chi non la conosce ancora.

S: A livello di suono sono piuttosto eclettica: ogni beat e ogni arrangiamento è differente. Non c’è un’estetica del suono rigida che mi fa scegliere solo boom bap o strumentali con campioni piuttosto che dubstep. Mi piace mescolare di tutto, tanto che nei miei set live ho anche strumenti musicali veri e propri, sia presi dal pop che dalla musica classica. Riguardo invece ai contenuti, c’è divertimento, politica e un po’ di representing. Parlo molto di come funziona la società, di come siamo coinvolti anche noi nelle questioni politiche. Le mie liriche riflettono il mio attivismo politico e viceversa. Ma parlo anche di star bene con se stessi, di essere onesti con se stessi, di amicizia, amore, relazioni e di tutti i vari argomenti che toccano la sfera interpersonale.

B: Perché pensi che la percentuale ragazze/ragazzi nell’hip hop sia così sfavorevole per le donne?

S: Quella dell’hip hop viene considerata una scena aggressiva e competitiva, dove la gente sgomita per essere ascoltata. Visto che le donne vengono considerate deboli e sensibili, cosa che ovviamente è solo uno stupido stereotipo, raccontano che nell’hip hop per loro non c’è spazio. Il problema sta tutto qui: triste ma vero. Se una ragazza riesce a farsi strada nella scena, o si ritrova ancorata a cosiddetti “temi femminili” (rappresenta per look e stile, ma resta fuori dai giochi dei maschi), o si comporta come un uomo, negando la propria femminilità. Ci sono un paio di eccezioni, ma in generale è così. Moltissime donne sono sfinite da questa situazione, anche se non si considerano femministe, perché sentono addosso il giudizio dei maschi e le aspettative di un certo tipo che gli altri si fanno su di loro. Alcune cercano di affrontare la cosa, altre abbandonano il campo da gioco prima ancora di aver avuto la possibilità di farsi conoscere e ad alcune, più semplicemente, non frega un cazzo di tutto ciò.

B: Secondo te che tipo di pregiudizi esistono nei confronti di una rapper donna o di un rapper gay, per esempio?

S: Come ho detto, stereotipi e cliché influenzano molto le cose. Le donne e gli uomini che “sembrano donne”, che siano gay o che non siano virili abbastanza, sono considerati meno degli altri. E’ così. Inoltre, spesso la gente pensa che non abbiano abbastanza talento. Ma se non hai la possibilità di esibirti su un palco di fronte a un pubblico, non avrai mai neanche la possibilità di migliorare. E se non sei abbastanza bravo non ti inviteranno mai a salire su un palco, e via dicendo; a volte mi sembra che sia un grande circolo vizioso. Oltretutto se le donne e/o gli omosessuali cercano di fare le cose per conto loro, per rafforzarsi, li accusano di separatismo.

B: Più in generale, invece: com’è la scena hip hop tedesca?

S: Nei primi anni ’90 il rap politico degli immigrati ha dato vita al genere. Dopo i ragazzi bianchi hanno preso il sopravvento e hanno creato una musica che era per metà party e per metà politica. All’inizio del millennio gangsta rap e battle rap sono diventati il genere dominante in Germania e hanno diffuso molta misoginia, omofobia e transfobia. Negli ultimo due o tre anni lo spettro si è allargato un po’ di più: c’è ancora un sacco di gangsta rap e battle rap, ma anche l’hipsterismo, il conscious rap e il party rap hanno trovato un po’ più di spazio, così come le tematiche patriottiche. Adesso è ora che anche il rap antifascista e il queer rap riescano a farsi ascoltare.

B: Ecco, a proposito: cos’è il queer rap?

S: Non sono qui per definire cos’è o cosa non è il queer rap: posso solo parlare per me stessa. Considero la mia musica queer perché la mia vita è queer, nel senso che non sono etero, voglio lanciare una sfida alla regola secondo cui esistono solo due generi (maschile e femminile) e ho un approccio ibrido ai privilegi e alle discriminazioni di questa società.

B: Ci fai i nomi di qualche rapper queer che dovremmo assolutamente ascoltare?

S: Specifico che alcuni di loro sono queer rapper dichiarati, per altri invece è la mia percezione e la mia sensibilità che mi portano a classificare il loro lavoro come queer. Comunque, vi raccomando caldamente Amplify Dot, Mykki Blanco, Angel Haze, Cakes da Killa, Shirlette Ammons, Bad Kat, Le1f e Zebra Katz.

B: Ti sei inventata la parola Quing, che mescola i termini King e Queen. Da dove arriva l’idea?

S: Cercavo un’espressione che rappresentasse quello che faccio. Mi chiedevo se ci fosse un’immagine o una parola che potesse calzare bene. La maggior parte delle immagini, dei termini e delle metafore che rappresentano il rap al femminile non mi si addicevano molto bene, non mi ci sentivo a mio agio. La mia idea era di sfidare tutte quelle norme rigidissime e quegli stereotipi contro cui combattiamo ogni giorno: volevo irritare, ma in una maniera costruttiva e positiva, mischiando le carte in tavola e creando qualcosa di nuovo. Queen e King sono termini nobiliari, usati però per definire personaggi di spicco del rap game. Ho pensato che fosse una bella idea remixarli, per dare un messaggio forte. Credo di aver fatto un buon lavoro perché ora la gente che la pensa come me si autodefinisce proprio “Quing”.

B: Hai dichiarato che secondo te la Germania è una nazione razzista e omofoba: eppure, visto dall’Italia, sembra un paese molto più aperto e tollerante del nostro…

S: Non c’è dubbio, ci sono nazioni che sono più razziste, sessiste e omofobe della Germania, ma questo non mi fa sentire meglio all’idea di vivere nella società tedesca. Ci sono tantissime ragioni per cui considero la Germania problematica a livello politico, istituzionale e discorsivo. I tedeschi si danno arie di apertura mentale e liberale di fronte agli stranieri, visto che abbiamo una cancelliera donna e un ministro degli esteri gay, ma sfortunatamente nella pratica non significa molto. La Germania è xenofoba, patriarcale, capitalista, ed è una cosa davvero ovvia agli occhi delle persone sensibili ai temi della giustizia sociale.