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Big Fish: l’intervista

21-10-2013 Marta Blumi Tripodi

Big Fish: l’intervista

E’ uno dei producer italiani che ha maggiormente saputo rinnovarsi con gli anni (anche se molti intenderanno questa affermazione in senso negativo). Ed è senz’altro uno dei più eclettici e lungimiranti (e anche qui, qualcuno potrebbe trovarci qualcosa da ridire). Ciliegina sulla torta, conosce alla perfezione la psicologia e i meccanismi del mercato discografico italiano (che molti rapper underground in questo momento saluterebbero con un bel “Vade retro Satana”). Tre caratteristiche che hanno permesso a Big Fish di attraversare con successo vent’anni di carriera musicale, dai Sottotono a quest’ultimo album Niente di personale, in cui mescola canzoni pop italiane alla cosiddetta electronic dance music – EDM per gli amici – creando un sound senz’altro molto diverso da quello che sentite abitualmente in radio. Nel mezzo ci sono state due etichette indipendenti da lui fondate, un celebre Sanremo, le prime produzioni di Fabri Fibra, la sua famosa jeep e molto altro ancora; tra cui, è bene non dimenticarlo mai, Rancore e dj Myke e tanti altri artisti “difficili”, in cui ha creduto e investito fin dall’inizio nonostante il loro approccio sofisticato e originale al rap rischiasse di risultare troppo ostico per il pubblico. Insomma, se anche voi siete persone di mentalità aperta e se anche voi non le mandate a dire, troverete questa intervista particolarmente interessante sotto più aspetti e punti di vista, e magari vi aiuterà anche a sfatare un pregiudizio o due su un personaggio che, indipendentemente dai gusti musicali di ognuno di noi, ha uno spessore e un’onestà intellettuale davvero rari.

Blumi: Dopo una vita a produrre musica hip hop e urban, ti sei spostato verso sonorità più elettroniche…

Big Fish: Un certo tipo di sound non mi rappresenta più fino in fondo. Sia chiaro che non voglio neanche diventare il paladino dell’EDM: voglio semplicemente fare delle canzoni che mi piacciono, e sono ben contento delle canzoni del disco. Sarebbe senz’altro più facile prendere una dozzina di rapper e fare un album in un altro modo, ma non era quello che volevo. Ho lavorato con persone che non sono abituate a un certo tipo di procedura: i cantanti italiani di solito fanno le cose in tutt’altro modo. Ho cercato di farli entrare in un mood un po’ più fresco, e alcuni erano prontissimi – vedi ad esempio Caparezza, per ovvi motivi – altri invece ci hanno messo un po’ di più a capire le dinamiche. Niente di astruso, intendiamoci, ma a volte è complicato spiegare che si può fare musica anche lasciandosi trasportare dal momento, senza pianificare troppo, piuttosto che inseguire per forza il ritornello catchy e orecchiabile. Quasi tutti, ormai, sono ingabbiati da meccanismi mentali che li costringono a fare musica in un certo modo nella speranza di risultare più “radiofonici”; e questi meccanismi, di solito, ti portano a fare musica di merda, che non ti rappresenta. Non sai quanti ce ne sono, di cantanti che in confidenza ti rivelano che sono stanchi di fare un certo tipo di canzoncina “perché è quello che tutti si aspettano da me”, o che addirittura si dichiarano disgustati all’idea di dovere andare a suonarla in pubblico mentre i quarantenni innamorati si baciano sotto il palco. Non voglio sindacare sul lavoro degli altri, sia chiaro, ma è una questione di approccio. Io vivo la musica come una passione e non come una costrizione; proprio per questo, cerco di fare solo quello che mi piace. Credo, nel mio piccolo, di aver raggiunto un buon compromesso tra musica elettronica e canzoni. Un punto di equilibrio tra la dance più estrema, che in Italia ha una lunga e prolifica tradizione, e il pop. Un po’ come era successo per i Sottotono all’epoca: abbiamo creato una nostra via di mezzo tra la musica americana che ci piaceva e un approccio tutto italiano.

B: Tornando per un attimo all’industria musicale italiana, se chiedi agli addetti ai lavori sembra impossibile tentare di fare e/o promuovere una musica diversa dal pop un po’ melenso che va per la maggiore in radio, o dal rap fatto con lo stampino per un pubblico di giovanissimi. Perché, secondo te?

B.F.: Perché la gente reagisce in maniera strana a questa crisi di vendite del mercato musicale: tutti cercano di uniformarsi agli altri, a quello che va di moda. In realtà in periodo di crisi bisognerebbe fare proprio l’opposto e aguzzare l’ingegno per trovare qualcosa di innovativo e diverso. Ho letto una frase di Albert Einstein che diceva che la crisi è una manna dal cielo, perché la gente è costretta a scavare nel proprio inconscio per tirare fuori il meglio di sé. Il problema è che spesso siamo in mano a degli stolti convinti di avere la verità in tasca. Di solito, quando un cantante arriva da un produttore famoso, il produttore ti fa un discorso tipo “Vuoi cantare? Ottimo, so io come fare per farti arrivare al successo”. Bisognerebbe farne uno molto più serio, ovvero “Vuoi cantare? Ottimo, fammi sentire cosa fai e vediamo che tipo di consiglio posso darti”. È davvero difficile sradicare certe abitudini. Quest’anno vanno di moda le borchie? Fantastico, allora le mettiamo dappertutto. Con la musica è la stessa identica cosa.

B: Tu, peraltro, sei l’unico ad avere avuto il coraggio di produrre Rancore e dj Myke, che fanno dischi rap completamente diversi dagli altri…

B.F.: Loro sono l’arte, per definizione. Entrambi continuano a portare avanti la loro roba senza porsi dei limiti e fregandosene di quello che va o non va in Italia. Piuttosto che finanziare un ragazzino che ripete swag a mitraglietta, magari senza neanche sapere cosa vuol dire, preferisco di gran lunga investire su di loro: non voglio produrre plastica, ma produrre legno. È questa l’impronta che voglio dare alla mia etichetta: che si tratti di Rancore e Myke, dei Retrohandz o dei nostri ultimi acquisti The Golden Toyz, Aquadrop e Mothell, mi circondo da gente che non lo fa per i soldi e il successo, ma perché ha genuinamente qualcosa da dire.

B: Molti pensano che questo nuovo filone di rap italiano sia un po’ figlio di quello che avevate provato a fare con i Sottotono: un rap non necessariamente impegnato e soprattutto abbastanza pop da essere fruibile anche per l’ascoltatore medio. Tu come la vedi?

B.F.: Noi avevamo la fortuna di avere Tormento che scriveva delle gran belle canzoni: oggi, di belle canzoni, ne ascolto davvero pochine. Ho l’impressione che il rap di oggi sia troppo autoreferenziale e anche fuori moda, perché il mondo sta vivendo un’immensa crisi economica e ostentare in quel modo è un atteggiamento davvero miope. Potrebbero usare le parole per dire qualcosa di sensato e invece le usano per dire la prima cosa che gli viene in mente. L’unico che si distingue, e che considerano un vero poeta, è Rancore. E anche Caparezza, che tutti schifano, ma che secondo me è il più forte di tutti. Non penso esistano artisti rap completi quanto lui: ha la metrica, ha i contenuti ed è una persona squisita. Se poi sceglie di non mettersi il New Era, secondo me fa bene…

B: Tu sei uno dei primi produttori che le major hanno chiamato quando hanno cominciato a investire sul rap di questo decennio, perché ti consideravano uno dei più lungimiranti. Oggi che tu fai EDM, anche loro stanno cominciando a pensare che forse è il caso di investire sull’EDM…

B.F.: Si sveglieranno anche su questo, sicuramente. Se già Lady Gaga e Britney Spears fanno una loro versione light dell’EDM, e l’EDM finisce in classifica, ben presto anche i discografici italiani se ne usciranno con la richiesta “Perché non mi fai un pezzo alla Lady Gaga?”. Non è merito dei discografici, comunque, ma è merito del genere, che in America sta andando alla grande, anche più del rap. Te lo dico da grande fan, il rap americano in questo momento è un po’ fermo al palo: per un pezzo carino ne escono altri venti pessimi. Su tutte le uscite dell’anno, quante te le ricorderai sul lungo periodo? L’EDM, invece, è un mondo immenso, costituito da centinaia di generi diversi e portato avanti da gente a cui non interessa tanto apparire, e che sanno fare di tutto, a differenza dei produttori rap che spesso sanno fare solo il rap. È più facile trovare qualcosa di interessante lì.

B: Non è antipaticissimo, per un produttore, quando ti viene chiesto da qualcuno di fare un pezzo “alla Lady Gaga” o alla chiunque altro?

B.F.: Ovviamente. In ogni caso io dico “Sì, certo” e poi faccio quello che voglio! Alla fine sono i risultati che contano. Sia chiaro che non ce l’ho con i discografici, comunque: ce l’ho con un certo modo anni ’80 di lavorare, soprattutto se portato avanti da persone che magari hanno meno di trent’anni. Io, che ne ho quaranta e passa, in certe cose mi dimostro più avanti di loro, quando dovrebbe essere l’esatto contrario. All’estero gli A&R hanno vent’anni, conoscono tutti i dj emergenti, vanno a tutte le serate e a tutti i concerti dei nuovi artisti underground. Qui, invece, nella migliore delle ipotesi ti becchi qualcuno che fa quel lavoro perché è amico di qualche pop star importante.

B: Altra differenza sostanziale con l’estero: in Italia gli A&R escono effettivamente dai loro uffici per scovare nuovi talenti ai concerti o nei locali, qui invece si limitano a usare Internet…

B.F.: Ma quello non è così male, secondo me. Se sfrutti bene il mezzo, almeno puoi documentarti su quello che c’è in giro e magari farti venire nuove idee – cosa che ad esempio dovrebbero fare i nuovi rapper, anziché utilizzarlo solo per caricare i propri video su YouTube. Il problema è che Internet, dalle nostre parti, viene usato nel modo più sbagliato in assoluto. E, ripeto, non biasimo neanche troppo i discografici, che in genere hanno a che fare con cantanti che hanno paura di rinnovarsi perché temono che il pubblico ne resterebbe scioccato. Bisognerebbe rovesciare questo atteggiamento. Io non ho una lira, mi metto sempre in gioco e sono in pace con me stesso: non ce la farei a fare le cose in un altro modo. Ad esempio a fare i pezzi furbetti, col ritornellino orecchiabile per le masse. Ti sgamano subito: i giovani di oggi sono attentissimi, e se fai una cagata sono i primi a schifarti per il tuo opportunismo.

B: È molto bello che tu dica questo, ma alcuni tuoi progetti (penso all’album Robe grosse con Esa e Kelly Joyce del 2004, ad esempio) potrebbero essere incasellati proprio nella categoria “pezzi furbetti con ritornellino orecchiabile”…

B.F.: Per certi versi hai ragione, ma stiamo parlando di un periodo diverso, con una situazione discografica del tutto diversa. C’è anche da dire che io negli ultimi anni sono davvero radicalmente cambiato: mi sento cresciuto, ho abbandonato tutti i cliché del pop/rap e tutti i featuring ammiccanti. Mi sono guardato in faccia e mi sono detto “Se continui così, a cinquant’anni sarai ancora qui con in testa quel cappellino che non ti rappresenta neanche più” e ho voltato pagina. Non rinnego quello che ho fatto, ma cerco di migliorarmi, di non restare fermo in una situazione statica e immutabile.

B: A proposito, in Niente di personale ci sono due brani che secondo me sono particolarmente riusciti: entrambi hanno atmosfere dub, e sono Insostituibile con Andrea Nardinocchi e il remix di Alfonso di Levante. Come mai, in un disco che includeva artisti molto più celebri e nazionalpopolari, hai scelto di ospitare anche due nomi così nuovi e freschi?

B.F.: Meno male che ci sono loro e altri artisti come loro, che portano una ventata di novità. Nardinocchi me l’ha fatto conoscere il mio socio storico Marco Zangirolami (che nell’ultimo decennio ha registrato e arrangiato buona parte dei brani rap mainstream e/o di successo in Italia, ndr). Mi ha fatto ascoltare le sue prime cose, che erano molto interessanti e genuine; ho cominciato a pensare di chiedergli di fare qualcosa per il mio album, che in quel periodo era in lavorazione. Abbiamo un po’ ritardato la collaborazione perché era impegnatissimo con Sanremo e tutto ciò che ne consegue, ma alla fine abbiamo cominciato a lavorare su un pezzo che aveva già scritto precedentemente e che io ho riarrangiato: questo. Gli abbiamo dato una nuova veste, molto insolita rispetto a quello che in genere fa, tanto che avevo paura che non gli piacesse. E invece gli è piaciuto tantissimo. Anche con Levante non ci conoscevamo, ma conosco il suo manager, il quale mi ha chiesto se avevo voglia di fare un remix di Alfonso per lei: visto che si tratta di una canzone dall’atmosfera molto tranquilla non mi andava di renderlo troppo spinto, così mi sono basato su una rapida intuizione del momento ed è venuto fuori questo.

B: Tornando per un attimo al music business, con i Sottotono siete stati tra i primi a creare un’etichetta hip hop, l’Area Cronica, che non fosse semplicemente un bollino da appiccicare ai dischi che producevate, ma una struttura realmente funzionante. A un certo punto si aveva addirittura la percezione che Novara, dove avevate la sede, fosse una piccola capitale del rap italiano. Che tipo di ricordi hai di quel periodo?

B.F.: Sono tutti ricordi legati all’esperienza dei Sottotono, ovviamente, e tutti molto belli. La mia fortuna è stata quella di lavorare fin dall’inizio con il mio manager attuale, Marco Conforti, che ha sempre avuto una visione molto ampia del business della musica. Noi (io venticinque anni, Torme ventidue) facevamo musica in maniera molto ingenua e spontanea; è stato lui a farci capire che poteva essere veicolata in maniera diversa. Ai tempi avevamo un contratto con la major, ma avevamo una serie di amici e persone che stimavamo che avremmo voluto aiutare. Marco ci ha fatto capire che, piuttosto che affannarci per farle entrare in major, avremmo potuto gestirle noi, come etichetta indipendente, come spesso già succedeva all’estero. Però ci siamo fatti prendere troppo dalla passione e troppo poco dal business, quindi abbiamo avuto una cattiva gestione delle risorse economiche: essendo abituati alla major, portavamo avanti la cosa come fossimo una major, senza ovviamente potercelo permettere. Dopo tre anni di tentativo l’abbiamo messa in stand-by, ma io sono sempre stato fissato con l’idea di avere una label, e infatti di lì a poco ci ho riprovato con la Doner Music. Il nostro grosso problema, all’epoca, era che non esisteva ancora un grande circuito per suonare live, e si campava quasi esclusivamente della vendita dei dischi, che all’epoca erano ancora abbastanza alte. Oggi, invece, chi apre un’etichetta la usa più che altro come struttura per organizzare serate in giro per l’Italia, il che è un sistema che sembra funzionare abbastanza. Noi facevamo dischi per il semplice piacere di farli, invece. Quanto a Novara, non abbiamo mai percepito la sensazione che fosse una capitale del rap: lì c’eravamo solo noi, i Lyricalz e altri tre o quattro elementi! (ride)

B: Non mi resta che chiederti i progetti futuri…

B.F.: Continuare a fare delle belle canzoni, usando la testa e senza buttare fuori immondizia con il solo scopo di essere sul mercato (rischiando così di saturarlo, tra l’altro). A parte questo, se mai qualcuno mi chiederà di produrre il proprio disco, sarò contento di farlo: mi piace curare i progetti interamente, facendo l’allenatore, e non realizzare solo uno o due pezzi a caso. Cerco di dare agli altri un’idea di come potrebbe funzionare la musica oggi, di trasmettere un mood, più che altro. E spero di poter continuare a farlo per un altro po’ di tempo!