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Dennis Bovell: l’intervista

06-02-2022 Haile Anbessa

Dennis Bovell: l’intervista

Dennis Bovell è una delle figure più importanti del reggae a livello mondiale. È cantante, polistrumentista, produttore e anche selector di sound system. Un’autentica leggenda che dovrebbe essere riconosciuta maggiormente a livello mondiale e che è tornato recentemente sulle scene con un’antologia dei suoi maggiori successi firmata dall’etichetta Trojan.

Haile Anbessa: parto subito chiedendoti di questo nuovo progetto firmato Trojan, ossia la tua Anthology of the Dubmaster. Cosa puoi dirmi a riguardo? Dennis Bovell: è emozionante. È un’ottima opportunità per riorganizzare quello che ho fatto negli ultimi cinquanta anni di carriera. Per me poi rappresenta l’opportunità di goderne una seconda volta daccapo. Questo lavoro mi porta alla mente moltissimi bei ricordi passati in studio.

H.A.: tu sei un artista così eclettico. Sei stato l’anima musicale dei Matumbi per spaziare alle selezioni del Sufferers Hi-Fi Sound System. Che cosa ti diverte di più? D.B.: direi tutto. Non saprei classificarti cosa preferisco di più e cosa meno. Mi piace fare il selector, così come suonare il basso così come mixare e remixare tracce da ingegnere del suono. Tutta la musica mi dà soddisfazioni che nessun’altra cosa al mondo mi dà.

H.A.: come hai cominciato nel mondo della musica? D.B.: mio zio suonava la chitarra e gli chiedevo in continuazione di insegnarmi. Così quando ha cominciato a farlo ho iniziato a suonare in un gruppo chiamato Road Works Ahead. Avevo tredici anni ed ero appena arrivato a Londra. Facevamo pop e cover di Beatles, Rolling Stones o The Who. Poi crescendo sono passato in una band che suonava canzone della Motown e tanto Otis Redding. Solo successivamente sono passato al reggae, preparandomi molto bene prima e quindi fondando la band Matumbi. Suonavamo solamente reggae, cosa inusuale per l’epoca dato che c’erano solo un paio di band a farlo in Inghilterra all’epoca come i Greyhounds. C’era più una cultura dei sound system per quanto riguarda il reggae ma nessuna vera band dal vivo. Contro di noi avevamo anche i pregiudizi nei confronti delle band britanniche che nel reggae non erano considerate allo stesso livello delle band giamaicane. Io però ho voluto dare il mio contributo, facendo tutto quello che le altre realtà reggae facevano al tempo, ma con un tocco in più che rendesse il nostro sound riconoscibile come Made in London.

H.A.: quali sono state le tue maggiori influenze musicali?
D.B.: adoro Jimi Hendrix. Mi piace molto la musica elettronica anche, infatti ho recentemente collaborato con i Radiohead. Così come la ska elettronica giapponese e infatti ho collaborato con Sakamoto a un album nel 1998. La scena giapponese è molto viva e interessante e infatti mi piacciono molti artisti come ad esempio la Tokyo Ska Paradise Orchestra.

H.A.: cosa rende speciale il brit reggae rispetto a quello di scuola giamaicana?
D.B.: sicuramente il tempo. Quello inglese è un reggae che segue i ritmi del Lovers Rock. Quello giamaicano tende più invece alla dancehall. Il reggae inglese poi parla al 90% di amore. In Giamaica invece, a seconda dei tempi naturalmente, sono molto più orientate verso la dancehall e la fruibilità da parte dei deejay. Il brit reggae è più melodioso e adatto a dei cantanti mentre quello giamaicano è più adatto a dei rapper.

H.A.: venendo tu da Barbados è stato difficile essere un non giamaicano nel business? D.B.: direi di no. Nella musica come in molte altre cose della vita non importa da dove vieni ma se quello che fai lo fai bene. Bisogna considerare solo se al pubblico piace quello che fai, indipendente da quale parte del mondo provieni. L’importante è non essere mai ridicoli tentando di imitare qualcosa che non fa parte di noi.

H.A.: hai lavorato con così tanti artisti, alcuni delle autentiche leggende. Quali sono i ricordi più belli che hai di queste esperienze?
D.B.: visto che tu sei italiano possono dirti che ho collaborato con svariate band italiane. Sono spesso a Napoli e sono un grande amico di Zulu dei 99 Posse. Ho lavorato anche con la band Ottavo Padiglione. Ho cooperato anche con Michelangelo Buonarroti da Firenze, Jaka e Roy Paci. Gli italiani sentono e capiscono il reggae e non ho mai visto tanti dreadlocks in Europa quanti ne ho visti in Italia. Anche per quello che riguarda le dance hall e le serate gli italiani hanno preso a modello quanto succede a Londra ma lo hanno migliorato con il loro stile unico e inconfondibile. Apprezzo molto il modo di fare reggae con un tocco italiano per così dire, come nel caso dei Sud Sound System. Con gli artisti internazionali mi sono successi episodi divertenti e interessanti come quando ero ingegnere del suono per Fela Kuti in un concerto al Paradiso di Amsterdam. C’era una luce che ogni volta che si accendeva faceva un buzz sul palco e che ha rovinato l’intera registrazione del concerto. Mi è toccato quindi risuonare in studio tutte le sessioni di basso del concerto per rendere accettabile la registrazione del concerto.

H.A.: parlando di grandi artisti mi tocca con piacere aprire ora una pagina riguardante il mitico Linton Kwesi Johnson. È vero che lo hai convinto a mettere in musica i suoi potenti versi?
D.B.: a dire il vero è stato lui a venire da me per chiedermi un aiuto per farlo. Così è nato il primo album Dread, Beat and Blood e poi Forces of Victory e Bass Culture per la sua vecchia etichetta.

H.A.: cosa pensi del reggae odierno? Avresti dei suggerimenti per i nuovi artisti?
D.B.: usate musicisti veri e non così tante macchine per il suono.

H.A.: progetti futuri?
D.B.: sto lavorando assieme a Brinsley Forde degli Aswad e a David Hinds degli Steel Pulse a una super reggae band chiamata Three the Hard Way. Abbiamo registrato e mixato i pezzi anche in Italia. Il progetto è complicato da portare avanti dato che Brinsley vive in Polonia e Daviud è a Martinique ma grazie a internet facciamo del nostro meglio.