Nella nuova scena underground fatta di piccole perle nascoste, troviamo anche Poppa Gee a dire la sua direttamente da Milano. Un nome interessante che fondo produttività, avendo pubblicato una considerevole quantità di lavori in un tempo ristretto, con uno stile forgiato sui più classici stilemi del genere rappresentati a dovere. L’ultima suo opera si intitola The Hiroo Onada, titolo che riprende uno degli ultimi militari giapponesi fedeli al codice Bushido, condivisa con un sempreverde Mr. Phil che non ha certamente bisogno di presentazioni: è in realtà lo stesso Phil ad aver avuto l’idea del concept. Quest’unione sviluppa un suono dalla forte identità innanzitutto stilistica ma anche ideologica. La musicalità scarna, elementare ma raffinata nelle soluzioni dei sample, crea le fondamenta per uno stile particolare, se non elitario sicuramente ricercato. Ho avuto il piacere di parlare proprio di questo come anche del disco in generale, cercando di alimentare il continuo scambio di visioni, tempi, paragoni, scelte.
Luca Stardust: Come vi siete ritrovati a lavorare insieme e quanto tempo ha richiesto il progetto?
Poppa Gee: Sono sempre stato un fan di Phil: gli ho fatto ascoltare la mia musica man mano che la facevo, questo per circa un anno. Lui si è sempre dimostrato disponibile cosa per nulla scontata oggi: in troppi siamo abituati ad ascoltare solo gli amici e gli amici degli amici. Questo atteggiamento porta spesso a rinchiudersi mentalmente nelle proprie comfort zone improduttive ed è la causa prima del perdurare di preconcetti privi di qualunque fondamento. Ad un certo punto gli ho proposto di provare a lavorare assieme anche se inizialmente si parlava di un singolo. Durante il lockdown, come molti, ho scritto tanto e di conseguenza gli ho chiesto se gli andasse di fare un ep. Mi ha fatto ascoltare alcuni beat e quando ha sentito i primi provini che gli ho mandato ha accettato.
S.: Spesso si riprende il confronto con le nuove generazioni, sia musicalmente che in generale, con una certa sfiducia a riguardo. Come vivete quindi questo scambio di epoche?
P. G.: Per quanto mi riguarda, contrariamente a quanto possa sembrare da una lettura superficiale dei miei testi, la questione non va posta nei termini vecchie/nuove generazioni ma buona/cattiva musica o, meglio ancora, buona/cattiva arte. Io vengo dal rap anni ’90 e dal writing fine anni ’90 ed ho una predilezione per quel viaggio lì. È una questione di gusti. Non c’entrano né la nostalgia né l’idea di una “età dell’oro”. Anche in quegli anni c’era del buono e c’era del marcio. Anche allora c’era chi sosteneva che il vero rap, il vero writing, fosse quello di due decenni prima. Chi ha saputo cogliere il vero lo ha fatto. Qualcuno è riuscito persino nell’impresa di trasformare la merda in oro. Ciò detto, musicalmente parlando, sono onnivoro ovvero ascolto di tutto: mi piace lasciarmi stimolare anche da ciò che mi è lontano sia dal punto di vista stilistico che dell’attitudine. Ovviamente ho i miei punti di riferimento, che mi sono creato nel tempo, ai quali ritorno ogni volta che, per così dire, sento il bisogno di orientarmi. Siamo sommersi da una quantità di musica impensabile in altri tempi e corriamo il rischio di perdere il centro inseguendo le varie wave.
Mr. Phil: Sfiducia non direi. I problemi che ci sono oggi nella musica rispecchiano il cambiamento del mondo e della società odierna. Oggi come ieri c’è musica fatta bene e musica fatta male. La tecnologia e le piattaforme digitali hanno radicalmente cambiato il panorama e il modo di fare musica, ci sono pro e contro. Nel ambito della scena hip hop questi cambiamenti ci sono stati per via di un cambio generazionale naturale. Secondo me il problema nasce dal fatto che le giovani generazioni che si affacciano alla cultura hip hop hanno valori e danno importanza a cose che spesso sono diverse rispetto ai valori con i quali siamo cresciuti noi. Personalmente faccio musica per me stesso e per i pochi che amano il tipo di musica che faccio. Chiaro, come ogni musicista sarebbe bellissimo avere un grande successo, ma alla fine della giornata la domanda che io mi faccio ogni mattina è un “sei felice?” e a 39 anni ho capito che nella mia vita la musica dà senso alla mia esistenza e mi rende profondamente felice.
L. S.: Per questo si potrebbe interpretare il titolo e il concept generale come la fedeltà per questa cultura…
P. G.: Il titolo è la grafica sono di Phil. Quando me ne ha parlato ne sono stato immediatamente entusiasta. Ha colto nel segno. Voglio aggiungere che prima della fedeltà ad una qualsiasi cosa, per me, viene la coerenza: verso sé stessi e verso gli altri. E l’onestà. Il concetto di fedeltà purtroppo è stato spesso usato in maniera terroristica. Qualunque innovazione veniva vista come un tradimento.
M. P.: Più che di una fedeltà’ cieca direi una conferma per quello che si ama. Crescendo la vita ti cambia, e si fa molta fatica a trovare un equilibrio tra vita artistica, problemi e responsabilità’ quotidiane. Io, come penso pure Poppa, sono rimasto sempre coerente con quello che amo perché fondamentalmente dà senso alla mia vita e mi fa stare bene. Mi rende felice malgrado tutta la merda che ci succede intorno. Sono legato in modo indissolubile alla cultura hh, ci sono cresciuto e me ne sono innamorato. Chiaramente i tempi cambiano, i gusti cambiano e si evolvono, si va avanti (o indietro), ma l’amore per la musica rimane e si sceglie volontariamente di fare quello che si ama.
L. S.: A questo si unisce la malinconia per un tempo passato da ragazzi. Forse quest’amore del passato nasce proprio dal ricordo di un periodo che si vorrebbe rivivere;
P. G.: Come dicevo poco sopra, per me, la questione non è da porsi in questi termini. Non ho nessuna voglia di rivivere il passato; sto bene nel presente e cerco di costruire un futuro altrettanto vivibile. L’importante è che ognuno faccia il suo, sia onesto con sé stesso e, lo ripeto, sia coerente. Diciamo che se non avessi visto ed ascoltato determinate cose non avrei gli strumenti per interpretare il momento attuale. Sicuramente lo farei in maniera diversa. Nascere in un preciso luogo, in un determinato momento, può essere un vantaggio o meno: di sicuro non è un merito. Tutto sta nella capacità di fare proprio ciò che vi è di positivo e di elaborare criticamente quanto vi è di negativo. Fortunatamente ciò che ho vissuto mi ha fornito una serie di valori che vanno al di là della sfera artistica.
M. P.: Non mi reputo malinconico del passato. Quasi tutti quanti siamo malinconici per gli anni della nostra gioventù, ma non sono assolutamente uno di quelli che pensa che il rap sia morto alla fine dei anni 90. Oggi come ieri esiste tanta musica ottima e tanto talento. Oggi viviamo in un mondo post-verità’, un mondo dove vince solo chi ottiene il risultato, mentre io sono cresciuto imparando che sì, è importante il risultato, ma è anche altrettanto importante come ci si arriva a quel risultato. In questo forse sono un po’ malinconico del passato.
S.: Essendo un ragazzo la cultura e quel mondo incantato raccontato per me può essere replicato solo in parte, rimanendo col tempo una cosa ricercata, per pochi, come in realtà forse lo è sempre stato. O no?
P. G.: Parlare del passato è sempre problematico. Nella peggiore delle ipotesi si rischia di mitizzare un determinato periodo storico, di renderlo piatto, ovvero di privarlo delle contraddizioni che lo vivificavano. La realtà è sempre complessa: ieri come oggi. La pace è un concetto estraneo all’arte e quindi anche alla musica. Se devo trovare una differenza, direi che fino a qualche anno fa la partita si giocava tutta in un campo: la Cultura Hip Hop, con la maiuscola. Ci si sentiva parte di un mondo: pochi o tanti non faceva differenza. Ciò aveva i suoi pregi e i suoi difetti. Oggi invece si gioca su più livelli. C’è chi si pone sul confine con quel che è rimasto di quel mondo; chi, più o meno consapevolmente, saccheggia quel mondo per i suoni, immaginario ed estetica per fare altro; chi avendo magari fatto un disco rap dieci anni fa ed avendolo persino rinnegato, ancora oggi si ostina impunemente ad occupare i luoghi, i media, le trasmissioni radio e web che proprio grazie a quel mondo sono nate; infine c’è chi sterilmente vorrebbe replicarlo augurandosi di guadagnare qualcosa in termini di realness.
L. S.: Cambiando discorso, per quanto riguarda le ispirazioni, sono importanti quelle della nuova scena underground americana oltre che della vecchia guardia. Qualche nome che ha influenzato il disco o che trovate interessante oltreoceano?
P. G.: Le influenze dirette sono evidenti, almeno per chi oggi ascolta il rap americano (e non è così scontato!). Tanto che mi sembra persino superfluo esplicitarle. Mi sento di dire che il valore aggiunto, a mio avviso, sta nel fatto che queste influenze vengono poi declinate e filtrate secondo le nostre rispettive biografie, tradizioni e scuole (milanese/romana), con i rispettivi background. Le citazioni che spesso faccio hanno appunto questa funzione: evidenziare omologie tra due realtà così diverse e lontane come quella italiana e quella americana. Anche i riferimenti ad alcuni esponenti storici della scena rap italiana vogliono evidentemente significare da un lato la volontà di rendere un tributo, dall’altra il desiderio di rivendicare un’eredità o, nel migliore dei casi, di individuare una continuità. Quando dico eredità non intendo la semplice riproposizione di certi suoni, di certi flow, di certi slang. Piuttosto la condivisione di una visione. Se devo essere sincero non saprei dire se oggi risento maggiormente l’influenza di Estee Nack oppure di Rakim, di Eto o di Kool G Rap, di El Camino o di Black Thought, o ancora di Dave East oppure di Nas. So solo che, salvo le dovute proporzioni e peculiarità, la loro musica continua a trasmettermi un’energia inesauribile; la stessa che mi ha portato a chiudere una ventina di ep in due anni.
M. P.: La nuova ondata Griselda ha chiaramente avuto, e sta avendo, un fortissimo impatto su tutti noi che amiamo un certo tipo di suono classico con i campioni soul, classici break di batteria e rap super grezzo. Ha dato una nuova boccata di ossigeno a tutti noi che amiamo il rap grezzo ispirato ad un certo tipo di suono che rimane legato alla cultura della musica Hip Hop, con le radici nel soul, nel jazz, nel rock. La cosa più odiosa in Italia è essere continuamente etichettati old school oppure sentirsi dire che “ti devi aggiornare perché ora va altro”. Ma lo volete capire che non ce ne fotte un cazzo di cosa va in questo momento? Dire che il boom bap sia old è una dichiarazione di un’ignoranza ed arroganza assurda. Anche nel rap che faccio io c’è stata un’evoluzione negli anni. Dire che una cosa è vecchia è solo un modo per terminare qualsiasi tipo di dialogo: ricordiamoci che il ‘new’ di oggi sarà sempre l’‘old’ di domani.
L. S.: Il mood del disco invece è spesso sospeso, quasi opprimente, contribuendo a creare vibe particolari con tempi molto lenti, distesi. Dal momento in cui la musica è sempre più veloce, la definizione di hardcore nel rap sta sempre di più virando verso questo stile?
P. G.: Prima di rispondere sarebbe necessario mettersi d’accordo sul significato della parola “hardcore” e soprattutto chiarire se ha ancora senso parlare di hardcore o no. Ma sarebbe un discorso lungo. Una cosa è certa: tutto ciò non ha niente a che vedere sul come si fa il rap, vale a dire sulla tecnica. Per intenderci: rappare in extrabeat non è meno o più hardcore che prediligere lo slow flow. Anche la scelta delle strumentali, a mio parere, non è dirimente. E non è neppure una questione di contenuti. Fare il proprio, con umiltà e con devozione; studiare; rispettare chi è venuto prima: ecco questo è già una buona definizione di hardcore per me.
M. P.: Essere hardcore non è legato ad uno stile, ma piuttosto ad una mentalità nel fare le cose. Gli stili e le mode passano, la mentalità rimane.
L. S.: Come invece vedete messe le vostre città, Milano e Roma, a livello musicale e per i circuiti underground in particolare?
P. G.: Milano è sempre iperproduttiva. La quantità di dischi che vengono pubblicati è impressionante. Ultimamente vedo che nel cosiddetto underground c’è la volontà di creare connessioni. C’è un confronto stimolante. Ci si aggiorna a vicenda. Alcuni progetti, a mio avviso, non hanno nulla da invidiare a quelli mainstream. Non quoto nessuno: chi lo sa lo sa.
M. P.: A Roma invece rispetto a qualche anno fa la scena hip hop è decimata. I ragazzi più giovani che si avvicinano al rap tendono a virare verso il genere del momento ovvero la trap che come cultura ha ben poco a che fare con il mondo del HH, e quindi mancando un ricambio generazionale all’interno del nostro ambito rimaniamo in sempre meno che bene o male ci consociamo ormai tutti per nome.
L. S.: Ora che la situazione Covid sta di nuovo peggiorando, qualche parere da interni e, eventualmente, da spettatori sul mondo live che continua ad essere compromesso;
P. G.: I live sono pochissimi. A causa delle misure di sicurezza la fruizione della musica dal vivo è necessariamente diversa da quella a cui eravamo abituati, per intenderci calca sotto il palco, cerchi di freestyle. È una dimensione inedita per tutti noi. Vedremo come si evolverà nel tempo.
M. P.: E finita un’epoca e per una scena che si trovava già in ginocchio temo che il Covid abbia portato il colpo di grazia. Sento tanti colleghi che mi dicono “vedrai che tra un po’ si torna a suonare”, ma sono molto più pessimista di loro. Il mondo è cambiato in questi mesi post Covid. Non solo quello della musica. Oggi con Netflix, Glovo, e tutto lo streaming il mondo delle serate va sempre peggio fuori dal mainstream. Faccio il dj nei club oltre che nei live dalla fine degli anni ‘90 e oggi rispetto a ieri non ce confronto su quanta gente frequenta i locali. Il problema principalmente rimane per noi ‘piccoli’ che campavamo con piccoli live e DJ-Set in quanto tanti localetti non riapriranno più, tante organizzazioni non rischieranno più di fare la seratina. Lavorare principalmente online è necessario ma economicamente ‘funziona’ solo con numeri impressionanti.
L. S.: Phil tra l’altro sei stato preso dalla questione avendo pubblicato un progetto strumentale a tema…
P. G.: Sì, a fine agosto ho pubblicato Pandemic Beats che è una piccola selezione di beat che ho prodotto durante il periodo di lockdown tra marzo e maggio. Sto lavorando pure su un altro album strumentale che penso di far uscire nei prossimi mesi. È un periodo in cui sto facendo uscire tante cose.
L. S.: Per entrambi, oltre a questa collaborazione, cosa bolle in pentola per il futuro?
P. G.: Io ho quasi chiuso un nuovo ep che dovrebbe uscire verso novembre. Inoltre prevedo di pubblicare un paio di singoli.
M. P.: E’ da fine quarantena che sto facendo uscire singoli & ep quasi settimanalmente! Potete restare aggiornati seguendomi sui miei canali http://www.linktr.ee/mrphil