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Attila: l’intervista

25-03-2019 Haile Anbessa

Attila: l’intervista

Attila, una delle voci più internazionali del reggae nostrano per stile e mentalità, ritorna dopo quattro anni dall’ultimo album con Smiles and Troubles. Un lavoro da studio dai ritmi travolgenti ma con tematiche sempre profonde e rivolte all’attualità, come è testimoniato dal video del primo singolo e title track. Ecco cosa ha raccontato a Hotmc alla vigilia dell’uscita del disco.

Haile Anbessa: durante l’ultima intervista, alla mia classica domanda finale “progetti per il futuro” mi rispondesti di avere la volontà di realizzare un disco ancora più bello. Quattro anni dopo ti chiedo quindi se sei riuscito a mantenere questa promessa…
Attila: io penso proprio di sì anche se poi sarà sempre il pubblico a giudicare. La mia soddisfazione personale è tanta anche perché questo lavoro è suonato al 90% direi. Ogni volta che entri in studio con veri artisti come ho avuto la fortuna di fare io per Smiles and Troubles, il progetto assume contorni molto positivi certamente. Quindi sono decisamente contento del risultato finale.

H.A.: parlami delle tematiche di questo album… A.: è un album prettamente conscious e quindi si differenzia un po’ dai precedenti lavori non tanto perché in passato non tenessi a certe tematiche odierne ma piuttosto perché questa volta ho tentato di trovare un filo conduttore dalla prima all’ultima traccia. Anche nelle due tracce leggermente più in stile dancehall rispetto alle altre. A questo disco hanno partecipato parte degli elementi della band con cui suonerò in giro e quindi Simone Amodeo alle chitarre, Giovanni Pastorino alle tastiere, Massimo Minato di Niam Reggae alla batteria e che è anche il produttore esecutivo dell’intero album. Niam è famoso sulla scena per avere firmato alcuni pezzi dei Mellow Mood. Ha partecipato anche Naima ai backing vocals e Gabriele Blandini e Valerio Bruno rispettivamente tromba e batteria degli Après La Classe. Ha coprodotto anche qualche traccia Marco Guerricchio (GuIRIE, ndr) di Frisco Sound. Tutti profili musicali di alto livello.
Il titolo l’ho scelto perché io appunto affronto la vita anche nei problemi sempre con i sorrisi. La title track è un pezzo di denuncia ma anche di speranza sociale. A questo proposito, ho deciso di prendere posizione su uno dei temi più scottanti attualmente, ossia quello degli sbarchi dei migranti.

H.A.: come lo hai fatto?
A.: fondamentalmente parlo del fatto che la vita può riservare sempre delle sorprese e bisogna sempre essere in grado di affrontarle, anche con umanità nei confronti degli altri. Il video ricalca una delle strofe che parla appunto delle morti nel Mediterraneo e abbiamo scelto quindi di fare indossare alle comparse, di cui molti sono amici della scena reggae, alcuni giubbotti salvagente rossi. Il messaggio è che tutti noi in piccolo viviamo delle tragedie quotidiane e quindi non è giusto assistere a quelle degli altri senza fare nulla.

H.A.: tu ti sei schierato apertamente quindi su uno dei trend topics che genera più caos nei social al giorno d’oggi. Come vedi la figura dell’artista in generale su queste tematiche?
A.: c’è chi lo fa e chi no. Chiaramente più sei mainstream più conviene non farlo. Adesso noto che insultare il ministro dell’Interno in qualche modo è diventato trendy e quindi in molti lo fanno. Io dico ben venga sempre, sia se è fatto con convinzione sia in caso contrario. Non giudico nessuno per le proprie posizioni o scelte. Ritengo che il reggae, come genere, debba sempre portare un messaggio sociale e politico preciso. Il reggae è schierato. I pezzi da party ci stanno certamente ma in un disco, una cosa che rimane nel tempo ed è una tacca nella carriera di un artista, volevo dare un messaggio forte.

H.A.: hai toccato il tema del reggae nel mainstream. Poco tempo fa ad esempio abbiamo visto i Boomdabash sul palco di Sanremo. È una cosa positiva per te o così quel messaggio di cui hai appena parlato si diluisce un po’? A.: innanzitutto faccio loro i miei complimenti per il traguardo. Per sfondare nel mainstream certamente bisogna fare delle scelte. Io, ad esempio, canto in patwa mentre Biggie lo ha abbandonato un po’ in favore dell’italiano. Spero comunque che il messaggio non arrivi troppo edulcorato. Credo che quello non sia il mio percorso. Il reggae ha poco spazio nei vari canali come radio o televisione ma auspico che una chitarra in levare inserita in un pezzo mainstream possa essere la molla per scoprire tanto altro.

H.A.: la scena ti sembra cambiata dall’ultima volta che abbiamo parlato? A.: beh la trap ha invaso qualsiasi cosa e anche la Giamaica ne è stata invasa. Tutto ciò che accade negli Stati Uniti ha dei riverberi sull’isola. Quindi le produzioni digitali sono andate tutte in questa direzione. In Italia invece se si vuole fare un minimo di musica suonata e live il livello di fatica è molto elevato. Bisogna lottare molto. Spero che comunque la qualità prevalga sempre su tutto e chi verrà ai miei prossimi live spero possa rendersene conto. Sarò con i “The Barbarians” in giro e anche con dj set. Date un occhio ai miei social Attila Muzic per rimanere sempre aggiornati.

H.A.: Smiles and Troubles è tutto in inglese quindi? A.: nel 2018 ho fatto un paio di pezzi in italiano. Manifesto ad esempio, prodotto da Jugglerz, è diventata una vera e propria hit in ambito dancehall. Il mio intento però non è mai cercare la hit a tutti i costi e quindi l’italiano lo utilizzo solo quando un ritmo si può ben prestare all’uso. Io mi trovo bene in patwa sia nella scrittura che nel cantato. È il miglior veicolo internazionale per il reggae. Vorrei che le mie canzoni fossero ascoltate e capite in tutto il mondo e non solo in Italia. Nel 2017 ho fatto un tour in Argentina e a Kingston al Vinyl Thursday ho preso il microfono senza problemi, guadagnandomi parecchi forwards su alcune frasi specifiche. È questo che voglio fare io: avere un’impronta internazionale.

H.A.: a proposito di Kingston, sei riuscito poi a registrarci qualcosa?
A.: purtroppo no ma rimane nel cassetto dei sogni! È un pensiero fisso ma Kingston ha i suoi tempi, serve molto tempo.

H.A.: parlami dei featuring del disco. Come è nata la scelta?
A.: Lion D e D’Vercity sono due artisti che stimo moltissimo per ragioni diverse anche a livello umano. Lion D è come un fratello e io lo reputo facilmente il miglior artista reggae italiano. Anche a livello europeo ha pochi rivali. Ho voluto quindi un vero campione sul disco senza dover necessariamente andare oltre oceano. Mi ha aiutato anche nella scrittura di alcuni pezzi e quindi ne approfitto per ringraziare lui e Leo Bizzarri. D’Vercity è invece il mio collegamento sull’isola di Giamaica. Con lui mi sento spesso via whatsapp e pratico la lingua. Non è un artista affermatissimo in patria e quindi lavora e canta ma per Bredrinz era l’unica persona che mi è venuta in mente per cantare su un pezzo così. La registrazione è stata molto difficoltosa per averlo in studio ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Lui mi ha dato una grossa mano per le pronunce del patwa perché io sono sempre molto pignolo in queste cose.

H.A.: con chi ti piacerebbe collaborare prossimamente, oltre a Renzo Arbore di cui so essere tu un grande appassionato?
A.: verissimo! Renzo Arbore per me è un vero campione, un visionario che nella musica ha fatto tanto e conosce la black music molto bene. Sarei quindi onorato di fare qualcosa con lui. Per quanto riguarda altri nomi più reggae è difficile dirlo dato che tutto dipende da come ci si trova. Non sono un fan dei featuring a distanza a pagamento. Vorrei prima stringere un bel rapporto di amicizia e fratellanza con un artista e poi eventualmente pensare a un featuring insieme.

H.A.: ci rivediamo allora fra quattro anni per un album ancora più bello?
A.: no dai, spero prima! (ride)