Spiegare Sanremo (inteso come luogo fisico in cui per una settimana va in scena il Festival della Canzone Italiana) a chi non c’è mai stato è un’impresa davvero ardua, perché le parole non bastano a descriverlo. In quei giorni, tutte le radio, le tv e le testate giornalistiche italiane calano in massa Liguria, alcune per seguire la kermesse, altre – la maggior parte, a dire il vero – semplicemente per raccogliere servizi di colore: vox populi, pettegolezzi, paparazzate, scherzi, dichiarazioni da estrapolare dal contesto e trasformare in clickbait. L’effetto collaterale di tutto ciò è che si crea una specie di isteria di massa che coinvolge tutti, ma proprio tutti coloro che si trovano a transitare per la ridente cittadina. Attirati dalle telecamere, arrivano orde di casi umani, wannabe, pseudo-opinionisti, in attesa di essere notati e reclutati da qualcuno. Dal gruppo indie che suona per strada sperando di essere notato da un discografico all’aspirante comico che spara battute a raffica con un megafono, dalla modista di cappellini che indossa le sue creazioni vestita di tulle a ragazzi e ragazze che sognano di diventare veline e tronisti, fino a personaggi da salotto tv a caccia di ospitate. I Testimoni di Geova presidiano gli angoli delle strade con opuscoli ad hoc intitolati “Qual è il vero valore del successo?”. I giovani rivoluzionari cercano di vendere una copia di Lotta Comunista ai fan a caccia di autografi. Non c’è nulla di normale, e vale anche per ciò che succede tra le mura dell’Ariston.
Immaginare Rancore, uno dei massimi simboli dell’integrità del rap, in un luogo del genere è davvero strano, all’inizio: ma allo stesso tempo è anche rassicurante, perché vuol dire che esiste ancora la possibilità che l’eccellenza sia premiata, perfino qui, dove siamo abituati a trovare soltanto Trottolini Amorosi e Scimmie Nude che ballano. Allo stesso modo, è quasi altrettanto rassicurante che abbiano concesso un accredito stampa anche a noi, che in fondo siamo solo un piccolo blog di settore impegnato a cercare di raccontare l’hip hop, ovunque esso ci porti. Stamattina ci ha portato in uno dei grand hotel che ospitano i concorrenti del 69° Festival della Canzone Italiana, a incontrare appunto Rancore, che stasera debutta sul palco dell’Ariston. E’ in gara con Daniele Silvestri e presenta un brano che si intitola Argentovivo, un brano molto forte e attuale (non sveliamo di più per non spoilerare). Nonostante le circostanze tendano a mandare in panico anche artisti molto più nazionalpopolari di lui, Rancore non sembra essere particolarmente provato dalla situazione: appare un po’ stanco, come è normale alla vigilia di un tour de force del genere, ma anche concentratissimo e determinato. Perfino in vena di scherzare – e ve lo possiamo garantire, è davvero un evento eccezionale: da queste parti, in questi giorni, la tensione è tale che l’ironia praticamente non esiste. (Continua dopo la foto)
Blumi: Cominciamo dalla domanda più ovvia: come ci sei finito, qui?
Rancore: Mah, sai com’è, passavo per caso! (ride) Scherzi a parte, capisco lo stupore di vedere uno come me in un contesto così particolare. In realtà è nato tutto in maniera molto naturale, grazie alla mia collaborazione con Daniele Silvestri. Di persona non ci eravamo mai conosciuti, anche se ovviamente c’era stima reciproca, e l’anno scorso era stato lui a cercarmi per propormi di lavorare a questo pezzo, Argentovivo. Appena me lo ha fatto sentire, sono rimasto subito folgorato dalla sua parte, che evoca delle immagini e un’emotività uniche. Mi sono chiuso dentro a un metaforico bunker e ho iniziato a scrivere la mia strofa, e dopo una decina di giorni, quando già ero a buon punto, mi ha chiamato dicendo che c’era la mezza idea di presentarlo al Festival di Sanremo. Da quel momento ci siamo messi sotto con quell’obbiettivo. La particolarità del brano è anche questa: è nato in maniera totalmente libera e spontanea, ma poi è stato lavorato e rifinito per essere portato su quel palco, in modo che risultasse diretto e potente come un pugno nello stomaco. Anche perché l’argomento non è sicuramente in linea con l’Ariston, pur essendo perfettamente in linea con il periodo che stiamo vivendo.
B: Qual è stata la prima cosa che hai pensato quando ti hanno comunicato che c’era la possibilità di andare a Sanremo?
R: La prima in assoluto è stata immaginarmi su quel palco e chiedermi “Sarà davvero possibile?”. Finché la situazione non si è concretizzata, però, ho preferito non pensare a niente. Ho ricominciato a ragionarci solo quando abbiamo fatto le prime prove e ho visto per la prima volta il teatro: solo allora mi sono reso conto di cosa stava succedendo.
B: Ma in passato eri uno di quelli che il festival lo seguiva da tempi non sospetti, o sei tra i tanti che magari non lo apprezzavano più di quel tanto?
R: Dirò la verità: in generale non sono uno da tv, in primis perché la tv non ce l’ho. Non per scelta o presa di posizione, ma perché a un certo punto si è rotta e non ho mai trovato il tempo di ripararla. Però vengo da un quartiere di Roma, il Tufello, dove tutte queste tradizioni nazionalpopolari si sentono ancora moltissimo, perciò in qualche modo era impossibile per me non seguirlo. Da piccolo lo percepivo quasi come un luogo metafisico, irreale. Negli anni mi è anche capitato di andare in radio a commentare la partecipazione di altri rapper, ad esempio di Clementino. Insomma, ha sempre fatto parte della mia esistenza, anche se in maniera un po’ marginale.
B: Per i bookmaker tu e Daniele Silvestri siete tra i favoriti: e se vincete?
R: Mah, è un pezzo molto tosto, quindi tra i vari universi paralleli possibili credo sia difficile rientrare proprio in quello in cui vinceremo noi… La vedo dura! (ride) Mi piacerebbe soprattutto che fosse ascoltato, capito, facesse riflettere: quella sarebbe la nostra vera vittoria.
B: A febbraio la città di Sanremo si trasforma in un luogo assurdo, quasi surreale, che riunisce un’umanità stranissima, chiassosa e invadente. Tu sei sempre stato una persona molto riservata, perciò immagino sia complicato far fronte a tutto questo… Come te la stai vivendo?
R: Me la vivo come una freccia che tira dritta per la sua strada e pensa solo a centrare il bersaglio, anche se lungo il percorso attraversa situazioni diverse. Ci sono momenti in cui tutta questa attenzione è molto piacevole, in altri lo è molto meno: è un ventaglio di emozioni molto complesso. In generale non mi piace partire prevenuto e fare di tutta l’erba un fascio. E comunque, cerco di fare come diceva Bruce Lee: “Be water, my friend!”. Sii come l’acqua, assumi la forma del recipiente che ti contiene in quel momento. Il festival è un certo tipo di contesto, deve essere la musica a fare la differenza e a unire mondi apparentemente molto lontani. Che poi, è proprio il motivo per cui nonostante io mi faccia chiamare Rancore – un concetto lontanissimo dall’ideale di armonia e intrattenimento di Sanremo – sono su questo palco.
B: A proposito del rap che unisce: quest’anno siete tantissimi a far parte della scena, o comunque ad arrivare da lì. Si è creato un po’ un senso di cameratismo? Fate squadra, vi supportate a vicenda?
R: Purtroppo i tempi sono strettissimi e siamo sempre tutti di corsa, perciò abbiamo poco tempo per chiacchierare. Quando riusciamo a incrociarci, però, è proprio così: ci scambiamo le nostre impressioni, raccontiamo come ci sentiamo, condividiamo idee su quello che cambieremmo o aggiusteremmo. O semplicemente parliamo del più e del meno, e della stranezza di essere qui: l’altro giorno ero con Ghemon e ridevamo del fatto che subito dopo le prove ero scappato via, ero salito in macchina ed ero andato a suonare a Padova al CSOA Pedro, non proprio un palco simile a quello dell’Ariston… (ride) Anche con Shade è stato bello ritrovarci, ci conosciamo da un secolo ma di persona non ci vedevamo da una marea di anni. Però devo dire che questo senso di solidarietà reciproca non vale solo per le persone che vengono dal rap, ma per tutti i cantanti in gara: sarà che condividiamo la pressione di vivere queste giornate molto estreme, ma anche gli artisti che all’apparenza sembrano essere agli opposti finiscono per diventare amici.
B: Tra le cose che possono mettere più sotto pressione un rapper c’è anche una questione prettamente logistica: i brani di Sanremo sono arrangiati per orchestra, e rappare con un’orchestra che ti fa il beat non capita praticamente mai…
R: Per nostra fortuna noi suoniamo anche con Fabio Rondanini, che è una specie di batterista alieno (tra le altre cose suona nei Calibro 35, ndr), e questo mi aiuta tantissimo, perché lui va come un treno e io devo solo salirci sopra. In generale, però, per me è una bellissima opportunità: rappare con l’orchestra crea una dinamica e una profondità emotiva che aiuta a fare uscire anche la profondità del testo. Lo fa diventare un film.
B: Di solito dopo Sanremo segue sempre il lancio di un nuovo progetto. È anche il tuo caso?
R: No, perché come sempre mi piace fare il contrario di quello che ci si aspetta da me! (ride) E poi, per me è stata una cosa talmente inaspettata che non ho neanche avuto il tempo di farne, di progetti. Sicuramente, quando uscirà il nuovo album di Daniele, Argentovivo sarà incluso nella tracklist. Per quanto riguarda me, invece, posso anticipare che prossimamente stamperemo il vinile di Musica per Bambini e proseguiremo con il tour, dando un upgrade ulteriore all’allestimento.
B: E se poi ci diventi nazionalpopolare? L’underground non si consolerà mai…
R: Vabbè, dai, ce ne stanno tanti altri là fuori che possono prendere il mio posto! (sghignazza, ndr)