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Ape: l’intervista

04-06-2018 Marta Blumi Tripodi

Ape: l’intervista
Non faccio distinzione tra rap classico e trap, ma piuttosto tra rap figo e rap di merda.

Tanti anni fa, in una galassia lontana lontana, la scena hip hop supportava i suoi local heroes al punto che, se vivevi in una determinata città, era impossibile non conoscere un determinato rapper. Nello specifico, se vivevi a Milano e dintorni nei primi anni ’00 era impossibile non conoscere Ape, prima come membro dei Trilamda e poi come mc solista. Due dei suoi album, Venticinque e Generazione di Sconvolti, sono addirittura diventati oggetto di culto nel frattempo, ma in assenza del loro creatore, per così dire: Ape ha appeso (sembrava definitivamente) il microfono al chiodo nel 2009. Un bel giorno, però, per nostra fortuna gli è tornata la voglia di fare musica, ricominciando a sputare rime prima nell’album Gemelli, insieme all’amico e collega Kuno, altro local hero di cui dovreste conoscere il nome se rappresentate per Milano, e poi con un atteso lavoro solista, The Leftovers. Un ottimo disco, di quelli che ti fanno pensare ai destini alla Sliding Doors: cosa sarebbe successo se la generazione di Ape avesse avuto venticinque anni nel 2018? Avremmo ancora la trap, il LOL rap, i dissing tutti contro tutti? Ci sarebbero loro in testa alla classifica? Tutte domande senza risposta, ovviamente. Meglio lasciar perdere le sottili trame dell’universo e del fato e concentrarsi su quest’album. (Continua dopo la foto)

Blumi: Perché un disco dopo tutto questo tempo?

Ape: Mi ero fermato perché non avevo più cose particolari da dire, e quindi non sentivo l’esigenza di fare un disco. Non era una questione di momento, insomma, ma di assenza di messaggi da comunicare. Ho ricominciato a fare musica grazie a Kuno, che mi aveva chiesto un featuring per la sua serie di mixtape HallWeedWood. Da lì mi è tornata la voglia di rimettermi in gioco.

B: In tutti questi anni hai continuato ad ascoltare e a seguire la scena?

A: Nell’ombra, diciamo! (ride) Ho assistito a tutte le varie evoluzioni del rap, belle o brutte che fossero.

B: Ecco, parliamone.

A: Non faccio distinzione tra rap classico e trap, ma piuttosto tra rap figo e rap di merda. Per il resto, piccole faide, gossip, rivalità e campanilismo ci sono sempre state, e ci sono anche adesso. Prima, però, c’era più un senso di collettività: la scena di Milano, quella di Torino… Oggi, invece, ciascuno ha il suo nome e il suo brand. Le crew si sono trasformate in staff al servizio del singolo, e i fan si contrappongono l’uno all’altro. Una volta, invece, c’era un intero movimento a supportare e ascoltare, che passava da un artista all’altro senza dividersi in fazioni. Però è normale: i tempi cambiano, sono fasi. C’è sempre qualcosa di interessante e nuovo da scoprire.

B: Cosa ascolti, in genere?

A: Amo molto Kendrick Lamar, Schoolboy Q, Joey Bada$$, e ovviamente Dave East, che è il protetto di Nas. In Italia, invece, amo molto Jangy Leeon, Jack the Smoker, Dani Faiv… Il filone della trap di casa nostra non mi entusiasma tanto, musicalmente, e a livello di mentalità penso che adesso dovrebbero stare un po’ più attenti a quello che dicono, visto che hanno la responsabilità di rivolgersi a milioni di persone. Però non sono di quelli che la vorrebbe cancellare dalla faccia della terra: è il mainstream italiano di oggi e va bene così. Un tempo andavano altre cose, ma non è un dramma.

B: A proposito, inconsapevolmente sei stato anche protagonista di un piccolo incidente diplomatico, un paio di anni fa: Noisey fece un articolo in cui prendeva in giro la famosa copertina di Aelle sui rapper pronti alla sfida del 2000, ma il giornalista non era molto informato e finì per scrivere che Tuno (tuo ex socio nei Trilamda) e Ape erano la stessa persona, dopo un radicale cambio di aka.

A: Alla fine lo aveva corretto, dopo un sacco di segnalazioni, ma ovviamente tutti abbiamo letto la prima versione… Al netto di questo, comunque, quella copertina di Aelle ovviamente non ci azzeccò per niente, anche perché eravamo tutti giovanissimi e senza contratto discografico, quindi era abbastanza probabile che molti di noi smettessimo di fare rap nel giro di pochi anni.

B: In Debutto dici “Affronto ogni sfida come se fosse un debutto”, ed è curioso, perché in effetti molta gente ti conosce per la prima volta solo oggi, nonostante tu sia in giro da vent’anni…

A: È una rima nata in risposta a ciò che è successo dopo l’uscita di Gemelli, che era un lavoro molto vario e a quattro mani, in cui convivevano diversi approcci: a quanto pare la gente si aspettava l’Ape del 2004, ma è giusto che rimanga confinato in quei dischi, e che ora emerga l’Ape di oggi. Ho scoperto che nei primi anni ’00, quando avevo cominciato a pubblicare i miei primi dischi, a quanto pare per qualcuno ero un’icona, ma non l’ho mai saputo… (ride) Debutto è proprio una risposta a questo: le cose cambiano, non dobbiamo rimanere per sempre uguali a noi stessi, non avrebbe senso. Ho voglia di rimettermi in gioco; anzi, in un certo senso devo farlo per forza, perché dopo una pausa così lunga mi trovo a confrontarmi con persone che magari non sanno neppure chi sono, proprio come fossi un’esordiente. Lo avevo messo in conto, e vivo questa ripartenza da zero molto serenamente.

B: Perché hai scelto il titolo The Leftovers, tra l’altro?

A: In inglese vuol dire “avanzi”, un tema che abbiamo ripreso anche in copertina, tant’è che in molti mi hanno detto di fare attenzione, perché poteva essere interpretato male: la gente poteva pensare che fosse un bootleg che conteneva scarti o b-side, anche se non è così. In realtà tutto è partito dalla serie tv The Leftovers, che ho amato molto. Racconta di una sparizione di massa, e del malessere di chi è rimasto a piangere le persone scomparse. Ma lo stesso concetto può applicarsi a qualunque altro evento traumatico: è quel senso di vuoto che provi dopo che rimani solo ad affrontare qualcosa di difficile. Infatti i pezzi non parlano solo di me, ma di tutti quelli che si sono trovati ad affrontare situazioni complicate.

B: Il primo singolo estratto, Borghesia suburbana, è molto riflessivo…

A: Credo sia il pezzo in cui sono riuscito a coniugare meglio il vecchio e il nuovo, sia nei testi che nelle sonorità. Ho sempre preferito i pezzi di contenuto, rispetto ai banger. E forse è quello il motivo per cui non sono mai riuscito a vivere col rap… (ride) Ma non mi dispiacciono neanche i banger, sia chiaro: Leader, il secondo singolo, lo è!

B: Quanto ci metti, di solito, a scrivere un pezzo?

A: Per questo disco ho voluto un po’ cambiare: di solito aspettavo di avere tutti i pezzi prima di registrare, mentre invece stavolta è stato un po’ un work in progress. Mentre mixavo un pezzo scrivevo il successivo, e questo mi ha aiutato anche a intervenire in corsa, migliorando le strofe qua e là se mi accorgevo che non mi convincevano. Inoltre io ho un metodo un po’ strano per scrivere: mi piace farlo mentre sono in macchina, perché per lavoro mi sposto molto, ma lo faccio a mano, tenendo il quaderno sul volante. Se c’è una coda per me è una manna! (ride)

B: Parlando del sound, invece, si sente un tocco del classico Ape, ma con una marcia in più: che criterio hai usato per scegliere i beat?

(Interviene Ill Papi, produttore di molti beat del disco, ndr)

Ill Papi: Negli ultimi quindici anni è cambiato il modo di produrre le basi, quindi per forza di cose sono cambiati anche i suoni di questo disco.

A: Non mi piace l’idea di riprendere per forza le sonorità della golden age, o tutta questa mania di andare a riscoprire le cose vecchie, magari andando a scovare le copie di album introvabili o scannandosi per le ristampe numerate. Anche perché, se hai trent’anni, mi viene anche un po’ da mandarti a fanculo: se quelle cose le avessi comprate allora sicuramente molti non avrebbero smesso di rappare e anzi, sarebbero diventati artisti quasi mainstream. Venticinque non lo ristamperò mai, anche se magari economicamente avrebbe senso: il vintage non voglio alimentarlo, preferisco cimentarmi con le sonorità di adesso. (Continua dopo il video)

B: Cambiando argomento, una curiosità: nell’album ci sono due pezzi che potrebbero essere identificati come “canzoni d’amore”, ma sono l’uno l’opposto dell’altro…

A: In quest’album mi sento sia osservatore che protagonista, quindi c’è qualcosa degli altri e qualcosa di mio. In Noi Due sono un osservatore, mentre in Vocazione c’è qualcosa di mio. Mi piaceva l’idea di generare un contrasto, anche a livello di sonorità: Vocazione non ha un beat vero e proprio (tant’è che all’inizio ho detto a Ill Papi che non ero sicuro che l’avrei usato, perché era molto strano rispetto ai miei soliti), mentre Noi Due era una sfida con Eiemgei, con cui avevo già lavorato per Gemelli. Avendo avuto degli ascolti molto vari negli ultimi anni, volevo provare a sperimentare un po’ di tutto.

B: La domanda, adesso, è ovviamente una sola: ora che hai pubblicato un album, hai intenzione di continuare o dobbiamo aspettarci che tu sparisca per altri dieci anni?

A: Sparire per altri dieci anni è difficile, più che altro perché vorrebbe dire che al mio prossimo ritorno sulla scena ne avrei quasi cinquanta! (ride) Anzi: ho già registrato qualche featuring per nuovi album in uscita, ad esempio quello di Slim e quello di Fastcut. approfitto per dire che a breve uscirà un mio EP di remix, in cui ci sarà anche qualcosina di suonato, un altro pallino che vorrei portare avanti. Inoltre sto già scegliendo i produttori per il mio nuovo progetto. E sicuramente ci sarà anche qualche featuring nel prossimo album, a differenza di quello che è successo in questo.