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Banana Spliff: l’intervista

07-11-2017 Pietro Mantovani

Banana Spliff: l’intervista

Iniziamo dalla fine: XVI Round è un gran bel disco. Ci sono il funk, il cazzeggio, l’amore e la fotta (si può ancora dire?). C’è lo stile inconfondibile dei Banana Spliff, con il flow incisivo e i virtuosismi lirici. Completa il quadro una buona dose di malinconia, che dà al tutto un tocco intimo e maturo.
Drugo, Irak, Onto e Dj Oskie esistono come Banana Spliff da sedici anni, ma sono in giro dagli inizi, e in tutto questo tempo non hanno mai smesso di darsi da fare per “mettere Ancona sulla mappa”. Come molti anconetani, sono molto legati alla propria città e alle Marche, per questo da sempre cercano di dare spessore alla scena ed elevarla a livello nazionale. Vivere in una città di provincia in questi casi rappresenta quasi uno sprono, ma anche una forma di difesa. Protetto dagli Appennini da una parte e dal mare dall’altra, lo stile del gruppo ha potuto evolversi negli anni senza perdere la propria cifra distintiva, mantenendo sempre una certa attenzione agli stimoli provenienti dai diversi punti cardinali.
Incontro Drugo, Onto e Irak a casa di Drugo, e partendo dal disco finiamo a parlare a lungo di hip hop, delle origini, di Ancona, e delle loro storie.

Pietro: proprio all’inizio del disco, in “Buongiorno e buonasera”, Onto dice: “Dall’ultima volta è passato tanto, stare zitti ci è costato, non so ancora quanto”. Quanto vi è costato, e perché?

Onto: ci è costato tanto di sicuro, quanto ancora non si sa. Sicuramente ci è costato in termini intellettuali…

Irak: …di sanità mentale [ride].

Drugo: parlando di mercato, sicuramente oggi come oggi tanta gente fa musica, la tecnologia ha azzerato tutti i parametri, tutti siamo capaci di fare tutto (almeno in teoria). Quando ero più giovane e uscivano i primi dischi di roba italiana, che so, Onda Rossa o Isola Posse, pensavo: “Questi sono dei supereroi!”. Stampare un vinile per noi era fantascienza. Adesso uno a casa ha tutta la tecnologia per produrre pezzi decorosi. Non è un caso che quelli che fanno musica adesso sono molto presenti, fanno uscire continuamente roba nuova. Quindi secondo me ci è costato anche a livello di visibilità. Già siamo una piccola realtà di provincia, poi se non martelli sempre la gente è facile essere dimenticati.

P.: come mai avete deciso di tornare a fare un disco proprio ora?

D.: in realtà non abbiamo mai smesso di fare le nostre cose. In questi anni magari non ci siamo focalizzati su un progetto definito come quello del disco, ma siamo sempre stati presenti, cercando di tirare su la scena di Ancona, cosa non sempre facile.

O.: fondamentalmente perché è stata una lavorazione abbastanza lunga. Abbiamo iniziato a lavorare al disco tre anni fa, alla fine del 2014, inizio 2015. Quindi tra la la chiusura del disco, il mixaggio che non abbiamo fatto noi, e poi i tempi tecnici, siamo arrivati a ora. Più che altro i tre anni tra l’ultimo disco e la fase iniziale di questo sono stati quelli con meno attività.

I.: anche perché prima eravamo sempre stati più prolifici, nel senso che facevamo un disco dietro l’altro. Mentre fermarci questa volta ci ha fatto perdere un po’ il ritmo. Però adesso ci siamo ripresi.

P.: avete avuto difficoltà a rimettervi a lavorare a un disco?

I.: non particolarmente, ogni periodo è fatto di esperienze personali che poi comunque rientrano nella musica. Credo che ogni cosa ha il suo tempo e se una cosa un certo periodo rallenta, è perché è così che deve essere.

O.: personalmente a me ha preso bene. Mentre facevamo questo album alcune difficoltà, alcuni blocchi che sentivo di avere dopo l’ultimo disco sono scomparsi. Questa volta è andato tutto molto liscio.

P.: XVI Round. Come mai questo titolo?

O.: il concetto di base è quello di restare in piedi. Non getteremo mai la spugna, neanche morti.

D.: esatto. Poi ci possono essere anche altre motivazioni, ad esempio il fatto che questo è il sedicesimo anno che i Banana Spliff esistono come gruppo. Poi c’è anche un richiamo all’autobiografia di Rubin “Hurricane” Carter, che si intitola appunto “XVI Round”, in cui l’idea era proprio quella di restare in piedi oltre il XV round, come funzionava la boxe del tempo. Restare in piedi oltre la battaglia. Nonostante tutto non riescono a buttarci giù.

P.: qualche giorno fa ascoltavo alcuni vostri pezzi più vecchi, e sembrano non essere invecchiati affatto. La spiegazione che mi sono dato è che c’è sempre un suono classico, ma allo stesso tempo personale. In questo la vostra musica si discosta da quello che produce l’industria ultimamente, e cioè prodotti spesso effimeri da consumare velocemente. È una cosa che vi viene naturale o c’è una particolare presa di posizione?

D.: penso che fondamentalmente sia un processo artistico. Il fatto di portare avanti una cosa partendo da se stessi, ovviamente raccogliendo stimoli esterni di ogni genere. L’idea di far evolvere un suono a prescindere da tutto il resto.

O.: anche perché sono più di quindici anni che siamo in giro, e anche nel 2005 ci veniva fatta notare la stessa cosa di distaccarci dal suono del momento. Ora, il suono del momento del 2017 è molto differente dal suono del momento del 2005. Questo significa che, alla fine, la roba nostra è questa qua. È una questione di gusti, è quello che ci piace. Poi a noi piace molto un certo tipo di rap, di hip hop, ma siamo anche dei grandi appassionati di musica, quindi non ci siamo mai posti troppi limiti. Non esiste che tra di noi ci diciamo “non possiamo fare una certa cosa perché è troppo commerciale”. Se ci piace lo facciamo, e forse è proprio questo che ci ha sempre salvato.

P.: anche in XVI Round, come nei lavori passati, si sente una forte componente politica, quanto è importante per voi questo lato della vostra musica?

I.: è lui [indica Drugo].

D.: diciamo che tutti noi siamo affascinati da questo mondo. Viviamo in un paese particolare, con una storia complessa. Non credo che esistano altri paesi in cui sono successe delle cose simili, dagli anni di piombo, ai gruppi extra parlamentari, ai movimenti terroristici. Non viviamo nel paese dei balocchi, si tratta di prenderne coscienza e informarsi.

O.: qualcuno diceva che tutto è politica. Noi non abbiamo mai fatto politica nei nostri dischi, almeno non in senso di militanza partitica. Non è una novità che abbiamo simpatie in ambienti di estrema sinistra, però non siamo mai andati a fare concerti per le feste dei partiti.

D.: una volta è successo. Per fare un piacere a un amico ci sono andato e mi sono fatto pagare con la bandiera della Palestina [sorride].

P.: c’è secondo voi una connessione tra politica e hip hop? Lo chiedo perché da un po’ di tempo circola questa idea che il fatto che l’hip hop italiano agli inizi sia stato così tanto accostato agli ambienti antagonisti abbia condizionato sua la diffusione. Siete d’accordo?

D.: non saprei. Io so che quando ho iniziato qui ad Ancona non c’era niente. E quindi devo ringraziare i movimenti e i vecchi punk di una volta. Era gente che faceva altri tipi di discorsi, però chiamavano gente come gli Isola Posse o Lou X. C’era una connessione fra persone che facevano parte di sottotrame, percorsi alternativi, dal punk all’hip hop. Non c’erano grandi divisioni, si faceva tutti parte della stessa faccenda. Io sentivo di farne parte, e organizzavamo le cose insieme. Posso solo ringraziare quelle persone che hanno gettato i semi per quello che è venuto dopo.

P.: e voi come siete venuti a contatto con l’hip hop?

I.: mia sorella più grande mi ha passato una cassetta con le registrazioni di Planet Rock, un programma di Radio2, ci sono andato in fissa e poi ho conosciuto loro e altri appassionati come me. Fondamentalmente, che si tratti di cultura o di un tipo di energia, per me la cosa più importante è che grazie a tutto questo ho conosciuto la gente che sentivo più affine a me, in una realtà piccola come questa secondo me è una cosa ottima.

O.: io ero molto giovane. Ad Ancona c’è da sempre gente molto seria che balla, che ha un rilievo a livello nazionale e internazionale, mi vengono in mente Stritti e Lizard, ad esempio. Io mi sono avvicinato a questa cosa perché come loro anni prima avevo la tendenza a giocare con i dischi e a cercare attenzione alle feste rotolandomi per terra. Poi sono da sempre un grande appassionato di radio, ascoltavo gli Otierre, gli Articolo 31, e mi piaceva scrivere.

P.: con questo disco mettete ancora una volta Ancona sulla mappa. Però mentre nel disco precedente avevate puntato a collaborazioni internazionali di un certo livello, questa volta siete rimasti in Italia. Come mai?

O.: innanzitutto non è ancora detto. Senza anticipare niente, il percorso di questo disco non è ancora concluso. Poi, mettere Ancona sulla mappa è quello che abbiamo sempre cercato di fare. La nostra impronta è quella che punta all’aggregazione, per noi rappresentare Ancona è sempre stato fondamentale. In questo disco questo discorso è ribadito ma non è centrale, rimane centrale per noi come Banana Spliff. In altri dischi abbiamo puntato più a essere presenti, questa volta abbiamo puntato a dare un significato a quello che facevamo.

P.: le due posse track sono abbastanza indicative: “Coppa Cobram pt.2” ha un respiro più nazionale e con diversi nomi della vecchia scuola. In “Hell’z Eye Posse” ci sono tanti artisti locali e giovani. Come avete scelto queste collaborazioni?

D.: in “Coppa Cobram pt.2” ci sono persone con cui siamo in contatto da tanto tempo e con cui avevamo piacere di collaborare. Avevamo fatto una cosa simile anni fa su Rasklat 5 [Prego notare (la totale mancanza di potenziale commerciale), disco del 2008 dei Banana Spliff, ndR], “Coppa Cobram”, dove c’erano più o meno gli stessi nomi. Persone con cui abbiamo un ottimo rapporto umano, perché è difficile collaborare con artisti con cui non riesci a rapportarti a livello umano. “Hell’z Eye Posse” è la posse track dello studio dove registravamo. Abbiamo messo insieme tutte le persone che in quel momento registravano in quello studio, che sono comunque nostri amici. Molti sono giovani e abbiamo pensato che fosse giusto dargli un po’ di visibilità, visto che noi, nel nostro piccolo, forse abbiamo la possibilità di arrivare a un pubblico un po’ più ampio. È il rap come si faceva una volta. Una volta ti beccavi in piazza e magari facevi il rap per il semplice gusto di stare insieme e confrontarti. Il confronto è sempre importante e positivo. Se ti dai solo delle gran pacche sulle spalle alla fine non vai da nessuna parte.

P.: tra i giovani che ascoltate o con cui collaborate c’è qualcuno che vi piace particolarmente?

D.: Claver Gold è sicuramente uno che ci piace molto. Lo conoscevamo per amicizie personali. È sempre stato molto tranquillo, molto gentile. Addirittura quando gli abbiamo proposto il pezzo gli è piaciuto così tanto che ha scritto la strofa lo stesso giorno che gli abbiamo passato il provino. È sempre piacevole quando trovi questo entusiasmo da parte di persone che cerchi di coinvolgere in un progetto. Per quello che riguarda i ragazzi di Ancona, siamo molto legati a Vena, perché oltre ad essere un carissimo amico, per me è uno dei migliori a fare rap.

I.: anche a livello nazionale ci sono tanti giovani bravi. Io ad esempio sono in fissa con Vale Lambo.

D.: penso che forse la scena che mi ha più impressionato ultimamente è la scena di Napoli. L’ho frequentata per un periodo e ho visto giovani molto bravi. Ci sono tantissimi gruppi forti anche se magari poco conosciuti. Dopotutto hanno una grande tradizione, basta pensare a Co’Sang, La Famiglia, 13 Bastardi, Clementino, Callister, anche quello che sta facendo adesso Paura ne è un esempio. A me piace tantissimo la Ganja Farm Cru ad esempio.
Per quello che riguarda le Marche, storicamente siamo arrivati un po’ dopo rispetto ad altre zone, solo nel rap però, nei graffiti e nel breaking le Marche hanno avuto da sempre elementi di primissimo piano ed autentici pionieri. Solo Fibra è riuscito a uscire bene a livello nazionale, ma questo è successo già un po’ di tempo dopo. Quando ho iniziato a fare il rap io qui ad Ancona non c’era niente. Adesso ci sono tantissime realtà valide se vai a guardare: a Pesaro ci sono i Kmaiuscola, a Macerata c’è Ganji, a San Benedetto c’è il File, ad Ascoli c’è Claver, c’è West anche se è un produttore. Adesso la qualità c’è ma è qualcosa che ci siamo dovuti costruire senza troppi punti di riferimento, a differenza di altre grandi città. Ancona è sempre stata fortissima nel ballo. La tradizione dei breaker ad Ancona è famosissima, gruppi come i No Time To Loose hanno fatto la storia, Iron Glass, o Valerio Carelli dei Super Fly, Lil Fly. E anche nei graffiti. Poi ci sono state manifestazioni come il Juice che sono riuscite a portare un po’ di attenzione sulla città.

P.: quella Juice Jam è rimasta nella storia…

D.: è rimasta nella storia perché è capitata in un periodo in cui si cercava di capire dove si stava andando, perché non si aveva la percezione di dove si sarebbe arrivati. Si stava costruendo una cosa partendo da niente. Adesso ci sono tutorial su come fare i graffiti, ad esempio. Noi al tempo abbiamo avuto la fortuna di avere un ragazzo che dipingeva e ballava, Cool 5, che era italo-tedesco, il padre viveva a Monaco e lui ogni tanto andava su e portava le foto dei graffiti. Infatti se vai a vedere lo stile dei graffiti di Ancona si rifà molto allo stile di Monaco di quel tempo. Le fonti erano poche e ti dovevi basare su quello che c’era. Era tutto da costruire da zero, e io sono contentissimo di vedere come si è sviluppato il tutto. Adesso i giovani ascoltano il rap, una volta se facevi rap eri visto come un disadattato. Poi quello che ognuno ascolta è questione di gusti, a me non interessa.

P.: che progetti avete per il futuro? Farete dei live per portare in giro il disco?

O.: sì, in questo momento stiamo lavorando al live. E poi ci saranno delle novità, di sicuro uscirà il vinile…

D.: il primo live che faremo probabilmente sarà il 18 novembre al TNT di Jesi, dove apriremo il concerto dei Colle. Ci stiamo lavorando perché questo sarà un po’ il nostro biglietto da visita.

I.: speriamo di riuscire a girare un po’, anche fuori dalle Marche…

O.: sì, anche perché puoi fare il disco più bello del mondo, ma se non lo porti in giro rimane fine a se stesso.

P.: un’ultima curiosità: come nasce il pezzo “Pachino”?

O.: il pezzo “Pachino” faceva parte di una serie di skit che volevamo inserire nel disco e che poi per motivi tecnici non abbiamo fatto. Avevamo cose molto divertenti, poi però ci siamo concentrati più sulla musica. “Pachino” era una di quelle sciocchezze che stavamo facendo, e ci è sembrato opportuno inserirlo prima di “10000 a.C.” come preambolo.

D.: è che queste cazzate se le vuoi fare bene finisce che ti portano via un sacco di tempo, però le idee erano belle. Magari in futuro le utilizzeremo, in fondo la musica è anche divertimento.

“XVI Round” è fuori per Glory Hole Records e disponibile su tutte le piattaforme digitali e su www.bucodelrap.it. Per informazioni su booking e live: booking@gloryholerecords.it.