Da quando il rap è diventato un genere mainstream anche in Italia, assistiamo sempre più spesso al tentativo di trasportare il genere musicale al di fuori dei confini dell’hip hop, su beat di altro tipo. Abbiamo colto l’occasione per scambiare quattro chiacchiere con uno dei principali supporter di questo esperimento (e uno dei primi che ha iniziato a provarci con convinzione e senza opportunismo): Mudimbi, fresco di debutto discografico con il suo primo album ufficiale Michel. Chi era presente al Red Bull Culture Clash probabilmente ha notato che era l’unico rapper presente nell’unica squadra che con l’hip hop non aveva nulla a che fare, Milano Palm Beat. E non è un caso, perché pur essendo un mc a tutti gli effetti, in realtà la musica che fa è tutt’altro. E anche l’attitudine sembra molto diversa da quella a cui siamo abituati: quando lo raggiungiamo al telefono è metà mattina, fuori fa un caldo infernale ma lui ha appena acceso il bollitore per farsi una bella tisana bollente.
Blumi: Ci racconti qualcosa di te?
Mudimbi: Sono nato e cresciuto a San Benedetto del Tronto e sono di origini congolesi. I miei hanno divorziato quando avevo tre anni, e non è stata assolutamente una separazione pacifica. Ho sempre vissuto con mia madre, anzi, a nove anni ho deciso di tagliare i ponti con mio padre, che non l’ha presa bene: da un lato riempiva di denunce e ingiunzioni mia madre, dall’altro si girava dall’altra parte quando mi incontrava per strada. Il fatto di non avere un padre mi ha molto formato, in un certo senso, perché ho avuto la fortuna di cercare (e trovare) figure paterne in tutti gli uomini che ho incontrato. Sono cresciuto, sono maturato, ho iniziato a lavorare in un’officina, ma dopo dieci anni lì mi sono reso conto che non era quello che volevo fare. La musica aveva sempre fatto parte della mia vita, e al cuore non si comanda: a trent’anni mi sono guardato indietro e ho capito che non avrei voluto arrivare a quarant’anni ponendomi gli stessi problemi. Era il momento di provarci davvero. Mi sono licenziato, tra le lacrime mie e quelle del mio datore di lavoro – che è stato anche lui uno di quei famosi padri di cui parlavamo – e sono andato a cercare la mia felicità. Non so se farò musica per sempre, così come non sapevo se avrei voluto fare il precedente lavoro per sempre. Vivo giorno per giorno. Ora come ora, investo anima e corpo nella musica e finalmente comincio a vedere i primi risultati, tra cui anche il contratto con Warner.
B: Ti sei fatto conoscere dal grande pubblico nel 2013 grazie a un pezzo molto ironico e poi diventato virale, Supercalifrigida…
M: Come dici tu è un pezzo molto ironico, ma molte femministe si sono incazzate. Ho dovuto spiegare in privato ad alcune di loro che sono stato cresciuto da mia madre e che quindi ero lontanissimo dall’essere maschilista. È una canzone che ho scritto quando avevo 18 anni: è nata una sera in cui avevo ricevuto un clamoroso due di picche da una che continuava a tenermi sulla corda. Per sfogarmi, anziché tornare a casa ad ammazzarmi di pugnette, cominciai a scrivere! (ride) Per anni l’ho cantata nelle dancehall, ma di fatto non ha mai girato molto, si può dire che sia rimasta chiusa nel cassetto. Volevo aspettare la produzione giusta, prima di registrarla e diffonderla, perché sapevo che aveva molto potenziale: ogni volta che la facevo dal vivo il pubblico esplodeva. Dieci anni dopo ho conosciuto The Clerk. Appena ho sentito quello che faceva, ho capito subito che era la persona giusta per produrla: gli ho mandato l’acappella e ventiquattr’ore dopo il pezzo era pronto. Lo inoltrai a una mia piccola mailing list che mi ero creato negli anni, ma non se lo cagò nessuno. Sorprendentemente, però, il portale Trapmusic.net (oggi Edm.com, ndr) la pubblicò, e da lì la scoprì Shorty, che lavorava a Radio Deejay e a mia insaputa decise di suonarla. Mi telefonò un amico mentre ero in officina, avvertendomi che c’era la mia canzone su Deejay: sono impazzito, quando ho capito che era tutto vero! Quel pomeriggio per me c’è stata una specie di dilatazione spazio-tempo: ho smesso di lavorare e di fare qualunque altra cosa che non fosse controllare i commenti che continuavano ad arrivare! (ride)
B: Collocarti in un genere musicale è difficile: rappi, ma su beat che non c’entrano nulla con la musica hip hop, e poco fa nominavi la tua esperienza nelle dancehall…
M: Come praticamente tutti quelli che rappano, e sfido chiunque a dire il contrario, vengo dall’hip hop. Sono cresciuto ascoltando tutti i grandi nomi degli anni ’90, però dopo un po’ quell’ambiente mi è venuto a noia. Mi sono reso conto che c’era troppa omologazione, in un certo senso, e a me non piace sentirmi uguale a tutti gli altri. Devo tantissimo all’hip hop, sia chiaro: mi ha dato tutto ciò che sono adesso, mi ha letteralmente insegnato a camminare. Però, dopo che hai capito come si cammina, è naturale voler provare anche a correre, a saltare, a fare capriole, a nuotare… così mi sono messo ad esplorare altri generi, cercando di alzare l’asticella un po’ più in là. Posso garantirvi, però, che tutti i generi che ho sperimentato li ho sempre ascoltati sul serio: dancehall, techno, dubstep… E ho sempre provato a rappare su ognuno di questi stili: magari quando ero alle feste e ballavo un po’ sbronzo, nella mia testa tentavo di fare freestyle su quello che in quel momento passava il dj. Un ottimo esercizio.
B: Un’altra caratteristica che ricorre praticamente in tutti i tuoi brani è l’ironia, che nel tuo caso ormai è diventata una vera e propria maschera. Perché hai deciso di non abbandonarla (quasi) mai?
M: Io sono veramente così, non è una maschera! (ride) Anzi, c’è chi è convinto che sia proprio nelle tracce serie – nell’album ce ne sono solo due, Giostre e Chi – che prendo in giro il pubblico, perché la mia cifra è davvero sempre quella dell’ironia. In tutti i miei brani, comunque, c’è un messaggio serio di fondo. Pensa a Tipi da club: è cazzara, fa ridere, ma se ci rifletti è vero che nei club si incontra gente assurda e borderline, il che la rende davvero una risata amara.
B: Anche la tua delivery è molto particolare, quasi recitata, e sembra accentuare l’effetto di paradossalità dell’insieme…
M: Anche in questo caso, ho sempre rappato così. Anzi, voglio essere onesto fino in fondo: quando ho iniziato, ho copiato palesemente un ragazzo delle mie zone che era già molto bravo ai tempi e che mi ha di fatto insegnato tutto quello che so. Lui sapeva perfettamente che mi rifacevo in tutto a lui! (ride) Con il tempo e l’esperienza, seguendo le sue linee-guida, ho finalmente imparato a tirare fuori qualcosa di mio. Ci soffro parecchio, dietro alle metriche e alla tecnica, per trovare qualcosa che possa appagare l’orecchio e incuriosire. È una cosa che mi è rimasta addosso da quando facevo l’mc alle feste, in affiancamento al dj: la gente era lì per ballare, non certo per me. E o ero capace di catturare la loro attenzione, o la mia presenza lì era completamente inutile. Se ci pensi, questo approccio è valido oggi più che mai: per colpa del multitasking siamo sempre impegnati a fare altro, quando ascoltiamo la musica. Se non riesci a dare qualcosa in più all’ascoltatore, le tue parole rischiano di perderti.
B: Ora che Michel è finalmente fuori, cosa ti aspetti per il futuro?
M: Innanzitutto mi godo tutti i riscontri positivi che mi stanno arrivando sul disco, e tutte le bellissime persone che sto incontrando sopra, sotto e dietro il palco quando suono dal vivo. Sono in tour praticamente dal primo aprile, di fatto, e per l’estate continuerò a suonare in giro con un allestimento ampliato.