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Dischi d’oro, streaming, vendite in blocco: cosa succede nelle nostre classifiche?

16-07-2017 Marta Blumi Tripodi

Dischi d’oro, streaming, vendite in blocco: cosa succede nelle nostre classifiche?

A partire dal 7 luglio, ovvero dalla settimana 27 del 2017 per le classifiche discografiche, anche in Italia Spotify, Tidal e servizi analoghi contribuiscono a determinare il successo o l’insuccesso di un album in termini di vendite: come già succede da tempo in America, infatti, anche gli streaming degli album vengono conteggiati come vendite, e quindi servono anche come misura per assegnare i dischi d’oro e di platino. Dalle nostre parti finora succedeva solo per i singoli: solo ora la FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana, che appoggiandosi all’istituto di ricerca GfK certifica le vendite e assegna i riconoscimenti) ha preferito adeguarsi in toto ai sistemi già adottati all’estero. Un’ottimo modo per vivacizzare il mercato discografico e premiare tutte quelle realtà giovani che vivono di nuove tecnologie (musica hip hop in primis), ma purtroppo non tutto è andato come previsto.

Già nella prima settimana in cui erano in vigore i nuovi criteri, infatti, sono stati assegnati diversi dischi d’oro, annunciati in pompa magna via Twitter e ovviamente ricondivisi dagli entusiasti artisti vincitori. Peccato, però, che ci sia stato un errore di conteggio: i dati, infatti, includevano anche gli streaming della settimana precedente – in cui il nuovo metodo non era ancora in vigore e valevano solo le vendite – e la FIMI è stata costretta a “ritirare” tutti i dischi d’oro già assegnati, perché una volta ricontrollati i dati è emerso che nessuno era riuscito a superare la soglia minima per accedere alla prestigiosa certificazione. Tra gli artisti colpiti dal provvedimento ci sono anche molti nomi noti della scena rap: Gue Pequeno, Ghali e Baby K in testa. Un bel casino, sufficiente a far sollevare molte proteste (di artisti, discografici e giornalisti musicali) sulla trasparenza di questi nuovi criteri. Insomma: allo stato attuale delle cose, come si fa a vincere un disco d’oro o di platino? E siamo sicuri che includere lo streaming sia stata una buona idea?

Fino a qualche giorno fa, per ottenere un disco d’oro in Italia bisognava vendere 25.000 copie, e per averne uno di platino 50.000. Cifre molto inferiori a quelle richieste all’estero: in America sono 500.000 copie per l’oro e un milione per il platino, in Inghilterra 100.000 per l’oro e 300.000 per il platino, in Francia 50.000 per l’oro e 100.000 per il platino. Ogni mercato, insomma, fa per sé, anche in base ai volumi medi di vendite dei dischi, che da noi sono da tempo bassini. Come si fa, quindi, a integrare gli streaming all’interno di questo calcolo, considerando che chi si ascolta un album in streaming non lo compra? Semplice: viene conteggiata una vendita quando un album (o singolo) viene ascoltato per 130 volte. Anche in questo caso, in America sono molto più selettivi: ogni 1500 streaming, si conta una vendita. Oltreoceano i criteri sono molto trasparenti, utilizzano medie ponderate e sono accessibili a tutti. In Italia, purtroppo, per ora la situazione sembra molto più nebulosa: il comunicato della Fimi non dava dati precisi, ma informava semplicemente gli utenti del cambiamento. Restano punti poco chiari, almeno per noi comuni mortali: cosa succede, ad esempio, se un album non viene ascoltato per intero ma solo “a pezzi”, che è poi il metodo di fruizione preferito dai teenager di oggi, fanatici delle playlist più che degli album? E soprattutto, se già è facile truccare i dati con pratiche come l’autobuy, non sarà ancora più facile per gli streaming? Sempre la FIMI ci dice che sì, c’è questa possibilità, e che la federazione si è già attivata per combatterla. Ma non è detto che sia così semplice. Poniamo il caso di un artista con un milione di fan su Facebook che fa un appello ai suoi follower, invitandoli ad ascoltare almeno una volta al giorno il suo album per una settimana: ai follower non costa niente, e aiuta a guadagnare posizioni preziose per risalire la classifica e ottenere un disco d’oro. E i sistemi di rilevazione non possono individuare il trucco, perché si tratta di utenti veri e streaming veri. Insomma, lo scenario cambia completamente.

Questo vuol dire che dobbiamo continuare a escludere lo streaming dai conteggi? No, certo, ma bisogna fare le cose con un criterio logico e dei meccanismi di tutela, in modo da non danneggiare gli artisti piccoli o quelli più “adulti”, che tradizionalmente non vanno forte nello streaming. E questo vale sia per l’Italia che per l’America: è di settimana scorsa la notizia che Jay-Z avrebbe ricevuto il disco di platino ancora prima che 4:44 fosse ufficialmente uscito. Com’è possibile? Semplice: Sprint, un operatore telefonico americano, ha acquistato in anticipo milioni di copie dell’album, per metterle a disposizione dei propri clienti gratuitamente (un po’ come avevano fatto gli U2 quando avevano regalato il proprio album agli utenti di iTunes). Si tratta di vendite vere, insomma, peccato che quelle copie siano state comprate in blocco dallo stesso acquirente, e che non si sappia quanti dei clienti Sprint abbiano effettivamente ascoltato il disco. Tutte cose su cui riflettere, insomma. Per non parlare del fatto che bisognerebbe riflettere anche sugli interessi degli artisti e dei songwriter: se già oggi si guadagnano pochi euro – anzi, in qualche caso pochi centesimi – da ogni copia effettivamente venduta o scaricata, cosa succederà quando lo streaming, che è ancora meno redditizio, diventerà lo standard prevalente? Economicamente, il sistema riuscirà a reggersi in piedi sul lungo periodo? Lo scopriremo solo vivendo, e solo se chi di dovere comincerà a ragionare seriamente su problemi, limiti e opportunità di questa nuova frontiera.