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Prodigy, il poeta del Queensbridge

20-06-2017 Reiser

Prodigy, il poeta del Queensbridge

Martedì 20 luglio, 19:07. Sono appena tornato a casa dal lavoro quando lo schermo del cellulare si accende mostrandomi l’anteprima di un messaggio su WhatsApp. “Oh vai su internet è morto Prodigy”. Meno di dieci secondi dopo leggo la notizia ufficiale: «Prodigy, leggenda del rap, è morto a 42 anni. […] Il rapper, all’anagrafe Albert Johnson, soffriva da tempo di complicazioni di salute, tra cui una grave forma di anemia falciforme, ma al momento le cause del decesso sono ancora ignote». Nel frattempo arriva un altro messaggio, poi un altro, e un altro ancora. Sono tutti scritti alla stessa maniera, con quella brutta notizia accompagnata da parolacce e bestemmie, in una delle poche circostanze in cui il turpiloquio – più che a enfatizzare – viene usato per diluire un’affermazione altrimenti troppo amara. Me ne rendo conto quando anch’io decido di partecipare al girotondo di WhatsApp scrivendo queste poche righe all’amico che nell’autunno del 1995 mi prestò The Infamous dicendomi di copiarmelo e di ascoltarlo: “Morto Prodigy dio****”.

Qualche ora più tardi rifletto su quello che è appena successo. Innanzitutto, constato di avere appena partecipato al passaparola via internet della notizia della morte di uno sconosciuto appresa su internet: un rito di una stupidità che grida vendetta al cielo, che di solito risveglia in me solo disprezzo, ma che stavolta mi ha visto complice perché per un attimo ho provato quella sensazione di vuoto che si ha di fronte alla morte di qualcuno o qualcosa che ha fatto parte della propria vita. Da qui la seconda osservazione: tutti i partecipanti a questa danse macabre hanno grossomodo la stessa età, cioè tra i 30 e i 40 anni; come tali, abbiamo vissuto in prima persona un periodo durante il quale reperire informazioni sulla propria musica preferita era ancora relativamente difficile. Le fonti giornalistiche erano perlopiù limitate a The Source o Rap Pages (film e video pochi, documentari zero), per cui ci restavano solo gli artisti: questi però parlavano esclusivamente attraverso la musica, rivolgendosi peraltro a un pubblico decisamente diverso da noi. Di conseguenza, ascoltarli significava compiere notevoli sforzi di comprensione, parlare con altri per cercare di colmare le lacune linguistiche e culturali e, alla peggio, riempire i vuoti rimasti con la nostra immaginazione.

In tal senso, Prodigy era una voce attraverso cui facevamo dialogare la nostra realtà di sbarbatelli bianchi relativamente agiati con un immaginario che presentava sì molti tratti in comune con la “nostra” cultura, ma che ciò nondimeno offriva uno spaccato di mondi esotici almeno quanto i romanzi di Verne: come abitudini di vita, esperienze e parlata. E, analogamente a quanto avviene con la migliore letteratura escapista, il ruolo del fruitore non si riduceva semplicemente all’ascolto, bensì all’interpretazione. E Prodigy, di materiale da interpretare, ne forniva molto più di altri.

Due anni fa, in occasione del ventennale di The Infamous, assieme a un amico scrissi un lungo pezzo sulle ragioni per cui quel disco è un ascolto fondamentale. Molto del successo si deve ovviamente al partner di Prodigy, Havoc, che con quell’album inventò un sound e uno stile che presto sarebbero diventati sinonimo di “Queensbridge”, ma da solo ciò non basta. A fare la parte del leone al microfono era infatti P, che, abbandonata la voce da adolescente e la generale immaturità dell’esordio Juvenile Hell, si era trasformato in uno dei migliori rapper dell’epoca.

A partire dalla voce, innanzitutto: né stridula né baritonale, si contraddistingueva per una raucedine appena accennata – di quelle che vengono dopo sere passate a fumare troppo e bere troppo Jack Daniel’s – unita a un modo unico di strascicare le vocali e troncare le consonanti (“nine milli” diventava nah mil’, per esempio) che elevavano un semplice accento a slang fatto e finito, se non quasi a una forma di broken English. Era impossibile non riconoscerlo dopo poche parole. Parole che peraltro sapeva mettere in rima come pochi altri: forse privo della tecnica di un Kool G Rap o un Big Daddy Kane (o semplicemente disinteressato a diventarne un emulo), Prodigy non rinunciava a giocare con le sillabe, ma di volta in volta piegava le parole e la loro pronuncia al senso della frase. Il suo era un approccio che univa la filosofia del gangsta rap di matrice californiana alla scrittura della costa atlantica: i suoi testi erano sempre in prima persona e incentrati sull’ultraviolenza (“stab your brains with your nosebone”, per dirne una), ma con la differenza che raramente seguivano una precisa linea narrativa, preferendo dipingere in modo impressionista situazioni iperviolente a cavallo tra realtà e finzione.

Mentre gruppi come gli N.W.A., i Compton’s Most Wanted o gli Above Tha Law si fregiavano di essere dei reporter da zone di guerriglia urbana, e laddove un Kool G Rap e il Wu-Tang Clan trasformavano il cinema in musica con continui riferimenti all’immaginario mafioso di De Palma o Coppola, i Mobb Deep facevano dell’estetizzazione della violenza il loro marchio di fabbrica. È per questo motivo che – a differenza di tanto thug rap da discount – Prodigy riusciva a riproporre lo stesso canovaccio in modi sempre interessanti e linguisticamente creativi. Una caratteristica evidente su The Infamous e che avrebbe visto la sua forma perfetta nel successivo Hell On Earth. Nell’omonima traccia, per esempio, laddove uno dei tanti artisti meno dotati avrebbe aperto la terza strofa dicendo semplicemente che ha la pistola più grossa e che non si fa problemi ad ammazzare chi gli si para davanti, P invece gioca con doppi sensi, metafore e immagini, partorendo versi da applausi come “The heavy metal king hold big shit with spare clips/ You see an eclipse when the MAC spits, your top got split/ Layin’ dead with open eyes, close his eyelids, turn off his lights switch to darkness/ Cause deep in the abyss it’s a street life, blood on my kicks, shit on my knife/ You’se a wild child kid, cold turnin’ men into mice”. E che dire dell’immaginario da hood Lovecraft di Nighttime Vultures? “Yo I rose early morning, spread my wings yawning/ Vague memory of last night now it’s all dawning/ Look down and see dry blood all on my garments/ It stained all my Guess farmer’s, colored enormous”.

Non meraviglia che strofe simili gli valessero riconoscimenti come la colonna Hip Hop Quotable nella Source in un periodo dove la competizione era FEROCE, e nemmeno stupisce che tra il 1995 e il 1999 fosse uno degli artisti più in voga per collabo e ospitate. Dell’epoca non ricordo un suo featuring dove il risultato fosse meno che eccelso: da Know Da Game a War’s On, da Gusto a The Game, da Bulworth a Street Life. Perfino la comparsata su un pezzo R&B (The Roof di Mariah Carey) riusciva a reggere il confronto con i due punti di riferimento dell’epoca (il remix di Brown Sugar con Kool G Rap e quello di Freakin’ You dei Jodeci con Raekwon e Ghostface Killah). E questo per non dire delle volte in cui usciva a testa alta da quella che era la Champion’s League dell’hip hop di metà anni Novanta: basti pensare a posse cut storiche come Tres Leches (Triboro Trilogy), dove chiunque sarebbe stato umiliato da Big Pun e Deck, e soprattutto lo storico remix di I Shot Ya. Il punto è che sia da solista, sia in tandem con Havoc, per quattro anni Prodigy è stato un punto di riferimento per l’emceeing e per il miglior rap nuiorchese di sempre.

I risultati economici si sarebbero visti con Murda Muzik, il quarto album del duo: noto per la lavorazione travagliata – fu uno dei primi dischi rap a essere leakato anzitempo su internet e a necessitare una parziale rielaborazione – quando sul mercato uscì la versione ufficiale, la mancanza di tracce come Perfect Plot, Feel My Gat Blow o Nobody Likes Me non influì sulle vendite, rendendolo il loro maggior successo commerciale di sempre. Epperò, col senno di poi, ascoltandolo si possono notare i primi segni di cedimento: a classici come What’s Ya Poison, Adrenaline, Where Ya Heart At e Quiet Storm si alterna un inusuale numero di pezzi insipidi, quantomeno per gli standard a cui ci avevano abituati: un problema che riguardava principalmente i beat di Havoc, ma che presto si sarebbe esteso anche all’emceeing di Prodigy.
Tuttavia, all’epoca furono in pochi a registrare il calo qualitativo. Del resto, quando l’anno successivo P-double-E pubblicò il suo esordio da solista, H.N.I.C., anche le peggiori Cassandre dovettero ricredersi: il Nostro era più in forma che mai, e la collaborazione con l’allora emergente discepolo di DJ Muggs – un ragazzo bianco di nome Alchemist – stava producendo risultati sorprendenti: la melancolica Genesis, la ruvida Three e, ovviamente, la classica Keep It Thoro. Poi, però, successe qualcosa: l’edizione del 2001 della Hot 97 Summer Jam.

I fatti sono noti: in pieno scazzo con i Mobb Deep, durante il suo live Jay-Z mostrò una foto scattata nel 1988 in cui si vedeva un Prodigy tredicenne vestito come Michael Jackson, segnando così la fine della sua reputazione da duro. A dire il vero, questa si era già incrinata in seguito a voci che lo vedevano messo a terra da Keith Murray – col quale aveva avuto una lunga serie di incomprensioni – ma quella “umiliazione” (in fondo, che male c’era?) fatta davanti a decine di migliaia di spettatori, nella propria città natale, e per giunta dal rapper più in vista del momento, fu troppo.

Quel che è peggio è che per una sfortunata serie di coincidenze anche l’output musicale del duo subì una netta flessione: Infamy (2002) è il segno più evidente della decadenza di Havoc come beatmaker, di quella di P come scrittore, e della generale incapacità del duo di adattarsi a un panorama musicale che stava cambiando: New York stava sempre più cedendo il passo alle sonorità del dirty south, e sempre più artisti si proponevano come alfieri di realtà ultraviolente che lasciavano margini di manovra più ristretti a chi si dedicava a quel particolare sottogenere di rap. Per sopravvivere si doveva quindi eccellere nel proprio stile, non cambiarlo. O, se proprio, perlomeno non in peggio. Per ironia della sorte, in quel periodo, mentre Hav cercava di stare al passo coi cambi del sound e Pee semplificava eccessivamente il suo vocabolario e la sua metrica (come si nota in tracce come Bounce o Hurt Niggaz), gli Infamous Mobb – fino ad allora sostanzialmente dei portaborse del duo – davano alle stampe il loro esordio, l’eccezionale Special Edition: prodotto in larga parte da Alchemist, esso ribaltava tutto ciò di sbagliato che c’era in Infamy e mostrava come andavano fatte le cose. Paradossalmente, nessuno degli MC era particolarmente dotato (Twin Gambino e G.O.D.father Pt. III passabili, Ty Nitty inascoltabile) ma bastava un beat con un po’ di testosterone per creare una miscela vincente. Nota a margine: sul magnifico singolo Mobb Niggaz Pt. II Prodigy si limita al solo ritornello.

E se due anni più tardi i Mobb Deep ridarono le speranze ai fan rimasti col discreto Amerikaz Nightmare, le scarse vendite di quest’ultimo li spinsero tra le braccia di 50 Cent e della G-Unit. Una mossa che all’epoca fu criticata da molti, che li accusarono di essersi svenduti e di aver perso ogni contatto con le loro origini, preferendo trasformarsi in galoppini di 50; concetti riassunti in un lungo post scritto nel maggio 2006 da Phonte dei Little Brother, in cui l’autore stila un lungo elenco delle cose che a suo dire non vanno più nel gruppo del Queensbridge. Per quanto alcune accuse fossero infondate già all’epoca – se svendita vi fu, questa avvenne già con Infamy – bisogna tuttavia ammettere che la bruttezza del loro settimo album ufficiale, Blood Money, non aiutò certo a smentirle: esclusa l’ottima Put ‘Em In Their Place e la valida Speakin’ So Freely, infatti, il resto delle tracce oscillava tra l’inutile e il mediocre, e ciò, unito a una ricezione commerciale sotto le aspettative (a oggi siamo sotto le 300,000 copie), contribuì alla successiva scomparsa del duo dai canali mainstream.

Se ci fermassimo qui, sembrerebbe il triste – ma tutto sommato banale – epilogo di una carriera. Per fortuna, però, le cose sono andate diversamente: entrambi si imbarcano in carriere soliste e, mentre quella di Havoc purtroppo non brillerà mai, quella di Prodigy prenderà una piega diversa. Certo, è vero che in nessuno dei suoi album tornerà mai allo stile delle origini, ma è altrettanto vero che ripulirà metrica e scrittura e, quando supportato da beat di spessore, riuscirà ancora a trasmettere le sensazioni di un tempo.
Senza nulla togliere ai sottovalutati Sid Roams (che lo accompagnano in HNIC Pt. 2 e Product Of The 80’s con risultati talvolta ottimi), non è un caso che le sue uscite migliori si identifichino facilmente nelle collaborazioni con Alchemist: l’eccellente Return Of The Mac (2007) e l’altrettanto godibile Albert Einstein (2013). Il primo è un omaggio alle atmosfere anni ‘70, con classici campioni soul e funk sui quali P si districa con scioltezza per raccontare a suo modo il ventre di una New York di cui si sente sempre meno; dal punto vista artistico l’album segna la rinascita artistica del Nostro, con punte di eccellenza come New York Shit, Stuck On You, MAC-10 Handle e Nickel And A Nail (che campiona l’omonima canzone di O.V. Wright, ovvero uno dei pezzi soul più belli mai incisi) che rendono l’opera il suo lavoro migliore dai tempi di HNIC. Il secondo, invece, vede Alchemist produrre beat più in linea con il suo stile contemporaneo – synth, 90/95 bpm, batterie in secondo piano – che aiutano Prodigy a rinfrescare una formula composta da narrazioni quasi surreali nella loro violenza e nell’immaginario usato. Ascoltando i primi versi di Death Sentence sembra incredibile che siano passati già vent’anni da The Infamous: “Morning of the day, evening of the killer kids/ City of the Gods, money stack pyramids/ Esoteric knowledge and I’m criminal minded/ A lady’s wet dream and the devil’s worst nightmare”.

«Prodigy ha scritto alcune delle barre d’apertura più classiche della storia»: nel già citato post del 2006, in mezzo a tutte le critiche rivolte a Blood Money e ai Mobb Deep in generale, Phonte scrisse le uniche parole memorabili della sua carriera, formalizzando per la prima volta quello che in seguito sarebbe diventato un truismo del rap. È vero, nessuno più di Albert Johnson sapeva aprire le proprie strofe in modo altrettanto memorabile, e non è certo un caso che le sue parole e la sua voce siano state citate o riutilizzate in innumerevoli pezzi di colleghi di mezzo mondo. Ma non è solo quello. Prodigy ha saputo dar vita a un immaginario unico, ricco di spunti, originale per la forma assunta e per le declinazioni subìte nel tempo: ascoltare le sue barre in Apostle’s Warning o nella splendida Back At You, così come nelle più personali Veteran’s Memorial e You Can Never Feel My Pain, equivale ad avere una pellicola sgranata scorrere davanti agli occhi, dove l’immagine non è mai abbastanza definita per escludere del tutto l’immaginazione dell’ascoltatore.

E allora ecco forse la ragione per cui noi tutti, persone tra i 30 e i 40 anni, abbiamo reagito in maniera irrazionale di fronte alla scomparsa di un oggettivo sconosciuto: con la morte di Prodigy se n’è andato un pezzo della nostra adolescenza. A differenza di oggi all’epoca eravamo costretti a immaginare, e lui era uno dei pochissimi capaci di prenderci per mano. Per me e i miei amici leggere quel titolo «Prodigy dead at 42» sancisce quindi irrevocabilmente la fine di un’era; per i più giovani, francamente non saprei dire e in questo momento m’importa poco.

Ciò che è conta è che «abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo».