Ogni volta che una testata italiana decide di parlare di hip hop, gli appassionati del genere sentono un brivido freddo scendere lungo la schiena. Finché a straparlare di rap e dintorni sono media generalisti come Repubblica o il Corriere – che si gettano sul tema all’improvviso, affidando quasi sempre i lavori a persone prive di una competenza specifica – accettiamo (forse sbagliando) l’inevitabilità delle analisi superficiali o semplicemente sbagliate. Diverso è il discorso se ad affrontare la questione hip hop è una testata come Il Cartello, che negli ultimi anni si è costruita una certa audience facendo degli approfondimenti di qualità la sua cifra distintiva.
Pochi giorni fa sono incappato in un loro articolo, Storia della mercificazione dell’hip hop (scritto da Iacopo Tonini): pubblicato per la prima volta nel febbraio 2016, è stato recentemente rilanciato dalla pagina Facebook de Il Cartello (che gode di quasi 40mila like) ottenendo una bella circolazione (322 like, 86 condivisioni e una ventina di commenti; non male per un vecchio pezzo rilanciato). Il che significa, a spanne, che qualche migliaio di persone avrà letto l’articolo e si sarà convinto che quanto raccontato corrisponda a realtà. Ed è una pessima notizia, considerando la quantità di forzature, semplificazioni estreme ed errori che Iacopo Tonini (che nella bio scrive di coltivare “una passione per i mass media e per come questi siano in grado di curvare la realtà”; cosa che in effetti dimostra di fare lui per primo) ha messo in fila.
Errori che partono, incredibilmente per un articolo di analisi, dai nomi dei personaggi più noti della storia dell’hip hop e pure delle discipline che lo compongono. E allora, il chiarimento inizia da qui: Kool Herc si scrive con la “k” iniziale e non con la “c”; Grandmaster Flash si scrive staccato e non tutto attaccato e, porca miseria, scratching non si scrive “skretching”. C’è davvero da chiedersi con quale competenza uno si metta a disquisire di mercificazione dell’hip hop quando non è nemmeno in grado di scrivere correttamente il nome di una delle quattro discipline.
Ma passiamo oltre, e arriviamo al punto in cui, secondo l’autore, l’hip hop intraprende la via della mercificazione e quindi della “morte” del genere: è il 1979 e la Sugar Hill Gang pubblica quella che è universalmente nota come la prima hit del genere, Rapper’s Delight. Il successo del pezzo, scrive Tonini, verrà pagato a caro prezzo dall’hip hop, che da quel momento in avanti diventa “un bene di consumo destinato al grande pubblico bianco”. Povero hip hop, morto pochissimi anni dopo la nascita (1973) a causa della Sugar Hill Gang, che ne ha tradito lo spirito, come si legge, “nella sua forma originale (Old school) e nei suoi contenuti iniziali (volti a esporre la dura realtà del ghetto e della discriminazione razziale)”.
Da queste parole, deduciamo che un altro grande traditore del genere dev’essere stato Kurtis Blow, che nella celebre hit The Breaks si lasciava andare a liriche di questo tipo: “Throw your hands up in the sky / And wave ‘em ‘round from side to side / And if you deserve a break tonight / Somebody say alright!”. Traditore lui, la Sugar Hill Gang e tutti i primi MC che, nelle feste doverosamente doverosamente citate, provavano a lasciarsi alle spalle la dura vita del “ghetto” per ballare al ritmo di testi leggeri (più che altro incitazioni rivolte al pubblico), improvvisati e rigorosamente in stile party.
Mettetevi l’anima in pace, il “party rap” non è un tradimento dell’hip hop: è l’origine dell’hip hop. Il fatto che in Italia il genere sia arrivato per il tramite dei centri sociali e gruppi di “rap militante” provoca ancora oggi la visione distorta secondo la quale il rap è nato come musica di protesta. Cosa che, ovviamente, è vera – fosse anche solo per il fatto che il rap è nato nell’ambiente in cui è nato – solo se si inserisce questo aspetto in un contesto più ampio, senza pretendere che i testi “party” siano una corruzione del rap quando invece ne sono la componente più originale.
“Si ha dunque il primo mutamento radicale del genere e degli scopi del movimento, che portò la scena a spaccarsi in due”, si legge nel pezzo di Tonini. “Da un lato vi erano gli artisti a favore della produzione di nuovi pezzi più commerciali sul dance andante, stimolati dal flusso di verdoni che entrava nelle loro tasche; dall’altro vi erano i puristi del genere, i fondatori, coloro che non si fecero abbindolare dai soldi e decisero di rimanere veri”. Questa è la parte che preferisco di tutto l’articolo, perché riesce a trasformare in peculiarità del rap qualcosa che è valido per qualsiasi genere musicale sulla faccia della terra: si può dire la stessa cosa del punk, del metal e anche della musica lirica, che si è trovata ad affrontare fenomeni commerciali (tipo Andrea Bocelli) disprezzati dai puristi. Non è il rap che si è diviso tra “commerciali” e “puristi”: qualunque genere musicale – se non artistico – che vi possa venire in mente si è trovato in questa situazione.
Fa anche un certo effetto che, in un pezzo che racconta la “storia delle mercificazione”, non ci sia spazio per citare una figura come LL Cool J (vera e propria colonna portante del rap commerciale old school) e soprattutto non si faccia lo sforzo di tirare fuori i nomi di coloro i quali “non si fecero abbindolare dai soldi e decisero di rimanere veri”. Chi sono costoro? Difficile a dirsi, ma forse li possiamo trovare dalle parti della Juice Crew, di Rakim o Kool Moe Dee. Sempre che questa distinzione tra commerciali e puristi abbia davvero tutto il senso che le si vuole dare.
“Con la morte della vecchia scuola (nei primi anni ’80!, nda), l’hip hop fu gradualmente dato in pasto a un manipolo di ragazzini bianchi”. E così, inevitabilmente, si arriva al capitolo dei bianchissimi Beastie Boys, “creazione” di Rick Rubin e primo gruppo rap (ma non prettamente hip hop) a raggiungere il primo posto su Billboard con il loro License to Ill (1986). Stando all’autore del pezzo, c’è una sola ragione per cui da qui in avanti l’hip hop non sia finito nelle mani dei rapper bianchi, e cioè che nonostante la domanda commerciale “venisse da giovani bianchi, ciò che tutti volevano era musica nera fatta da neri”.
La forzatura è talmente grossolana da far veramente girare i coglioni. Basterebbe informarsi un po’ per scoprire che ancora oggi l’audience del rap negli Stati Uniti è per la maggior parte composta da ragazzi di colore (in relazione al loro peso demografico): lo afferma un’analisi Nielsen del 2015 (in cui si legge: Hispanics and African-Americans are also more likely to be fans than the general population) e pure una della società Brandon Gaille (che dice: 40% of the total hip hop audience is African American, which is more than double the population footprint of the Caucasian audience per capita). In verità, basterebbe il buon senso; se negli ultimi 40 anni il rap l’avessero ascoltato solo i bianchi, i ragazzi dei projects che musica avrebbero invece sentito nel South South Bronx, a Compton o a Brownsville: il cool jazz di Miles Davis? La vedo dura.
L’hip hop hanno continuato a farlo i neri non per volere di Rick Rubin, ma perché il rap, negli anni ’80, lo ascoltano soprattutto i ragazzini che vivono nei projects e che poi si trasformeranno nei fautori della golden age degli anni ’90. Che in tutto questo anche i bianchi comincino ad ascoltare il rap è tanto normale quanto secondario; sarei però curioso di sapere cosa ne pensano Kendrick Lamar e soprattutto The Game (entrambi nativi di Compton) dell’affermazione secondo cui gli NWA diedero in pasto il loro album “Straight out of Compton” – che in realtà si chiama Straight Outta Compton, ma vabbè – a “masse di adolescenti bianchi”.
Ma l’apice delle cazzate, a questo punto non saprei come altro definirle, arriva quando si parla di KRS-One, definito uno “stereotipico gangsta rapper”. Povero Kris, scoprirsi definito “gangsta” dopo aver fondato, nel 1987, il movimento “Stop the violence” in risposta all’assassinio del suo socio Scott La Rock (e, in generale, nel tentativo di fermare la violenza che imperversava nel Bronx e altrove) e dopo aver teorizzato che il rap dovesse essere una forma di edutainment (education + entertainment), tanto da chiamare così uno dei suoi album.
Cosa volete che interessino queste piccolezze a Tonini, che nel suo pezzo arriva a decretare una seconda morte dell’hip hop, questa volta causata dall’introduzione del programma Yo! MTV Raps, che ne “completa il processo di pop-izzazione”. Mmmhh, curiosa teoria, quella della (seconda) morte dell’hip hop a causa di un programma andato in onda dall’88 al ’95. L’hip hop muore, secondo Tonini, proprio mentre si gettano i semi per la golden age e per i clamorosi successi degli artisti che hanno definito il genere e che, ancora oggi, vengono visti come l’anima stessa dell’hip hop “vero”: Notorious B.I.G, 2Pac, Dr Dre, Jay Z, Nas, Mobb Deep, Wu Tang Clan, Cypress Hill e chi più ne ha più ne metta. E poco importa che alcuni di costoro oggi siano dei businessmen 50enni miliardari, perché negli anni ’90 hanno sfornato capolavori di hip hop allo stato puro. Period.
Dischi che hanno venduto milioni e milioni di copie dovrebbero interessare a chi sta parlando di “mercificazione”, giusto? Peccato che gli anni ’90 nella loro interezza vengano liquidati così: “Saltando i mitici 90, epoca d’oro di definitivo consolidamento del genere (…)”. Esatto, vengono semplicemente saltati. Chissenefrega della golden age! E cosa volete che interessi – a chi pensa che il rap sia fatto principalmente da neri per volere di Rick Rubin e degli altri produttori – della storia di un ragazzo bianco nato in uno dei peggiori quartieri di Detroit che, grazie a una tecnica mostruosa, si è fatto largo a spallate in un ambiente (nero), che lo guardava malissimo, per diventare Eminem? Ma forse è tutto merito di Rubin, che, senza che nessuno se ne accorgesse, ha mosso le fila per far sorgere un altro rapper bianco di successo a oltre dieci anni di distanza dai Beastie Boys (Vanilla Ice, siamo tutti d’accordo, possiamo serenamente ignorarlo).
Il pezzo si chiude con Nas, che nel 2006 decreta la morte dell’hip hop intitolando (provocatoriamente) Hip Hop is Dead un suo album. Ma, appunto, siamo nel 2006, quando l’onda lunga della golden age si sta definitivamente spegnendo dopo averci dato oltre dieci anni di musica che rimarrà per sempre nella storia. Nel 2006; non nel ’79 o nell’88. E oggi, come siamo messi? La mercificazione dell’hip hop è definitivamente avvenuta? Probabilmente sì, nonostante la scena underground sia viva, vegeta e in grado ciclicamente di tirare fuori nuovi ottimi artisti (tipo WestSide Gunn) e nonostante anche la scena mainstream sia popolata di gente dalle indubbie qualità (per quanto possano, soggettivamente, non fare impazzire) come il già citato Kendrick Lamar o, chessò, Schoolboy Q. Ma ormai l’hip hop è un genere talmente diffuso, variegato e in grado di influenzare il mondo del pop che discorsi di questo tipo perdono di ogni significato; tanto vale ascoltarsi la musica senza pensarci su troppo.
Questo, però, sta avvenendo oggi, a 44 anni dalla nascita del genere. E la mercificazione sotto accusa non impedisce che in ogni concerto si celebri il più classico dei tributi ai “soldati dell’hip hop morti” (come Snoop stesso spiega nel video linkato, come a istruire un pubblico, questa volta sì, principalmente bianco) e che uno come Jay Z, a 47 anni, senta il bisogno – dopo aver saputo di essere diventato il primo rapper incluso nella Songwriters Hall of Fame – di ringraziare su Twitter i più grandi protagonisti di quella che lui ancora oggi definisce “la cultura”.
L’hip hop inteso come l’insieme delle quattro discipline sarà pure morto, e anche la parte musicale ha subito una metamorfosi tale da essere difficilmente riconoscibile da chi, come me, è cresciuto nel mito del Queensbridge e dei Mobb Deep; ma questo percorso vale per ogni genere musicale. Se c’è qualcosa di cui dovremmo stupirci, non è tanto la mercificazione dell’hip hop, ma quanto sia riuscito a essere incredibilmente longevo, vero e influente (ancora oggi in grado di influenzare i produttori discografici dal basso, più che venirne manipolato dall’alto) prima di smettere di essere “cultura” per diventare, semplicemente, un genere musicale pop più figo degli altri.