HOTMC

Dutch Nazari & Sick et Simpliciter: l’intervista

17-05-2017 Marta Blumi Tripodi

Dutch Nazari & Sick et Simpliciter: l’intervista

Quest’intervista arriva a qualche mese di distanza dall’uscita di Amore povero, per una ragione molto semplice: non ci piacciono gli album usa e getta. Se un disco vale, lo si capisce soprattutto sul lungo periodo, quando ti accorgi che hai voglia di riascoltarlo anche se nel frattempo ne sono usciti altri mille: e questo, ovviamente, è il caso dell’ottimo album di Dutch Nazari e Sick et Simpliciter, che sicuramente per moltissimi rimarrà tra le migliori uscite di questo 2017. Li abbiamo incontrati in una mattinata di sole a Milano, per parlare di cantautorap, di trap atipica, di stazioni ferroviarie e di molto altro ancora.

Blumi: Come procede la tua transizione da semplice rapper a cantautore vero e proprio?

Dutch Nazari: A tappe, diciamo. Non a caso l’EP che precedeva l’album lo abbiamo intitolato Fino a qui, perché sto facendo un viaggio e ogni volta che tiro fuori un nuovo lavoro è come una nuova stazione che incontro sul mio percorso. Le mie idee sulla musica restano variegate, ma coerenti. Per un po’ ho pensato solo all’hip hop, ma – anche se non molti di noi lo ammettono – siamo una generazione di rapper divisa a metà: quando andavamo a scuola ci ascoltavamo in cuffia i vari dischi di hip hop italiano, ma quando facevamo i viaggi in macchina insieme ai genitori ascoltavamo Lucio Dalla, De André e Guccini nell’autoradio. Quello che faccio oggi è un’inevitabile somma di queste due influenze.

B: Come avete lavorato per integrarle, quindi?

D.N.: Luca (Sick et Simpliciter, ndr) spesso dice che noi stiamo costruendo un mondo da zero, perché in Italia non esistono molti riferimenti per il nostro genere. Il bello della musica è che se ci mettiamo in dieci ad ascoltare la stessa canzone, potenzialmente stiamo ascoltando dieci cose diverse, perché diamo tutti peso ad aspetti diversi; ecco, io e lui diamo peso ad aspetti assolutamente complementari, per quello siamo un’ottima squadra. Di solito di una canzone noto la parte autorale: linea melodica, note, accenti, testo, significato e quel minimo di progressione armonica che puoi riprodurre con la chitarra a un falò in spiaggia. Luca, invece, dà peso a tutto il resto: l’arrangiamento in tutte le sue componenti, il suono di ogni singolo strumento. Questo era il terzo disco a cui lavoravamo insieme e credo che ormai siamo perfettamente in sintonia.

B: Sick, quanto c’è di suonato e quanto di programmato, nelle tue produzioni?

Sick et Simpliciter: Amore Povero è un album interamente suonato. Le uniche cose programmate sono quelle che potevo difficilmente riprodurre in studio, ovvero i kick, perché se non hai a disposizione una cassa davvero grande non puoi generare delle frequenze così basse: parlo di quei suoni grossi e lunghi che sono tipici della trap, che mi ascoltavo a manetta mentre registravo l’album.

B: Ti ascoltavi a manetta la trap e il disco suona all’opposto? Questa è davvero interessante…

S.e.S: Ascolto di tutto, ma non copio: quando decidiamo di riprodurre qualcosa che ci piace (generalmente un singolo suono, non certo una canzone intera), lo facciamo a modo nostro.

D.N.: Se ci pensi Gin Jack Havana Cointreau è un po’ il pezzo trap del disco, ma sicuramente è lontano anni luce da quello che di solito fanno gli interpreti della trap in Italia.

S.e.S.: Anche Un fonico ha tante cose della trap: un basso importante, un ritmo dimezzato… Sicuramente non ha le cose che noti di più della trap, però, tipo gli hi-hat 32esimi o l’autotune.

B: Tornando ai testi, Dutch, ancora più che in passato ti diverti a giocare sul paradosso e sull’inaspettato, con chiusure a effetto e giochi di parole surreali. Hai volutamente calcato la mano?

D.N.: Mi fa molto piacere sentirti dire questo. Man mano che imparavo a scrivere le canzoni, ho cominciato a riconoscere sempre di più quegli elementi un po’ stereotipati – le immagini tipiche, i luoghi comuni – cercando di rovesciarli. Mi dà una grande soddisfazione farlo.

B: La metafora inaspettata di cui sei più soddisfatto?

D.N.: Forse quella famosa barra di Diecimila Lire: “Per te provo quello che una calamita prova per un frigo/ Te che sei fredda, ma piena di cibo/ Per l’anima”. Rispecchiava perfettamente quello che provavo in quel momento: ero in una relazione impossibile, da cui però non riuscivo a uscire.

B: Esiste davvero la donna-frigo di cui sopra, tra l’altro, o è un’invenzione letteraria?

D.N.: Certo, e sa anche molto bene di essere la donna-frigo della canzone! (ride)

S.e.S.: La mia preferita, invece, tecnicamente non è una metafora. Volpi e Poggi nella tracklist è l’ultimo brano perché le parole con cui si chiude sono “La mia ambizione principale è rimasta finire un album”, riferendosi sia a un album di figurine che al disco in sé. Per me quella conclusione è davvero un capolavoro.

B: E sempre a proposito di stupire i fan, anziché fare un giro di instore come tutti i vostri colleghi avete organizzato un tour dal titolo Nelle Stazioni, in cui appunto vi facevate trovare in varie stazioni d’Italia e cominciavate a suonare, voce e chitarra. Come diavolo vi è venuta un’idea del genere?

D.N.: Io e Luca avevamo sempre cullato il sogno di fare busking, con un cappello per terra e una chitarra a fare cover in giro per l’Europa. Non ci siamo mai riusciti, così quando si è presentata quest’occasione abbiamo unito l’utile al dilettevole: avevamo il disco fuori e l’esigenza di portarlo in giro, c’è una canzone dell’album che si chiama proprio Nelle stazioni e quindi ci è sembrato naturale. Non ci aspettavamo così tanto successo, tra l’altro.

B: Cosa vi aspettavate, invece?

D.N.: Pensavamo a una manciata di persone che ci conosceva e poi un po’ di gente che, vedendo gli altri fermi ad ascoltarci, si fermava a sua volta. Invece quelli che erano lì apposta per noi erano tantissimi.

S.e.S: Alla data di Padova (dove comunque ci aspettavamo di sicuro un po’ più di casino, essendo la nostra città) abbiamo evitato di metterci proprio davanti alla stazione, per una questione di ordinanze comunali: abbiamo scelto una piazzetta lì di fianco dove ogni tanto fanno eventi musicali all’aperto, una zona che non è proprio di passaggio. Quando siamo arrivati in piazza l’abbiamo trovata strapiena, c’erano trecento persone, e dentro di noi abbiamo cominciato ad imprecare: “Merda, qualcun altro aveva organizzato qualcosa proprio oggi e noi non lo sapevamo!”. E invece ci siamo accorti che tutti ci fissavano. Erano lì per noi.

D.N.: Una situazione un po’ surreale: “Ehi, ma noi e voi siamo qui per lo stesso motivo?”. (ride)

S.e.S.: Io mi stavo mettendo a piangere di gioia! In generale la risposta è stata molto migliore delle nostre più rosee aspettative: pensavamo che nelle date più affollate ci sarebbero state massimo 50 persone, e invece alla fine nelle date meno affollate c’erano minimo 50 persone.

D.N.: Insomma, visto il successo abbiamo deciso di continuare il tour Nelle Stazioni anche nelle regioni del sud, in compagnia di Alessandro Burbank, uno slam poet nostro amico.

B: Tornando alla produzione del disco, che ruolo hanno giocato le due realtà che lo co-pubblicano, Giada Mesi e Undamento?

D.N.: Abbiamo lavorato all’album in totale autonomia creativa, e ci siamo seduti a tavolino con loro solo quando avevamo già il prodotto finito in mano. Sicuramente, però, Dargen ha influenzato moltissimo la direzione artistica dei vari brani. L’ho portato con me in studio quando ho registrato le linee vocali, perché lo considero un maestro e volevo i suoi consigli: per me è imbattibile per l’interpretazione che riesce a dare alle cose che scrive, e volevo carpire un po’ dei suoi segreti. Dopodiché, sempre da soli, siamo andati da Marco Zangirolami per finalizzare il tutto.

B: Come mai proprio da Zangirolami?

D.N.: Perché oltre ad avere delle competenze pazzesche come sound engineer, ha una personalità molto aperta. Il rischio per chi fa quel lavoro è di imporsi troppo, di dire all’artista “Fidati: facciamo così perché si fa così”. Sick et Simpliciter sa esattamente cosa vuole, e Zangirolami gli dà esattamente quello che vuole: una combinazione rara e impagabile.

B: Nel futuro vi vedete sempre indipendenti e autonomi o vi piacerebbe provare a passare dall’altra parte della barricata?

S.e.S.: Secondo me resteremo sempre indipendenti e autonomi. Il punto, comunque, è la direzione artistica: se una realtà più grande credesse in noi e avesse voglia di investire su di noi così come siamo, è un conto. Se invece volesse investire in noi a patto che cambiamo qualcosa del nostro modo di essere e di fare musica, ecco, anche no.

D.N.: In questi anni ho capito che lavorare con un piccolo team che ci si è costruiti da soli, e in cui hai totale fiducia, non ha prezzo. Non sceglierei in base alla struttura, ma alle persone: se vedo che qualcuno crede così tanto nel mio progetto da mandarmi una mail alle 23.50 di sabato, anche se non gli ho mai chiesto di farlo e non glielo chiederei mai, faccio di tutto per tenermelo stretto. Se vedo che qualcuno non mi risponde per due settimane, probabilmente quel qualcuno non fa per me.

B: Cambiando argomento, in questo periodo c’è un’ondata di rapper che cercano di cantautorizzarsi e di cantautori che cercano di rappizzarsi, per così dire: parlo ovviamente dei vari Calcutta, I Cani, Carl Brave x Franco126…

D.N.: Questi ultimi forse non li metterei nel cantautorato, perché comunque vengono dall’hip hop, anche se non suonano più in quel modo lì. Dal punto di vista tecnico secondo me fanno rap con le note, a differenza di quello che fa Calcutta, che per come stende gli accenti e la ritmica è del tutto cantautorale.

S.e.S.: La cosa interessante di Carl Brave x Franco126, che pensavo tutti avessero notato ma invece forse no, è che la roba che fanno loro è trap, ma suonata con strumenti veri. Anche l’uso che fanno dell’autotune è particolare…

D.N.: Su questo io e Sick abbiamo discusso a lungo: a me non piaceva molto il fatto che lo usassero, anche se la loro musica invece mi piace tantissimo, mentre lui invece trova il loro uso dell’autotune molto azzeccato.

S.e.S.: L’autotune è uno strumento, tutto dipende da come lo usi. Puoi farne utilizzi molto diversi: ad esempio non mi piace molto come lo usa Laioung, mentre invece adoro come lo usano Carl Brave x Franco126.

B: Tornando alla domanda, quindi: cosa pensate di questa serie di scambi tra i due generi?

D.N.: Io seguo questa ondata con grande interesse: dopo anni in cui si dava importanza solo all’elemento testuale del rap, la gente ha finalmente cominciato a rendersi conto che quando rappi, di fatto, emetti delle note. E questo ti aiuta a dare una dignità musicale a ciò che fai. Secondo me, però, è importante dare uguale peso alla musica e alla parola: e non mi piace quella deriva che ha preso il rap da Versace Versace in poi, che cerca di svalutare in tutti i modi la parola. È paradossale: hai preso un genere in cui la cosa più importante è quello che dici, e hai tolto importanza a quello che dici. Cosa rimane, a quel punto?

B: A proposito di musica e parola: sono di nuovo aperte le iscrizioni a Genova x Voi (tutte le info qui, il termine ultimo per iscriversi è il 31 maggio, ndr), il talent per autori di canzoni a cui tu, Dutch, hai partecipato. Cosa puoi dirci di quest’esperienza?

D.N.: Per quanto mi riguarda è stata bellissima. L’anno in cui ho partecipato io i rapper erano presenti solo per gli ultimi giorni di laboratori, e non per una settimana intera, come invece è successo l’anno scorso: mi sarebbe molto piaciuto poter vivere l’esperienza completa. Però mi ha lasciato un ricordo splendido e il legame che si è creato tra noi partecipanti sopravvive ancora. L’amicizia con Willie Peyote ne è uscita rinsaldata, è nato un bellissimo rapporto musicale e umano con Sfera e Serenase e anche con Barile, Bucha e Martina May, che abitano in Sicilia e a Roma e che quindi non vediamo molto spesso, è come se fossimo sempre vicini. Io, Willie, Serena e Sfera ormai siamo una specie di crew de facto: abbiamo girato insieme il video di Amore Povero e collaboriamo spessissimo nei nostri rispettivi progetti.

B: Cosa vi aspettate ancora per questo 2017?

D.N.: Continueremo le date dal vivo, soprattutto (momento autopromozione: le trovate tutte sulla mia pagina Facebook). Il nostro è un live un po’ particolare: una parte della strumentale è preprodotta, il resto è costruito man mano con una chitarra, un basso e una pedaliera a mo’ di loop station.

B: Insomma, mi state dicendo che voi due, che eravate rimasti le ultime persone serie della scena rap italiana e che potete vantare una laurea in giurisprudenza a testa, avete deciso davvero di mollare tutto per fare musica?

D.N.: Esatto! (ride)

S.e.S.: In realtà io probabilmente mi iscriverò alla pratica da avvocato, ma anche perché mi piacerebbe unire entrambe le mie passioni e occuparmi di diritto d’autore. Però sì, la musica resta la mia principale aspirazione.