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Ale Zin: l’intervista (e la competition!)

28-04-2016 Marta Blumi Tripodi

Ale Zin: l’intervista (e la competition!)

Spoiler: questa non è una semplice intervista, perciò non saltate l’introduzione a piè pari, perché leggendola fino in fondo c’è la possibilità di vincere una copia di Panama 11, il nuovo album di Ale Zin. Ci sono molte ottime ragioni per ascoltarlo (e partecipare alla competition). Primo: è il debutto ufficiale solista di Ale Zin, che pur avendo fatto la storia del rap partenopeo con formazioni come 13 Bastardi e Sangue Mostro, non si era mai cimentato in un disco da solo. Secondo: è un ottimo disco, con tutte le carte in regola per diventare un lavoro che sopravvive alla prova del tempo, a differenza degli album a cui siamo abituati oggi che si esauriscono nel giro di pochi ascolti. Terzo: tra tutti i concept album usciti finora in Italia, non era ancora successo che qualcuno incentrasse un disco sul proprio vero lavoro, oltretutto così particolare (Panama 11, infatti, è il nome del taxi che Ale Zin guida ogni giorno per mestiere). Per vincerlo basta commentare l’apposito post che trovate sulla pagina Facebook di Hotmc: tra tutti coloro che lo faranno entro e non oltre venerdì 6 maggio a mezzogiorno estrarremo a sorte due fortunati che se ne aggiudicheranno una copia. Come sempre ricordiamo che le competition di Hotmc sono riservate ai follower dei nostri social, perciò assicuratevi di aver cliccato “mi piace” sulla nostra pagina Facebook ufficiale prima di commentare. Detto questo, ecco cosa ci ha raccontato il diretto interessato del suo Panama 11.

Blumi: È corretto dire che l’album sia dedicato al tuo taxi, quindi?

Ale Zin: Diciamo che Panama 11 è il veicolo che porta in giro le storie che racconto in rima, a volte riportate e a volte solo immaginate. Insomma, il mio taxi è un mezzo, non il fine.

B: L’ispirazione, però, ti viene dal tuo lavoro: un tassista in una grande città è abituato a vederne di tutti i colori…

A.Z.: Assolutamente sì, quell’abitacolo è un mondo, e a volte certe cose sono talmente assurde che non si possono neppure raccontare! (ride)

B: Ce ne puoi citare almeno una, di quelle che si possono raccontare?

A.Z.: Lo dico anche in Panama 11. Una signora mi ha chiesto di pedinare il marito per controllare cosa facesse durante le sue ore di lavoro: una volta arrivati sul posto, però, ci siamo resi conto che il marito si travestiva per fare il mestiere più antico del mondo… Una situazione assurda, all’inizio pensavo fosse uno scherzo ma quando l’ho guardata in faccia e ho visto che stava per rimanerci secca ho capito che era tutto vero.

B: “Segua quella macchina” quindi non è solo una battuta hollywoodiana molto scontata?

A.Z.: No, assolutamente, capita spesso. Anzi, nel mio mestiere ci sono circostanze che sfiorano il pulp! (ride)

B: Tanti altri rapper preferiscono non esporsi direttamente, lasciando un alone di mistero sul loro “vero” lavoro, quello che permette di portare a casa la pagnotta: tu invece non solo lo dichiari fieramente, ma lo metti anche al centro del tuo album. Perché?

A.Z.: C’è questo mito del rapper italiano che per essere davvero valido deve saper campare della propria arte. Se non ci sono mamma e papà alle spalle, però, bisogna pur sbarcare il lunario per arrivare a fine mese, e dubito che tutti quelli che fanno rap riescano a campare solo di musica. Sicuramente alcuni ce la fanno, ma la maggior parte di noi deve alzarsi la mattina e andare a lavorare: non vedo perché nasconderlo.

B: Panama 11, tra l’altro, è il tuo primo album ufficiale da solista dopo le esperienze con realtà storiche come i 13 Bastardi o i Sangue Mostro. Perché hai voluto aspettare di essere un veterano, prima di produrre qualcosa di unicamente tuo?

A.Z.: Forse perché prima non ne sentivo il bisogno. Lavorare in gruppo, girare con i miei amici per suonare, è una cosa che mi è sempre piaciuta molto, e non sapevo se fare la stessa cosa da solo mi avrebbe divertito altrettanto. Io faccio musica per motivi puramente personali: innanzitutto perché scrivere mi permette di fissare concetti che non riuscirei ad esprimere in altro modo, e poi perché suonare e registrare in compagnia mi dà grandi soddisfazioni. La spinta a realizzare un album solista l’ho avvertita solo di recente.

B: A conti fatti, quindi, ti sei trovato bene anche da solo?

A.Z.: Sì, anche perché da solo ho scoperto libertà che nel gruppo non avevo. Ad esempio quella di fare nomi ed esprimere concetti scomodi senza dover tirare in mezzo i miei colleghi, che magari non condividono la voglia di esprimere quel pensiero. Il mio si può definire un taxi senza freni! (ride)

B: A un primo ascolto non mi è sembrato, ma a questo punto tocca chiedertelo: hai dissato concretamente qualcuno, quindi?

A.Z.: Sì, prova ad ascoltare una traccia come Over Low e capirai a cosa mi riferisco. (Per amor di precisione: nel pezzo di cui sopra non si fanno nomi, ma per chi segue la scena di Napoli è abbastanza facile capire di chi si parla, ndr)

B: In quest’album c’è un grande equilibrio tra l’uso del dialetto e quello dell’italiano: passi con disinvoltura dall’uno all’altro, una cosa che non riesce facile a molti tuoi colleghi e conterranei…

A.Z.: Se riesci ad abbinare la musicalità dell’una e la scorrevolezza dell’altra riesci a creare qualcosa di davvero riuscito, a livello di sound. Il napoletano è perfetto per il rap per via dei suoi accenti e delle parole tronche, mentre l’italiano è una delle lingue più belle per esprimere un concetto, proprio per la sua ricchezza di sfumature.

B: Uno dei brani che restano più in testa, probabilmente, è Tribù urbana, e lo fa fin dal titolo: è un’espressione che veniva usata spesso dai giornalisti generalisti per spiegare in cosa consiste l’hip hop, fa strano sentirla usare da te. Come mai?

A.Z.: Era utilizzata in un altro senso: noi che siamo lontani dall’hip hop mainstream e siamo ancora legati ai valori più puri e originali dell’hip hop siamo davvero una tribù. Ci discostiamo dall’idea che l’hip hop, per arrivare a più persone possibile, debba rinunciare a certi canoni e aderire ad altri. Non credo che siamo dei puristi – perché per me essere troppo puristi è altrettanto sbagliato – ma siamo persone che non accettano compromessi per emergere.

B: Mi dai una tua definizione di compromesso?

A.Z.: Snaturare se stessi, sia nei contenuti che nei suoni: non parlo solo di massimi sistemi, ma di viaggiare a un certo numero di bpm, usare certi strumenti piuttosto che altri nei beat, non dire parolacce, parlare per forza di temi che possono essere ripresi in un notiziario… Per me quello è vendersi al 100%.

B: Ecco, a proposito: il primo estratto da quest’album è Sono come suono, una specie di dichiarazione d’intenti. Qual è il tuo sound?

A.Z.: Esatto, era una specie di biglietto da visita. Sono molto soddisfatto del suono di questo disco, perché sono riuscito ad andare a cavallo tra quello più classico e quello più contemporaneo. La maggior parte delle produzioni sono state curate da Breakstarr, che attualmente vive a Londra e assorbe tutto ciò che lo circonda, contaminando le sue radici con l’attualità: un’ottima combinazione.

B: Ora che hai provato l’ebbrezza di un progetto tutto tuo, come ti vedi in futuro? Solista o parte di un gruppo?

A.Z.: Nessuno dei due, per ora. Sono una persona che vive in freestyle, per così dire: mi regolerò a seconda di quello che succederà e di come mi sentirò al momento. Se devo dirtela tutta sto già pensando al prossimo album, ma se nel frattempo dovessero esserci i presupposti per cacciare fuori un altro lavoro targato Sangue Mostro, ben venga!