E’ la prima notte dell’anno nuovo, l’ora è tarda e sono qui a fissare il foglio bianco da un bel po’. Mi chiedo come troverò le parole giuste per esprimere questo enorme dolore collettivo per la perdita di Primo Brown, il dolore di chi (come me) in realtà di persona lo ha conosciuto poco, ma che si sente come se avesse dovuto dire addio a un amico fraterno. La cosa che più resta impressa, di questo lutto tremendo che ha colpito la scena hip hop italiana, è l’incredibile affetto e rispetto che lo ha circondato fino all’ultimo. Da quando suo padre Mauro ha annunciato via Facebook che si era aggravato, schiere di amici veri e semplici ascoltatori hanno occupato per giorni la sua bacheca con messaggi di incoraggiamento incessanti, rivolti a lui e alla sua famiglia. Ognuno aveva un ricordo personale da condividere, per piccolo che fosse, perché ogni santa volta che ha percorso l’Italia in lungo e in largo, nonostante la stanchezza e la pressione che comporta l’essere sempre su un palco e al centro dell’attenzione, non ha mai negato un sorriso, un autografo e due chiacchiere a nessuno. Anche adesso, nonostante sia la notte di capodanno, nell’istante stesso in cui si è diffusa la notizia della sua scomparsa i social di tutti noi sono stati sommersi dai messaggi di cordoglio, più che dagli auguri di buon 2016. Artisticamente metteva d’accordo tutti (i fan del rap sono per forza anche fan di Primo, non esiste altra possibilità); umanamente, anche.
Primo Brown era una persona sincera, diretta, umile, solare. Non ha mai avuto paura di mostrare il suo vero volto ai suoi fan, senza trincerarsi dietro superiorità morali e artistiche (chi c’era ai tempi di Hip Hop Hotboards, il leggendario forum di Hotmc che è stato la piazza virtuale della scena hip hop per buona parte degli anni ’90 e ’00, ricorderà che era uno dei pochissimi rapper a mescolarsi con gli utenti comuni senza menarsela o fare il divo). Non ha neanche mai avuto paura di mandare a fanculo chi di dovere, anche quando non gli conveniva. Era felice e in pace con se stesso, non era roso dal tarlo del successo mainstream a tutti i costi: sapeva di spaccare, e tanto gli bastava per andare avanti a travolgere la concorrenza con quell’incredibile fotta che lo ha sempre contraddistinto. A vederlo da fuori sembrava generoso, trasparente, perfino troppo aperto: ricordo che quando lo incontrai per intervistarlo, pochi mesi prima che si ammalasse, più volte fui sul punto di chiedergli se era proprio sicuro di voler raccontare cose così personali o controverse a me, che in fondo ero una semisconosciuta arrivata lì per raccogliere le sue parole, trascriverle a modo proprio e pubblicarle perché migliaia di perfetti sconosciuti le leggessero. Nell’ultimo anno e mezzo, comunque, aveva preferito tirarsi in disparte e lasciare che fosse la sua musica a parlare per sé, perché aveva cose più importanti di cui occuparsi: “Devo affrontare un viaggio difficile che non so dove porta, e come ritorna indietro, devo solo farlo” aveva spiegato via social in uno dei suoi ultimi messaggi pubblici. “Posso solo dirvi che nessuno vi impedirà di ascoltare El Micro de Oro, o qualunque cosa vi piaccia, e di seguire i miei Fratelli di sempre nel massimo della loro espressione creativa”. L’impressione è che, da tigre qual era, abbia lottato fino all’ultimo istante per uscirne vincitore e riprendere in mano il microfono, tanto che pochi mesi fa era uscito il singolo Alberto Tomba; chi lo conosce bene racconta che anche nell’ultimo periodo, nonostante l’aggravarsi della malattia, stava pensando a nuovi pezzi. Il minimo che possiamo fare per onorare la sua memoria è ereditare anche solo un briciolo della sua voglia di vivere e spaccare e farla nostra. Alzando il volume al cielo ogni volta che suoneremo una sua canzone.
Questa armatura non protegge più niente
non mi consola, non mi difende
la via d’uscita è solo un passo più in là
solo un po’ più in là.