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Tinie Tempah: l’intervista

01-10-2015 Marta Blumi Tripodi

Tinie Tempah: l’intervista

Se seguite la scena rap inglese, Tinie Tempah non ha certo bisogno di presentazioni. Se invece non conoscete troppo la materia, vale la pena approfondire, perché oltre ad essere stato più volte ai vertici della classifica UK (il che di per sé non vuol dire molto) è anche rispettatissimo nell’underground grazie a un sound fresco e innovativo capace di non tradire le radici del rap britannico, che pesca a piene mani da dance, elettronica e influenze afro-caraibiche. Se tutto ciò non bastasse, ad appena 27 anni è già un imprenditore di grande successo: nonostante una famiglia molto modesta che non è mai riuscita a supportarlo economicamente ha fondato l’etichetta Disturbing London, ha pubblicato un libro, ha un suo blog e una sua linea di moda. Ed è proprio nel settore del fashion che eccelle: GQ l’ha eletto Best Dressed Man of the Year, la camera della moda di Londra lo ha scelto come testimonial delle sfilate maschili della città ed è finito su tutte le principali copertine delle riviste di settore. Di passaggio in Italia per presenziare al compleanno di Hip Hop Tv, ne abbiamo approfittato per scambiare quattro chiacchiere con lui. Purtroppo non sul suo prossimo album, che uscirà nel 2016 ed è ancora avvolto dal mistero (l’unico singolo finora estratto è No letting go, con il featuring della pop star Jess Glyne), ma su tutto il resto, che è ugualmente molto interessante.

Blumi: Che il rap inglese e il rap americano siano molto diversi è un dato di fatto, ma secondo te in cosa consiste questa differenza?

Tinie Tempah: Bella domanda! Il fattore principale sta nell’accento, credo, perché il modo in cui pronunciamo le parole le fa suonare completamente diverse. Poi, ovviamente, ci sono le produzioni: quelle americane di solito sono molto più lente di quelle inglesi. Per farti capire, la house e l’EDM si aggirano sui 120 BPM, il rap inglese sui 140, e quello americano addirittura viaggia attorno ai 90! A parte questo non credo ci siano molte altre differenze, perché il rap ha sempre lo stesso tipo di background, anche in nazioni diverse: è fatto da gente che vuole emergere dal proprio ambiente di provenienza, farsi notare, arrivare da qualche parte.

B: A proposito, senz’altro anche l’ambiente di provenienza influenza il modo di fare rap. Tu stesso hai dichiarato che Londra è stata un’enorme fonte di ispirazione per te…

T.T.: Credo sia una delle città più potenti e visionarie del mondo, anche perché non c’è una divisione netta tra quartieri ricchi e quartieri poveri. Anche crescendo in una famiglia con mezzi modesti, come la mia (i miei genitori sono immigrati dalla Nigeria e noi figli siamo nati e cresciuti in una casa popolare a Londra), potevo guardare dall’altra parte della strada e vedere dei palazzi bellissimi e lussuosi abitati da gente senza nessuna preoccupazione al mondo, con macchine veloci e vestiti stupendi. È l’unica città in cui i vari strati della società sono così mescolati. La tua mente è esposta a molti stimoli diversi… Anche in termini di musica: ci sono talmente tanti generi, per non parlare delle diverse influenze geografiche – italiane, inglesi, polacche, nigeriane, ghanesi, indiane, pachistane, romene, turche, giamaicane – che alla fine tutto si fonde e si crea qualcosa di completamente nuovo. Se fossi stato un ragazzino nero in qualunque altra città del mondo, probabilmente avrei frequentato dei club che suonavano solo musica che già mi piaceva: non sarei mai entrato in contatto con l’EDM, la trap o la drum’n’bass. A Londra, invece, se vai in un club hip hop è normale che suonino anche altri generi.

B: A proposito di musica inglese, è vero che hai scelto il tuo aka dopo aver ascoltato una canzone della So Solid Crew? (una delle prime crew a mescolare l’hip hop con l’UK Garage, ha avuto un massiccio successo commerciale a fine anni ’90 ma è anche molto criticata: in Inghilterra la considerano un po’ come noi consideriamo la nostra Spaghetti Funk, ndr)

T.T.: In realtà è un po’ una leggenda metropolitana. È vero che quando per la prima volta ho sentito la So Solid Crew – avevo appena tredici anni – ho capito che avrei voluto fare il rapper, ma il mio nome l’ho scelto in tutt’altro modo. Ovvero consultando il dizionario e scegliendo due parole, temper (che vuol dire caratteraccio) e tiny (letteralmente “piccolino”), che poi ho storpiato un po’.

B: Oltre a rappare fai molte altre cose, con ottimi risultati su tutti i fronti. Qual è il tuo segreto per riuscire a fare tutto così bene?

T.T.: Sono una persona molto competitiva: se mi metti di fronte una sfida, la accetto senz’altro, soprattutto se si tratta di una sfida creativa. Il segreto per fare tutto bene, comunque, è avere un ottimo team, ma anche essere ambiziosi e non avere paura. Anzi, a volte bisogna essere un po’ incoscienti, perché quando ti fai bloccare dal timore prima ancora di cominciare, non riesci a concludere nulla. Inoltre cerco di usare al meglio il mio tempo: a volte mi capita di avere riunioni, concerti e trasferte tutti concentrati nello stesso giorno, ma provo in ogni modo a usare la maggior parte delle 24 ore disponibili per poter fare tutto. Soprattutto ora che sono giovane, devo sfruttare tutte le energie che ho.

B: A proposito, fin dall’inizio tu avevi tutte le carte in regola per lavorare con una major: perché aprire una tua etichetta indipendente?

T.T.: In realtà all’inizio nessuno voleva farci un contratto, così nel 2006 mio cugino ed io, che arrivavamo dalla strada e non sapevamo nulla di music business, abbiamo deciso di provarci da soli. Alla fine è andata molto bene, e nel 2009 finalmente erano i discografici a cercare noi e non viceversa.

B: In Inghilterra sei considerato un’icona di stile. E ovviamente la gente ti paragona a un altro rapper che in America ha fatto della moda il suo tratto distintivo, ovvero Kanye West. Come ti fa sentire questo e, soprattutto, cosa pensi della sua nuova discussa collezione?

T.T.: Sono molto felice di essere paragonato a Kanye, mi lusinga, per me è un grande sia dal punto di vista musicale che dal punto di vista dello stile. Riguardo alla sua ultima collezione, sono uno che va a molte sfilate, perciò l’ho osservata come spettatore: penso fosse buona, ma essendo soprattutto un fan di Kanye come rapper e produttore, cerco di prestare attenzione alle sue mosse e alle sue scelte, più che al taglio dei vestiti o ai tessuti.

B: Un’altra impresa in cui ti sei imbarcato di recente è Disturbing Ibiza, cos’è esattamente?

T.T.: È il pool party che ho organizzato ogni martedì durante tutta l’estate all’Hard Rock Hotel di Ibiza. È stato fantastico, abbiamo avuto un sacco di ospiti eccellenti, da Snoop Dogg a Kanye West. Quella del 2015 è stata una delle estati più pazzesche che io abbia mai vissuto.

B: Qual è stata la cosa più pazzesca che ti è successa? Di solito chi torna da Ibiza ha parecchio da raccontare…

T.T.: Abbiamo affittato una villa dove abbiamo ospitato un sacco di artisti, ma ero talmente impegnato con il party che non sono riuscito a passare molto tempo con loro. Quelle poche volte che siamo riusciti ad organizzare delle feste private lì, però, è stato davvero bellissimo.

B: Ultimo ma non ultimo: in Italia il rap è sbarcato all’interno della musica mainstream solo negli ultimi anni. Che consiglio daresti ai rapper italiani, visto che tu hai già fatto tutta la trafila da musicista underground a eroe nazionale?

T.T.: Negli anni ho imparato che il rap significa qualcosa di diverso per ognuna delle persone che lo ascoltano e che lo fanno. Il primo consiglio per i rapper italiani è di rimanere veri e di continuare a fare quello che li rende felici, senza tradire il proprio stile. Passando a questioni più pratiche, Internet al momento è fondamentale per ottenere attenzione: sfruttate al meglio Instagram, Twitter, Facebook e YouTube, perché se sapete usare queste cose e la vostra musica è buona, potete arrivare dappertutto. Inoltre, se volete essere competitivi sul piano internazionale, cercate di collaborare anche con artisti che rappano in inglese, perché è sempre utile avere canzoni che il mondo riesce a capire – ma ovviamente se volete fare rap solo per il mercato italiano perdonatemi e dimenticatevi il suggerimento precedente! Ultimissima cosa: il rap funziona bene soprattutto nei paesi in cui la scena è unita e collabora per ottenere degli obbiettivi. I musicisti hip hop tendono ad essere dei nerd, ciascuno fa musica separatamente e chiuso in camera sua, ma non sempre la cosa è vantaggiosa. In America i rapper scrivono insieme, vanno in tour insieme, lavorano insieme… Per loro è un business. Certo, sviluppano un personaggio e una maschera da misantropi, e noi ci crediamo così tanto che quando tocca a noi cerchiamo di diventare quel personaggio e quella maschera, ma non abbiamo capito niente. Loro sono molto più furbi, nella realtà sono molto diversi da come appaiono.