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Barile + Gheesa: l’intervista

11-03-2015 Marta Blumi Tripodi

Barile + Gheesa: l’intervista

La Sicilia ultimamente ci riserva alcune tra le migliori sorprese del rap italiano. Ad esempio Barile e Gheesa, emersi grazie a un contest di Unlimited Struggle nel 2012: si sono fatti piacevolmente notare con l’album Terzo tempo, un concentrato (è proprio il caso di dirlo, sono solo dieci tracce) di rap coi controattributi e fat beats in bilico tra tradizione e contemporaneità. Li abbiamo incontrati a Milano durante una lunga chiacchierata a cuore aperto, per parlare di musica ma non solo.

Blumi: Come vi siete conosciuti e com’è arrivata la decisione di unire le forze?

Gheesa: Io sono il più grande tra i due, sia a livello di età che a livello di militanza hip hop alle spalle (io ho 32 anni, Barile 28). Ci siamo incontrati per la prima volta attorno al 2003, a una serata in cui suonavo con il mio ex gruppo, e da lì abbiamo iniziato a frequentarci spesso. Il primo pezzo insieme lo abbiamo fatto solo dopo qualche anno, ma del tutto per caso: io ho dato un beat a un altro suo amico con cui lui ogni tanto rappava. Dopodiché non abbiamo più fatto niente assieme, fino a due anni fa, quando c’è stato il remix contest di Unlimited Struggle organizzato da Johnny Marsiglia e Big Joe. Ci eravamo detti che se uno dei due avesse vinto, l’altro avrebbe fatto il disco con lui; alla fine io non ho vinto, ma Barile sì, e il resto è storia! (ride)

Bl: Il vostro ultimo album Terzo tempo è in free download, ed è già il terzo che realizzate in questo formato. Come mai?

Barile: Perché ancora non ci sentiamo ancora abbastanza conosciuti. Piuttosto che guadagnare quei 1000 euro scarsi dalla vendita, preferiamo che la nostra musica circoli il più possibile in modo da poter poi guadagnare suonando in giro.

G: Personalmente, oltretutto, il cd non mi è mai piaciuto come supporto. Si rovina troppo facilmente e penso che tra qualche anno sparirà, quindi non ne vedo il senso. Meglio non avere vie di mezzo: o vinile o semplici mp3.

Bl: Il titolo è un riferimento al terzo tempo del rugby?

Ba: Esatto. Nella scena hip hop è un periodo in cui ci si scanna per un nonnulla, il rap è diventato una potenziale fonte di guadagno e quindi tutti sono sul piede di guerra. Noi abbiamo deciso di metterci una pietra sopra con il nostro terzo tempo: nel rugby viene definito così il rito di andarsi a bere una birra tutti insieme dopo la partita, squadra che vince e squadra che perde.

G: Oltretutto siamo persone davvero poco litigiose, non solo nel rap, anche in generale. Io sarò stato coinvolto in due risse al massimo in vita mia, ed ero davvero piccolo.

Ba: Io in una sola, ma nel senso che mi hanno picchiato! (ride) Insomma, siamo dei pacifisti e ci piace la birra, non poteva esserci un titolo più azzeccato.

Bl: A proposito di approccio all’hip hop, uno dei pezzi più riusciti dell’album è Boombox, che chiude la tracklist raccontando proprio come avete scoperto e vissuto questa cultura, anche con occhio un po’ critico…

Ba: L’abbiamo messa a chiusura del disco proprio perché riassume molto bene il concetto che volevamo esprimere. La prima strofa parla di me e del mio rap, mentre la seconda di Gheesa e dei suoi beat. E nella mia strofa cerco di non fare il figo, non sto lì a dire che sono per forza il più forte, racconto di tutte le sfide di freestyle che ho perso. Non m’interessa risultare per forza un vincente.

G: Ma non direi che è una critica, piuttosto è uno storytelling.

Bl: In effetti forse la critica vera e propria alla situazione di oggi è contenuta in un’altra canzone, Yeah boy. Giusto?

Ba: Beh, sì! Parla di chi passa le sue giornate a fare a gara a chi è più figo, appunto. Cosa che non ci tange particolarmente, perché abbiamo delle spese da pagare e ci preoccupiamo di quelle! (ride) Per sottolineare ulteriormente il concetto, a dividere la traccia con noi ci sono due ragazzini ancora poco noti ai più, perché a noi onestamente non interessa come ti chiami o quanto sei famoso, ci interessano solo le tue capacità di rapper.

G: Sono Mattak e Funky Nano, due giovanissimi svizzeri (meno di vent’anni, per intenderci) che abbiamo ascoltato per caso online. Ci è piaciuto molto quello che facevano e li abbiamo contattati; loro erano davvero felici di essere nel disco, e noi di averli. Per noi l’importante non è il nome, sono i fatti, e questa è l’unica vera critica che vogliamo esprimere nel disco: l’essenziale è spaccare. Siamo stanchi di vedere rapper o beatmaker che partono dalla costruzione del personaggio e arrivano a preoccuparsi della musica solo in un secondo momento.

Bl: Cambiando argomento, la scena siciliana sta vivendo un periodo d’oro: l’essere isolati e lontano da tutto ha in qualche modo giovato alla vostra creatività?

Ba: Senz’altro ci ha fatto incazzare e ora siamo carichi! (ride) Ne parlavamo l’altro giorno con Kiave: secondo noi se uno come Johnny Marsiglia fosse cresciuto a Milano anziché a Palermo non avrebbe avuto quella grinta. Sarebbe emerso comunque, ma probabilmente se lo sarebbero mangiato fino all’osso nel giro di un anno e poi l’avrebbero buttato in un cassonetto e dimenticato lì; ne vedi tanti che fanno quella fine.

G: Forse è anche una questione di immagine: se vivi in Sicilia tendenzialmente sei lontano da tutto, il resto della scena non ti conosce e le riviste e i blog non si disturbano ad arrivare fin lì per intervistarti. Gli scarsi e quelli poco motivati a poco a poco si sono ritirati perché hanno capito che il gioco non valeva la candela, la verità è questa. In Italia ci sono state fasi, ad esempio a fine anni ’90, in cui sembrava che il rap fosse finito come genere, mentre invece in Sicilia viviamo così da sempre.

Ba: Tieni conto che a Trapani, quando abbiamo iniziato noi, a fare rap eravamo in 10 in tutta la città: oggi siamo in 12. Non c’è mai stato un boom vero e proprio: se sei scarso in Sicilia, non vale neanche la pena iniziare! (ridono tutti, ndr)

G: Esatto, non ci sono le condizioni perché questa situazione cambi. Io sono il buono del gruppo, cerco sempre di trovare qualcosa di positivo nella musica degli altri, però se sei scarso e non t’impegni per migliorarti c’è davvero poco da fare, è un bene che tu smetta. Anche se questo vuol dire che resteremo sempre una decina in tutta la città a fare rap.

Bl: Non c’è possibilità che tu mi dica chi sono questi famigerati scarsi in cui riesci a vedere qualcosa di buono, vero?

G: No! (ride)

Ba: Però se vuoi ti diciamo chi ci piace in Sicilia: Stokka e MadBuddy, Johnny e JoJo, Soulcé e Teddy Nuvolari, Louis Dee che finalmente quest’anno è pronto a tornare… Poi, per non nominare sempre i soliti, a Catania c’è Il Dottore, che non ha mai pubblicato un album ma in freestyle è un genio, e Wild Ciraz che fa cose un po’ più crossover.

G: E ci sono un sacco di beatmaker che secondo me sono tra i più forti in Italia: la media è davvero alta. Ad esempio Dusty, due ragazzi di vent’anni di Enna che fanno cose pazzesche, oppure Nebbia di Palermo, anche lui giovanissimo.

Ba: Per essere siciliani stiamo facendo davvero troppi nomi! (ride)

Bl: Al momento, però, sembra che l’unico modo per fare musica a livello professionale in Italia sia trasferirsi al nord e in particolare a Milano: avete intenzione di farlo anche voi, prima o poi?

G: Ci stavamo pensando, sì. Non ci trasferiremo necessariamente a Milano, ma comunque non pensiamo di restare per sempre a Trapani.

Ba: Non perché la nostra città non ci piaccia, ma perché fare musica per lavoro ci piacerebbe tanto. Gheesa il primo beat l’ha fatto nel ’96: la speranza è che tutto questo sbattimento porti a qualcosa, dopo tanti anni…

Bl: A proposito dei beat, hanno un gusto molto particolare, senza tempo. È una scelta dettata dalle esigenze dell’album o in generale il tuo stile è questo?

G: Di solito i miei beat suonano sempre così, cerco di essere il più eclettico possibile. Più che merito mio, però, è merito della musica che ascolto; negli ultimi due mesi ad esempio ero in fissa sui Beastie Boys e i Brand Nubian dei primi anni ’90, ma anche su produttori super contemporanei come Chrome Sparks, gente che non usa necessariamente le classiche 808 o gli hi-hat fatti in un certo modo. Provo a fare un crossover tra ieri e oggi, insomma.

Bl: E a livello di tecnica?

G: Campiono e risuono. Di base sono un superfan di J Dilla dal giorno uno, ma anche di Embee dei Looptroop, uno che ha sempre usato campioni tagliati in porzioni minuscole. Fin da ragazzino, non appena ho cominciato a capire come funzionava il beat slicing, ho seguito quella strada e ho iniziato a suonare le parti. Il fatto che un campione potesse essere ridotto fino ad essere usato come una singola nota mi affascinava tantissimo.

Bl: Curiosità: perché avete inserito anche dei bridge in inglese?

G: Diciamo che è colpa mia: nella vita ho cazzeggiato un po’ in giro e siccome lo parlo correntemente, ci abbiamo provato. Abbiamo notato che quando rappo in inglese cambio del tutto espressione vocale, non userei mai quella voce normalmente…

Ba: Io stesso sono rimasto stupito: è davvero credibile in quel ruolo. Penso che se decidi di fare delle rime in inglese, o la pronuncia è quasi perfetta o non ha senso farlo. La sua, per fortuna, è ottima.

Bl: Il disco contiene solo dieci tracce, come mai?

Ba: Abbiamo deciso di puntare solo su quelle dieci per non annacquare troppo il risultato.

G: Da quando non si è più legati alla capienza del supporto fisico, ciascuno può fare i dischi della durata che preferisce: il nostro criterio è stato di inserire nell’album solo le tracce che ci convincevano davvero. Abbiamo puntato all’essenziale, senza voler aggiungere a tutti i costi.

Bl: Penultima domanda: ci parlate di Cous Cous Clap?

Ba: È il nostro collettivo, di cui facciamo parte noi due e i videomaker Federico Mauro e Marco Fato. Ormai il videomaking è la quinta disciplina dell’hip hop! (ride) Hanno curato anche il prossimo video di Kiave, che uscirà a breve.

Bl: Ed eccoci all’ultima, che come sempre è: progetti futuri?

Ba: Fare un sacco di soldi e comprare tre yacht, anzi, quattro, così uno lo lascio alla mamma. E ovviamente continuare a fare quello che stiamo facendo. Lo facevamo quando non ci cagava nessuno, a maggior ragione continueremo adesso che ogni tanto qualcuno ci fa i complimenti.

G: Prima di fare Terzo Tempo noi due eravamo amici, ma non ci conoscevamo bene quanto oggi: dopo tutto il tempo che abbiamo trascorso insieme posso dire di trovarmi davvero bene con lui, quindi senz’altro faremo altri progetti insieme.

Bl: C’è qualcosa che non vi ho chiesto e che ci tenevate a dire?

G: Chiedigli qual è il suo gruppo preferito!

Bl: Barile, qual è il tuo gruppo preferito?

Ba: Non ci crederai, ma sono i Pearl Jam. Il 90% dei rapper dicono sempre le stesse cose, mentre io sono un sentimentalone, voglio strofe poetiche, preferisco il rock’n’roll. Oltretutto suono anche la batteria…