Ricordo che una volta, nelle indimenticate Hip Hop Hot Boards, qualche saggio scrisse: “Fai un passo verso Dargen e lui ne farà due verso di te”. Non ho mai trovato qualcosa di più calzante per descrivere il rapporto che un ascoltatore può instaurare con un artista come Dargen. Mi sembra fossimo nel pieno dell’entusiasmo dopo l’uscita di Musica Senza Musicisti, un album caotico, sperimentale, intimo, capace di travolgerti con dei picchi di poesia inaspettati. Arrivati al sesto lavoro solista e passati nove anni alcune cose sono cambiate, ma il percorso di Dargen sembra oggi più che mai coerente. D’iO appare come il compimento di un processo di maturazione iniziato con MSM, in cui a ben guardare già si trovavano tutte le tematiche e le melodie di D’iO in forma embrionale, sparse tra le tracce come pezzi di un puzzle.
In tutto il cammino, le cifre stilistiche principali sono rimaste inviariate: la visione del mondo dolceamara raccontata a volte in modo poetico a volte in modo scanzonato, l’ironia pervasiva, l’introspezione, la ricerca nell’uso della parola. Il cambiamento questa volta lo si nota più nella musica. Abbandonata la cassa dritta (vivaddio) che caratterizzava buona parte degli ultimi lavori – presente solo in versione compassata ne “La lobby dei semafori”-, vince la melodia. Anche là dove le sonorità sconfinano più apertamente nel pop, come nel caso dei due singoli, lo fanno sempre in modo consapevole e mai banale. In D’iO la musica quasi si perde, passa in secondo piano pur essendo protagonista, come una città in un film ben riuscito. Emerge invece la parola, più che mai musicale – basti pensare a quel capolavoro che è “Modigliani” -, ma anche amara e commossa, come in quei momenti in cui le maglie della metrica si allargano per far emergere un Dargen nuovo, incisivo, maturo. Ad esempio in Crassi: “[…]Si nasce per morire fino a qui niente di nuovo, sugli occhi un velo nero lo so che sono un uomo, ma a tratti provo rabbia per tutto quello che sono, dedicatemi una via vi chiedo perdono. Sì, sono decisamente stato buono e mi avete rubato l’infanzia ma ve l’abbuono, già in pancia, l’ottavo come prima del nono, quattro chili abbondanti di abbandono”. O in “L’Universo Non Muore Mai”: “Gli altri pianeti cercano di leggere dentro di me, per sapere se si può sopravvivere con questi sensi di colpa di merda.” Per una volta Dargen va dritto al punto, ha le idee chiare e sa dove vuole portarci: più a fondo possibile dentro di sé.
D’iO è un album che cerca di coniugare personale e universale, questo lo abbiamo capito. L’inquadratura passa spesso dalle profondità interiori a quelle del cosmo, dai fantasmi personali alle stelle, andando a creare un movimento vertiginoso e all’apparenza sconnesso. Il trucco si svela quando ci rendiamo conto che abbiamo di fronte due facce di una stessa medaglia: Io e Dio confinano, e il punto d’incontro è Jacopo D’amico, che per essere pienamente se stesso ha deciso di essere un artista, o meglio, che per essere un artista autentico ha deciso di mostrarci chi è veramente. Aprendosi artisticamente al mondo come individuo, Dargen compie una metamorfosi: scompare e ci indica quello che di universale c’è in lui.
Raccontare D’iO è un po’ come cercare di spiegare un aforisma: il senso logico si scioglie e si viene trascinati in un vortice in cui tutto ha incredibilmente un senso, ma di cui non si vede la fine. In fondo si tratta semplicemente di un dono inaspettato, come quel mostriciattolo che Dargen ci porge in copertina, e per apprezzarlo basta fare spazio e ascoltare.