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Ted Bee: l’intervista

08-02-2015 Reiser

Ted Bee: l’intervista

Attenzione selettiva: è quell’abilità che consente di mantenere la concentrazione su un unico stimolo ignorandone altri e da cui deriva, per proprietà transitiva, la memoria selettiva. Esserne dotati (o soffrirne, dipende dai punti di vista) permette una ricostruzione dei fatti molto precisa nella descrizione di singoli dettagli, ma lacunosa per quel che riguarda il contesto complessivo. Tenete a mente questo bignamino di psicologia da supermercato quando vi dico che il periodo intorno a metà anni Zero era, in base ai miei ricordi, molto florido per il rap milanese; non solo in termini di quantità – più o meno tutti quelli che conoscevo stavano lavorando a un disco – ma anche come qualità. Ripensandoci adesso, dell’epoca mi piaceva sia il progressivo distacco dai manierismi dell’hip hop (inteso come il feticismo onanistico delle quattro discipline), sia il taglio più «contemporaneo» che veniva dato ai testi. Con questo intendo dire che, accantonata la retorica di una nazione sotto un unico groove, finalmente si parlava di cose che succedevano in strada, con la minuscola, talvolta rileggendole sotto una lente che della cultura del Belpaese non riprendeva solo l’aspetto più superficiale e recente, ma anche quello in apparenza meno diretto. Sapete, «Noi generazione post BR figli della bomba», eccetera eccetera. Sic transit gloria mundi.

Tutto questo per dire che, persino in un simile contesto, altamente competitivo e stimolante, rimasi molto impressionato da Milano odia di Ted Bundy, il suo pezzo d’esordio tratto dal primo Roccia Music. A parte un bel beat di Deleterio e un ritornello azzeccato, l’esplicito riferimento al film di Lenzi (memorabile più per Ferruccio Amendola che si cimenta col milanese che per altro, va detto) unito alla narrazione cinematografica, a sua volta infarcita di citazioni storiche del periodo – il «tintinnio di sciabole» di De Lorenzo seguito dal «morte al principe» (Borghese?) – mi parve un bel modo per parlare di sé stessi per procura. «Dimmi cosa leggi e ti diro chi sei», per capirci. Quando poi scoprii che l’autore era un ragazzino di 16 anni mi sentì obbligato a fargli i complimenti di persona, cosa estremamente rara ma, in quel caso, doverosa. Al netto di rime, intrecci, sleghi e cazziemazzi, infatti, avere e sapere usare un simile immaginario è cosa rara, a maggior ragione quando si è così giovani.

E poi passarono gli anni. Io cambiai giri, i membri della Dogo Gang presero strade ben note e, salvo incontri occasionali o qualche amarcord come quello riportato sopra, il periodo si chiuse. Questo fino a pochi giorni fa, quando, per merito dei soliti social network, rientrai in contatto con Marco – questo il suo nome – per darci appuntamento in un pub per parlare del suo nuovo progetto: Fuck the middle man, un EP in cui il rap incontra blues, rock e ska. Cito dagli appunti presi durante il primo ascolto: un ritornello che omaggia apertamente When I come around, suggestioni delle batterie dei Russian Circles di 1777, qualcosa dei Clash o dei Police più copelandiani, e poi schitarrate che, per ignoranza personale, più che a un genere in particolare associo a dischi come la colonna sonora di Judgement night. È una direzione artistica inusuale, di certo controcorrente rispetto alle tendenze del momento e che, non a caso, rappresenta l’attuale punto della parabola artistica e personale di Ted Bee.

«Il tutto comincia nel 2013, quando mi sono trasferito a Londra per un certo periodo; lì mi sono trovato in un contesto che mi ha consentito di apprezzare alcuni artisti e comprendere culturalmente della musica che fino ad allora non mi diceva niente. Figurati che ho iniziato ad amare anche artisti come gli Oasis, gente che prima non apprezzavo perché faticavo a capire… Detto questo, e al di là del fatto che è naturale includere ciò che piace nella propria musica, l’EP ha determinate influenze perché da parte mia c’è l’ambizione di rappresentare alcune sottoculture che oggi non godono di grande popolarità, al contrario del rap, e che mi hanno affascinato. Però chiariamoci: non ho cercato l’unione tra due generi, la cosiddetta via di mezzo in cui ci si perde qualcosa per strada: rappo su basi che potrebbero essere riprese tali e quali per farci su ska o metal». Un omaggio, in un qualche modo? «Diciamo di sì, anche perché, da quel che vedo nelle tendenze dell’hipsterismo attuale, sono culture che sono state in parte annacquate o dimenticate dalla massa; ripescarle al di fuori da contesti modaioli e proporle a un pubblico «maturo» mi sembra quasi doveroso. È quello che peraltro cerco di fare anche attraverso progetti divulgativi paralleli a quello musicale, come il mio podcast «Tropicallondon». Un obiettivo nobile, il suo; tuttavia il mio timore è che possa essere confuso con quello che adesso viene erroneamente definito crossover, cioè quel crogiuolo di gruppi tipo Linkin’ Park, Limp Bizkit o P.O.D. che a fine anni ’90 inquinava le classifiche. «Il rischio c’è, però voglio dire chiaramente che, se parliamo di crossover, allora io mi rifaccio alle robe che facevano i Non Phixion nel 2003; cioè rapper puri che s’incontravano con musicisti rock altrettanto puri, e nessuno dei due piegava il proprio genere alle esigenze dell’altro – al contrario di quanto facevano, che so, i Linkin’ Park. Ma mi rendo conto che sto parlando troppo di me: oltre a quanto ti ho detto finora, il perché di un certo suono, e i risultati che puoi sentire, stanno nel fatto che il produttore è Virus [ex chitarrista dei Knife 49, ndR]. Perciò, al di là dei miei personalissimi stimoli, larga parte del sound di Middle man deriva da lui, non per ultimo il fatto che tutto è suonato con strumenti «veri». Poi so bene che è uno stile molto di nicchia, il che peraltro lascia intuire il mio fiuto commerciale [ride], però la roba che mi piace è quella. Figurati che il mio gruppo preferito sono i Rancid…»

Appunto, il fiuto commerciale: com’è che la traiettoria artistica di Ted Bee è stata «sottotono» rispetto ad alcuni dei suoi colleghi? «Fammi premettere innanzitutto che io sono cosciente del fatto che buona parte della mia visibilità la devo al fatto di esser stato parte della Dogo Gang. Io gli devo molto, specie considerando il fatto che all’epoca ero un artista emergente, perciò li ringrazio. Tuttavia, col tempo e con l’esperienza ho sentito sempre più il bisogno di mostrare la mia identità rispetto agli altri, non volevo correre il rischio di essere considerato la mascotte di turno. Da un punto di vista commerciale ho preferito scegliere di avere una fanbase – magari ristretta – che si fomenta con quello che faccio perché sono io a farlo, anziché averne una più grande che mi conosce in quanto semplice membro di un gruppo. E col senno di poi sono contento che sia andata così: se vai su Youtube a leggerti i commenti, a fronte di visualizzazioni sicuramente inferiori a quelle di altri colleghi, i commenti sono di gente che conosce esattamente il mio percorso e la mia discografia. Al contempo, la provenienza di queste persone è trasversale e spesso slegata dal rap; alcuni mi ascoltano solo per via dei testi, il che ovviamente mi fa doppiamente piacere». Ma quand’è avvenuta questa presa di coscienza e, di rimando, il distacco volontario da un certo modello di popolarità? «È stato graduale. Ti dico solo che (e sottolineo l’assenza di qualsiasi polemica nei confronti di rapper ora famosi di cui posso pure essere amico) a un certo punto mi son reso conto che i miei referenti musicali e culturali erano molto più di nicchia dei loro. Senza implicare giudizi qualitativi di sorta, semplicemente mi piace roba underground e controcorrente, chiamiamola così, e il mio output artistico lo dimostra. Specie con questo EP, in cui, oggi più ancora che in passato, ho registrato materiale che piacesse innanzitutto a me – del resto me ne sbatto il cazzo. A tutto questo aggiungi poi il fatto che, a livello personale, non penso che sarei capace di «essere» un artista mainstream. Con tutto quello che questo comporta: dall’avere un profilo pubblico di un certo tipo al saper intrattenere relazioni civili con gente esterna al mio giro di amici e collaboratori, cose così. Per fare un esempio: io non riuscirei a mantenere il giusto distacco nei confronti della stampa – musicale e non – se questa mi facesse una domanda idiota sull’Expo. Ma è un limite mio di cui ho preso atto, appunto».

Colgo la citazione: durante l’intervista a Marracash, uno dei giornalisti in sala si era lanciato in un volo pindarico conclusosi con una domanda sconclusionata sull’Expo. Al che l’interessato ha risposto con la giusta diplomazia: «Non mi sembra un argomento nemmeno tanto interessante». Evidentemente, Ted Bee avrebbe risposto altro, e sia detto che lo capisco bene; ma come mai quest’acrimonia nei confronti dei giornalisti? Dopotutto, in tempi recenti la carta stampata è stata più che generosa con il rap e i suoi esponenti, ciò nonostante risulta odiata forse più di quando ignorava in toto il fenomeno. «Sì, adesso il rap è riconosciuto e se ne parla, d’accordo. Però ti faccio notare due cose: la prima è che tutto questo è avvenuto solo quando non è più stato possibile «nascondere» il fenomeno, e la seconda è che ancora adesso ne parla e ne scrive con un’ignoranza ingiustificabile. Il problema sta qua: non solo è lenta nel riconoscere i fenomeni, ma è superficiale nel descriverli e non fa un necessario lavoro d’approfondimento utile per chi la legge. Quando scrivo «Oggi che conta solo vendere, non testi di spessore/ Non noti la differenza tra un Moreno e un Rancore» mi riferisco a questa mancanza di analisi qualitativa. In campo musicale e non solo. E così torniamo al discorso che facevo prima sulle mie decisioni artistiche, la mia carriera eccetera: ecco, io con gente simile non riesco ad avere a che fare; purtroppo, però, l’industria musicale e i suoi annessi è in larga parte costituita da persone che di questa specie». Probabile; però va detto che pure tra gli artisti ce ne sono alcuni magari bravissimi a fare musica ma del tutto privi di professionalità. Non a caso, eccetto i fenomeno costruiti a tavolino, quelli che oggi possono dire di avercela fatta sono gli stessi che già anni addietro avevano dimostrato delle qualità che sapessero andare oltre la semplice musica. Sapevano cioè come muoversi su un piano elementare di comunicazione. «Ho capito, ma bisogna vedere quanto è concesso oggigiorno in Italia e quanto ti puoi muovere davvero al di fuori di certi schemi. Prendi i Sex Pistols: pure loro erano figli di una mossa di marketing e quando sfanculavano Bill Grundy forse rientravano in questa logica; però resta il fatto che, a quei tempi e in quel paese, potevi “commercializzare” la tua identità anche in quel modo. Adesso invece cosa puoi fare? Il featuring col tizio in pigiamino ad Amici? Boh, forse è un problema mio, ripeto, ma per certe cose non sono tagliato e purtroppo le vie percorribili sono sempre più ristrette».

Concesso. Eppure, la butto lì, fare certi discorsi in un contesto come quello del rap, in cui la convalidazione della tua bravura viene data dal riscontro commerciale, come il 90% degli stessi artisti sostengono, appare un po’ un controsenso. Una sorta di schizofrenia, speculare a quella degli artisti di successo a cui rode il culo quando gli si fa notare che il loro disco non è un granché. «È vero, ma che ci puoi fare? Io intendo la musica in un’altra maniera e mi comporto di conseguenza, perciò la mia arroganza la declino in altri modi; dicendo, magari, che la mia bravura sarà riconosciuta da un’altra generazione. Che poi, visto che siamo in tema di vendite, anche quando si fanno certi discorsi bisogna considerare che parliamo di cifre molto relative: in Italia bastano 25000 copie per il disco d’oro, mentre, tanto per dire, in Inghilterra ne servono il quadruplo nonostante siano dieci milioni in meno di noi. Quindi, tanto di cappello a chi ce la fa, pure certe sboronate andrebbero viste – e dette – nella giusta prospettiva. Chiarito questo, rap o non rap e numeri a parte, per me il discorso ovviamente non regge; altrimenti dovrei considerare Gianni Morandi un capo e Battiato un fallito, visto che il primo vende più del secondo. Non ha senso, lo capisce anche un bambino, così come – aggiungo, giusto per chiarire come la penso – che dall’altro canto non è automatico che se un disco vende allora è brutto. Sono banalità, ma meglio precisare, visto che sull’argomento c’è ancora un po’ di confusione, mi sembra».

Triste a dirsi, ma ascoltando pezzi del rapper X o del rapper Y, o peggio ancora leggendo certi tweet o status, devo dare ragione a Marco. Oltre al fatto, aggiungo io, che certe opinioni provengono talvolta da persone sulla cui onestà intellettuale è lecito dubitare; dall’artista che ha cercato il successo ma non ci è riuscito (e ora rosica), fino a quello che da antagonista di un certo culturame si è trasformato in suo massimo cantore. In tal senso, fa sempre piacere sentire gente che non sente il bisogno di prendere una posizione tanto netta quanto stupida – a maggior ragione se ha avuto il modo di camminare su ambedue i lati del sentiero. E se proprio deve parlare, lo fa attraverso la sua musica.