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Dieci anni di Unlimited Struggle: E poi, all’improvviso, impazzire

26-10-2014 Luca Scremin

Dieci anni di Unlimited Struggle: E poi, all’improvviso, impazzire

Scrivere di E poi all’improvviso impazzire mi è molto difficile. In primis, non lo nego, perchè ha avuto un grande significato per la mia crescita di ascoltatore (nel 2009 ero in seconda liceo). Ma ovviamente anche perchè questo disco rappresenta una delle tappe fondamentali nella carriera di Ghemon ed è complicato metterne in prospettiva l’impatto.

In grande continuità con l’esordio solista di due anni prima (La rivincita dei buoni), EPAII è un disco ancora profondamente hip hop ma dove è già possibile apprezzare diversi squarci di quel che verrà dopo. La scrittura di Ghemon è sempre molto articolata e mai banale, ma rispetto alla Rivincita si comincia a vedere un certo lavoro di lima, l’inizio di un processo in cui il togliere sarebbe poi servito a conservare solo l’essenziale.

Il sodalizio con Fid Mella raggiunge con EPAII una delle sue vette più alte, dando grande omogeneità al prodotto, omaggiando il compianto Dilla e articolando, con l’aiuto di Brenk e Mainloop, una produzione di caratura elevatissima, soprattutto per gli standard italiani. Non mancano i ritornelli cantati, ma stavolta alle voci dei soliti, ottimi Al Castellana, Hyst e Martina May si aggiunge lo stesso Ghemon, che inizia qua a cimentarsi con una pratica il cui compimento definitivo arriverà solo con Orchidee. All’epoca dell’uscita del disco, Bra di Rapmaniacz trovò (come spesso accade) le parole più azzeccate per descriverlo, paragonando i testi di EPAII a “polaroid, istantanee che congelano un flusso inarrestabile di ricordi”. A giganteggiare in queste polaroid sono le relazioni interpersonali, i modi in cui vengono vissute, gli sbagli che si fanno e che puntualmente comportano un conto da pagare, le attrazioni e le incompatibilità tra le persone. Sviscerare le relazioni poi è solo un altro modo di guardarsi dentro, e l’autoracconto di Ghemon tende a volte al prendersi in giro con ironia, altre volte al radiografarsi guardando i propri difetti senza volerli estirpare, ma spesso accettandoli semplicemente per quello che sono.

A volergli proprio trovare un neo, E poi all’improvviso impazzire è un disco talmente lungo (ventitre tracce!) e pieno di grandi momenti che, ogni tanto, a perderne è la compattezza. Che poi a pensarci bene, finisce che anche questo si rivela un pregio. Un amico l’ha definito un “bugiardino dei rimedi della vita”, per cui a seconda del periodo che stai passando, questo disco avrà ogni volta la canzone che fa al caso tuo: se stai vivendo una relazione dalle trame non chiarissime c’è Abbiamo solamente (Tu mi hai dimostrato che il facile per me è complicato/Spiegato che una chiave non ce l’ha il duplicato), se senti il peso dei tuoi difetti ma non vuoi vergognartene c’è Indeciso (Mi hanno detto che sbaglio di grosso/Quanto tento di caricarmi tutto il mondo sul dorso/Ma conosco il modo di schienarlo sul foglio/E vi garantisco l’emozione per me vale lo sforzo), e così via.

Per comprendere la grandezza di questo disco bisogna anche collocarlo nel contesto in cui è uscito. Nel 2009, il rap italiano vede, da una parte, alcuni artisti tentare di farsi strada (con successi alterni) nel mainstream; dall’altra, un underground piuttosto intransigente e conservativo. L’esperienza di artisti come Ghemon è servita a ricordare al microcosmo italiano che è possibile fare le cose in un altro modo. Quando uscì La rivincita dei buoni, Moddi disse che ci volevano le palle per far uscire un disco con una copertina del genere. Con EPAII Ghemon continua per la stessa strada, tentando di scardinare lo stesso integralismo del rap italiano, ma rifiutando la responsabilità di salvatore della patria.

Mettere nero su bianco l’eredità di un disco è sempre difficile, per esempio perchè si rischia di non riuscire a porre la giusta distanza (temporale o emotiva che sia) rispetto a esso. Su E poi all’improvviso impazzire il dato inoppugnabile mi pare che sia l’impossibilità di individuare più di una manciata di dischi, nel rap italiano dal 2000 in poi, che possano dimostrare lo stesso grado di maturità, consapevolezza artistica, talento e buone idee di questo album. Poi c’è tutto il resto: il modo di raccontare la vita delle persone, le delusioni e le gioie. C’è l’assumersi la responsabilità di quel che si dice. A guardare bene, è tutto nella frase conclusiva di Si chiude il sipario: Al rap serve un uomo/Cosa che io sono.