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Smania Uagliuns: l’intervista

10-09-2013 Marta Blumi Tripodi

Smania Uagliuns: l’intervista

Non possiamo spiegarvi gli Smania Uagliuns per iscritto: dovete ascoltarli, o meglio ancora guardarli, perché l’abilità a suonare e l’impatto visivo sono parte integrante e indispensabile dell’esperienza Troglodigital. Immaginatevi tre scappati di casa vestiti come Sly & The Family Stone, che suonano come i Goodie Mob in acido e hanno la stessa ironia fulminante di Elio e Le Storie Tese; ma il loro approccio è talmente personale che in effetti è dura paragonarli a qualcun altro. I nostri eroi lucani sono l’avanguardia di un nuovo hip hop italiano, che non si prende sul serio ma fa le cose dannatamente sul serio. Forse non rispettano tutti i canoni tradizionali del genere, forse canticchiano un po’ troppo per essere considerati soltanto degli mc, forse la vostra street credibility diminuirà di un pochino se confessate di ascoltarli con gran gusto, ma credeteci: una volta entrati in quel tunnel, non si torna più indietro. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con loro via Skype, per parlare dell’album Troglodigital, uscito un paio di mesi fa per la futuristica/futuribile etichetta ReddArmy, e non solo.

Blumi: Com’è nata l’idea di fondare una band sui generis come gli Smania Uagliuns?

Gennaro: Io ed Enzo cantiamo insieme fin dalle scuole elementari, quindi è difficile dire com’è nata la band… (ride) Siamo cresciuti insieme e anche i nostri ascolti musicali procedevano in parallelo. Nel 2004 abbiamo prodotto il nostro primo demo e nel 2008 il primo disco, ma è avvenuto tutto in maniera molto naturale.

B: L’avete concepito come un progetto di rottura, ovvero per fare qualcosa che fino a quel momento in Italia ancora non c’era?

Gianni: Ci siamo sempre sentiti degli emarginati dalla nascita, in effetti… Se c’è stata una reazione di questo tipo è stata inconscia, nel senso che certe dinamiche cominciavano a scocciarci, ma abbiamo comunque seguito il nostro istinto, senza pensare niente a tavolino. In caso contrario, a quest’ora ci saremmo già stancati di interpretare un personaggio.

B: Ascoltando Troglodigital risulta abbastanza chiaro capire cosa non siete: ma voi cosa siete, esattamente? Come vi definireste?

(silenzio meditabondo, ndr)

Enzo: Direi che siamo un mix: ognuno ha i suoi ascolti e le sue preferenze, e facendo musica in gruppo tutto si mescola. In fase di produzione, oltretutto, collaboriamo con altri musicisti (la Smania Band allargata) che suonano generi completamente diversi dai nostri e ascoltano tutt’altra roba, il che contribuisce a rendere l’insieme ancora più caleidoscopico.

B: Vi considerate parte della scena rap?

Gi: Non riusciamo a considerarci completamente integrati nella scena rap. In sostanza siamo dei contadini trapiantati in città, cresciuti ascoltando rap ma suonicchiando elettronica, canticchiando synth-pop e stonando indie rock.

B: E difatti il disco è anche molto suonato…

E: Sì, la componente strumentale è molto massiccia, ma si intreccia con i beat e con la parte programmata in maniera molto spontanea. Quando ci mettiamo a comporre un pezzo ci viene naturale, mentre tagliamo un campione, prendere subito in mano una tromba, affiancare un sintetizzatore, pensare a un basso suonato: lavoriamo in questo modo.

Ge: Per aiutarti a tracciare un profilo, specifichiamo che da ragazzini abbiamo tutti studiato musica: solfeggio, pianoforte, clarinetto, sassofono…

B: E il vostro imprinting musicale “serio” si sente: siete tra i pochissimi gruppi italiani indipendenti (non solo in ambito hip hop) a non stonare nelle armonizzazioni e nei cori. Una specie di miracolo, per quanto mi riguarda.

Gi: Alle scuole medie io cantavo Giuseppe Verdi: qualcosa ancora mi ricordo, evidentemente! (ride) Scherzi a parte, cerchiamo di curare molto la parte vocale, come d’altronde tutto il resto.

E: È una cosa che ci deriva soprattutto dai nostri ascolti soul e nu-soul, anche se non necessariamente tradizionali: ci rifacciamo soprattutto a gruppi come Sa-Ra Creative Partners, che per noi sono una grandissima ispirazione per il loro approccio musicale ibrido e tendente alla sperimentazione e per la cura maniacale delle armonizzazioni vocali.

B: In effetti ascoltando le vostre canzoni si sente parecchio che siete grandi fan dei Sa-Ra, però vi hanno anche definiti “Gli Outkast italiani”: vi riconoscete in questa descrizione?

Gi: Il paragone ci ha fatto senz’altro piacere, è un grande complimento. Però non ci calza del tutto: ci sentiamo simili agli Outkast per la nostra voglia di cambiare sempre le carte in tavola e non legarci a un genere specifico pur restando nel solco dell’hip hop, ma forse ci sono più similitudini con altri tipi di band. Non saprei. Lasciamo agli altri le definizioni, che è meglio! (ride)

B: Il vostro nuovo album ha un appeal molto internazionale e senz’altro funzionerebbe benissimo all’estero: avete mai pensato di cantare in inglese per aprirvi qualche porta in più?

Ge: Sforzarsi non avrebbe senso, considerando che in ogni caso riusciremmo sempre e comunque ad esprimerci meglio in italiano.

E: Perché un prodotto sia competitivo e valido a livello internazionale dovremmo avere una padronanza enorme dell’inglese, pari a quella di una persona nata e cresciuta in paesi anglofoni. Noi pensiamo in italiano, e tradurre questi pensieri in canzoni in un’altra lingua non funzionerebbe molto. Anche perché noi lavoriamo molto sulle parole, cercando di sceglierle tra quelle meno banali e più adatte a veicolare un determinato messaggio. Se mai decidessimo di fare un disco in inglese cercheremmo di trovare un formato ad hoc, più semplice, per non rischiare di incasinarci.

B: A proposito di parole, uno dei pezzi del disco si intitola proprio Spesso le parole rovinano i brani. Parla più di relazioni che di songwriting, in realtà, però io ora me ne fregherò e vi chiederò comunque di farmi degli esempi di liriche che hanno rovinato irrimediabilmente un brano…

Ge: Nostre o degli altri? (ride)

Gi: Ce ne sono così tante che non so davvero da dove cominciare…

E: Io, per essere onesto e brutale, ti citerei un Fabri Fibra: secondo molti il suo stile ora è più asciutto perché va alla ricerca di quelle poche parole giuste, mirate e incisive, ma in realtà per me sono mirate solo a network radiofonici tipo Rtl.

Ge: Quasi qualsiasi brano di musica leggera italiana è stato rovinato dal testo: Parlami d’amore quando nasce un fiore, sole cuore amore… Le stelle sono bellissime, il sole e le nuvole anche, lo sappiamo tutti, ma forse non è il caso di continuare a chiamarle in causa ogni pochi secondi.

Gi: A questo proposito mi viene in mente anche un Alex Britti, che è un grandissimo chitarrista blues ed è anche un ottimo arrangiatore: se in alcuni suoi pezzi avesse eliminato la favella, sarebbero stati perfetti! (ridono tutti, ndr)

B: Quindi ce l’avete con gli italiani! Ero convinta che vi riferiste a qualche americano, tipo R Kelly, le cui canzoni sono in maggioranza romanticissime fino a quando non capisci che sta usando un linguaggio da pappone di terza categoria…

Gi: Anche il paragone con l’R’n’B’ moderno è molto calzante, in effetti.

E: Lì, però, la qualità superiore delle loro corde vocali è in grado di eclissare del tutto i testi di merda! (ride)

Ge: Anche nel reggae il discorso è simile: il lemma marijuana in loop per 3 capoversi, banalità fini a se stesse, si scade continuamente nel già detto.

E: Anzi, nel Jah detto, se posso fare una punchline… (ridiamo tutti, ndr)

B: Restando sui brani dell’album, tutte le vostre canzoni sono un piccolo mondo a sé e affrontano tematiche magari comuni, ma con un’angolazione estremamente atipica. Penso ad Ah però, che parla di alcol e ha un sound non particolarmente malinconico, ma riesce a trasmettere la sensazione di una sbronza triste meglio di qualunque altra canzone sul tema…

Gi: A un primo ascolto potrebbe sembrare una canzone un po’ frivola e superficiale, ma in realtà non è così: parla di alienazione nei rapporti umani, soprattutto.

E: Esatto, l’alcol è quasi un elemento di contorno, e infatti l’abbiamo traslato usando la metafora del nettare sacro come bevanda simbolica.

Ge: Sia chiaro, comunque, che non siamo dei moralisti: anche a noi piace sbronzarci una volta ogni tanto!

B: Un altro brano estremamente insolito è Piaccio a Luca, che parla di omosessualità, ma con toni talmente irriverenti e sopra le righe da essere davvero unico nel suo genere. È difficile trovare altre canzoni che affermano con tanta nonchalance “Io nel mio culo ci infilo quel che voglio”.

E: “Io nel mio culo se voglio ci infilo anche uno scooter”, più precisamente! (ride)

Ge: Anche in doppia fila, perché no! (ride)

Gi: Diciamo che riciclare l’approccio e le tematiche di Gigi D’Alessio e Anna Tatangelo, per quanto siano luminari incontrastati della storia della musica, era un po’ inutile… (Nel 2008 la Tatangelo si è presentata a Sanremo con una canzone intitolata Il mio amico e scritta da Gigi D’Alessio, che inneggiava con toni all’acqua di rose alla tolleranza nei confronti dei gay, ndr) Ci tenevamo a rileggere l’argomento a modo nostro.

E: Una delle caratteristiche principali dei nostri brani è che ci sono diversi livelli di lettura. I cosiddetti pezzi a tema non ci piacciono, e non ci piace neanche quando ci chiedono “Di cosa parla questo pezzo?”: ciascuno ci può vedere dentro quello che vuole. In questo caso, non volevamo correre il rischio di essere demagogici e seriosi. È un pezzo di rottura, sia nei confronti del machismo imperante nell’hip hop, sia nei confronti dell’abitudine di trattare come specie protetta una categoria che invece dovrebbe essere normalmente accettata.

Ge: Per contrastare un fenomeno insensato come l’omofobia non ti puoi mettere sullo stesso livello di chi prende sul serio l’idea che i gay siano sbagliati, perché è come se di riflesso la prendessi sul serio anche tu: l’unico strumento che hai a disposizione è l’ironia.

B: So che avevate anche contattato l’Arcigay per proporre un qualche tipo di collaborazione. Com’è andata a finire?

E: La trattativa è ancora aperta! (ride) Più che altro, dal loro punto di vista c’è qualche remora ad affidarsi a chi tratta questi temi in maniera scanzonata. Anche perché noi non rientriamo certo nei loro ascolti abituali: come ci hanno detto molto chiaramente, la maggior parte della comunità GLBT in Italia ascolta Paola e Chiara o Lady Gaga… Ragion per cui sarebbe ancora più bello attivare questa connessione, per rompere i cliché su più fronti.

B: Cambiando argomento, spesso ribadite che siete persone di campagna, e effettivamente siete cresciuti in Basilicata, che forse è una delle regioni meno conosciute d’Italia. Questo isolamento come ha influenzato la vostra musica?

Gi: Da un lato ci ha reso la vita difficile, perché ci era impossibile trovarci al posto giusto con le persone giuste: le occasioni che ci si presentavano erano per forza molte di meno. Dall’altro, però, ci ha aiutato a sviluppare uno stile molto personale.

E: Ce la siamo costruita da noi, la nostra strada, con un approccio totalmente autodidatta e senza farci influenzare troppo dall’ambiente esterno. Anche perché l’ambiente esterno non esisteva.

Ge: Certo, quando finalmente sono arrivati i primi approcci con le metropoli ci si è aperto un mondo e siamo stati sommersi da nuovi stimoli, ma se non fossimo partiti da quelle famose campagne magari non saremmo stati in grado di coglierli nel modo giusto.

B: Ma sono tutti personaggi singolari come voi, dalle vostre parti?

Gi: Ci sono un sacco di suonatori di zufolo, organetto e mandolino, ma l’approccio è simile! (ridono tutti, ndr)

B: L’aspetto visuale è molto importante per voi, come è evidente sia dai vostri video che dal packaging dell’album: colori psichedelici, costumi che assomigliano più che altro a travestimenti, fortissima caratterizzazione dei personaggi…

E: Vogliamo comunicare anche in quel modo il nostro mondo. L’ispirazione arriva innanzitutto dalla componente più freak del funk: Parliament Funkadelic, Sly & the Family Stone, Earth, Wind & Fire, ma anche Sun-Ra per l’esoterismo e le divinità egizie. Abbiamo cercato di mischiare tutto e di rielaborarlo in maniera personale, in modo che la nostra estetica non fosse immediatamente riconducibile a nessuna scena. Ci dà un po’ fastidio l’idea che un rapper debba per forza apparire in un certo modo e dire certe cose, per essere preso sul serio.

Gi: Esatto, abbiamo frullato tutti gli elementi che ci venivano in mente e li abbiamo trasformati in un approccio originale.

E: Si può dire che sul palco diventiamo quello che vorremmo essere nella vita: ci trasformiamo in questi personaggi coloratissimi che ci aiutano a rendere reali i prodotti della nostra immaginazione.

B: Alcuni dei personaggi che avete citato, tipo Sly e Sun-Ra, ci credevano davvero, ai personaggi che stavano interpretando. E voi?

E: Ancora non del tutto…

Ge: …Ma quasi.

Gi: Io un po’ sì. Quando salgo sul tram truccato e la gente mi guarda male, non capisco proprio il perché. Ormai le piume le vedo come una cravatta, più passa il tempo e più non scindo le due cose! (ride)

B: Ecco, a proposito: voi cosa fate nella vita?

E: Ah, non era chiaro? I sacerdoti! Gestiamo una parrocchia tutti insieme! (ride) Scherzi a parte, Gennaro, comincia tu che sei quello più serio e ci fai sicuramente fare bella figura…

Ge: Io nella realtà sono un ingegnere meccanico. Siamo un po’ come i supereroi: di giorno professionisti seri, di notte pazzi scatenati!

Gi: Anche io sguazzo nella normalità: studio medicina.

E: Io sono un po’ meno serio di loro: lavoro nell’ambito della comunicazione e pubblicità.

B: Non mi resta che chiedervi i progetti futuri.

Gi: Trovare una cura per la cecità (dell’industria discografica).

Ge: Progettare il trattore del futuro.

E: Far fallire l’intera industria pubblicitaria, spero! (ride)

Gi: A breve, poi, vorremmo realizzare un EP creato in una sola notte. Già abbiamo il titolo, ma per ora ce lo teniamo per noi.

Ge: Abbiamo in cantiere anche un paio di remix e altre cosucce, ma per ora ci concentriamo al 100% su Troglodigital, di cui a breve usciranno nuovi singoli e video.