Certe volte è davvero impossibile scrivere una degna introduzione a un’intervista. Come si fa a spiegare in poche righe il monumentale apporto di artisti come IceOne alla scena hip hop italiana? Pioniere ancora oggi innovativo (sì, può sembrare una contraddizione in termini), rappa, produce e approfondisce la Cultura con la C maiuscola da prima ancora che molti di noi nascessero, ivi compresa la persona che in questo caso lo ha intervistato. Il suo approccio si è sempre contraddistinto per la positività e la grande voglia di condividere la propria esperienza con il suo prossimo, nonostante potesse tranquillamente sedersi sugli allori e vivere di rendita godendosi il rispetto ottenuto nella prima decade dell’hip hop italiano. Caratteristiche che traspaiono anche da questa lunga chiacchierata, realizzata a Milano un paio di settimane fa. L’occasione è una celebrazione speciale: il suo album solista di debutto, B-boy maniaco, difficilissimo da reperire, è infatti stato ristampato dalla stessa Irma Records che lo aveva pubblicato per la prima volta nel 1995 (lo trovate sia in versione fisica che digitale nei principali negozi di dischi). Per prepararci a questa intervista abbiamo spulciato i vecchi numeri di Aelle e ci siamo totalmente calati nello spirito dei tempi: il risultato è un gran bell’affresco del passato, da cui però c’è parecchio da imparare per il futuro. Enjoy!
Ph: Gloria Viggiani, tutti i diritti riservati
Blumi: Quando è uscito B-Boy maniaco tu eri già attivo da oltre 10 anni: avevi perfino partecipato al festival di Castrocaro nel 1986…
IceOne: Sì, esatto: ero attivo dall’82, e effettivamente nell’86 avevo partecipato a Castrocaro. Avevamo cercato di fare uscire il rap in circuiti un po’ meno underground, anche perché all’epoca non c’erano dei grandi limiti: la scena non aveva ancora sviluppato una chiusura nei confronti del mainstream, e anche nel music business c’era un livello di manipolazione molto più basso di quello che invece si trova oggi. Era un fenomeno che i discografici non conoscevano ancora abbastanza bene, quindi erano molto più possibilisti e aperti all’ascolto. Se partivi con le idee chiare e delle convinzioni forti, erano molto più contenti anche loro.
B: Erano possibilisti e aperti anche nei confronti del rap in inglese, ad esempio?
I: Con una delle mie prime formazioni facevamo proprio rap in inglese: si parla dei Power Mc’s, ovvero io, Julie P e Duke Montana. Quello era un periodo di passaggio, e quasi tutti avevamo fatto un disco in inglese: una scelta obbligata per sperimentare. Tutti noi, però, sentivamo l’esigenza di comunicare qualcosa in italiano, e abbiamo cominciato a fare i primi tentativi. Per quanto riguarda me, non ero mai soddisfatto al 100% di quello che scrivevo: ho dovuto lasciar passare parecchio tempo prima di riuscire a raffinare la tecnica e trovare uno stile che non fosse un compromesso troppo esagerato.
B: Hai praticato tutte e quattro le discipline, una cosa che ormai non succede più…
I: Sì, bene o male le ho praticate tutte, nel senso che alcune con meno costanza o per meno tempo. All’epoca non ero il solo, comunque: tutti provavano tutto. Il primo input era stato il ballo, che mi aveva folgorato grazie a quella famosa scena di Flashdance in cui compare la Rocksteady Crew: ho avuto fortuna, perché all’epoca ho conosciuto alcuni ragazzi di Boston che già ballavano e mi insegnarono qualcosina. La mia vera passione, però, era fare il disc jockey. Essendo poi anche un musicista – ho studiato pianoforte per anni – ero anche molto affascinato dal metodo di composizione dei beatmaker, così ho iniziato a produrre le mie prime cose, che registravo artigianalmente su cassetta. Nell’87 ho inciso i miei primi lavori su vinile, ma non per progetti miei: erano più che altro per altri musicisti che volevano che il lato B del loro singolo contenesse anche del rap, e quindi ci chiamavano per qualche collaborazione.
B: Il vostro è stato un percorso a 360°, mentre spesso chi si avvicina oggi all’hip hop considera solo l’aspetto del rap, e tutto il resto gli sembra molto marginale. Perché, secondo te, questo gap generazionale?
I: Il rap ha un grande potenziale di espressione e comunicazione, senza dubbio. Anche le altre discipline ce l’hanno, ma forse hanno già dato quello che dovevano dare. Il writing, ad esempio, in questo periodo sta prendendo di nuovo piede, ma è più che altro legato a tematiche urbane e di riqualificazione delle città, più che all’hip hop in sé. Negli anni si sono create molte fratture all’interno della scena, e nell’ambito di queste fratture è nato anche questo fenomeno del rap fine a se stesso, che può essere abbinato a qualsiasi genere musicale. Ma non è la sua vera natura: il rap è parte integrante dell’hip hop, e quando se ne distacca il risultato è abbastanza misero. È come una pianta senza radici.
B: Nel periodo in cui sembrava che i soldi facessero schifo a tutti, tu sei stato uno dei primissimi ad affermare che era giusto guadagnare dalla propria musica e anzi, che pretendevi di essere retribuito per quello che facevi…
I: Esatto. Quello che facevo non era mediato da nessun desiderio di commercialità: non lo riadattavo per la moda del momento, ma volevo guadagnarci su qualcosa. Non per essere venale, ma perché per portare avanti questa attività 24 ore su 24, 7 giorni su 7, avevo senz’altro bisogno di un minimo di sostentamento. Io vengo da una famiglia che mi ha sempre cresciuto dignitosamente, ma ha origini popolari: il lavoro è sempre stato una grande fonte di dignità personale, e trasformare la mia passione in un mestiere mi è venuto logico e automatico. Per quanto riguarda la tendenza dell’epoca, secondo me molti avevano paura di avere successo, e quindi cercavano di rifuggirlo in quel modo. Altri ancora (quasi tutti, a dire il vero) hanno tentato di sfondare, e poi quando non ci sono riusciti si sono nascosti dietro al paravento del duro e puro. Peccato che in America riuscissero ad essere duri e puri anche guadagnando: io non ho fatto altro che adeguarmi a quel modello, quello del mio gruppo preferito, che si chiama EPMD e cioè E_rick and Parrish Makin’ Dollars…_ Sono consapevole di dire una verità scomoda, ma quasi tutti coloro che non ritenevano indispensabile avere un riscontro economico in Italia avevano i soldi di famiglia. (ride)
B: Oggi, finalmente, i rapper hanno capito che fare musica è un mestiere e giustamente pretendono di essere retribuiti per rappare, ma avranno capito come non riadattare la propria musica alla moda del momento?
I: Sicuramente c’è una mediazione verso la commercialità, ma penso che arrivi più dagli artisti che dalle discografiche. È il discorso che facevamo prima: se arrivi ad ottenere un contratto ma non hai un’idea forte, sicuramente cercano di direzionarti loro verso la strada che credono migliore. Molti parlano di manipolazione, ma penso che ad oggi sia applicata soprattutto nei confronti di quegli artisti che hanno talento e capacità, ma non sanno esattamente che cosa vogliono fare. Chi sa cosa fare si sente rispondere sì oppure no, ma quando la risposta è sì poi non deve più preoccuparsi di eventuali interferenze. Un po’ come è successo a noi Colle Der Fomento quando, dopo aver lavorato a lungo e senza imposizioni con un’indipendente come Irma Records, siamo approdati alla Virgin, che era una major: era chiaro che il prodotto funzionava e che noi sapevamo il fatto nostro, perciò nessuno ci ha mai detto cosa fare. Ad oggi, a differenza del passato, si può contare anche su spazi come Italia Hip Hop Foundation, dove si possono chiedere consigli a tutti gli artisti che sono considerati come seminali nell’ Hip Hop italiano.
B: Hai raccontato che quando hai iniziato tu a fare beat avete imparato tutto a orecchio, e che una volta siete rimasti per ore in camera di Gruff, entusiasti perché aveva finalmente capito cos’era il transformer e come funzionava. Se oggi non ci fosse Internet, secondo te quante persone effettivamente avrebbero imparato come si fa il rap e come si fanno le basi?
I: Ai miei tempi non c’erano sicuramente tutorial, e anche se ci fossero stati un videoregistratore costava un occhio della testa, quindi dovevi assorbire come una spugna tutto ciò che vedevi dal vivo. Alcuni personaggi, come Gruff o dj Skizo, per me sono stati fondamentali in termini di confronto e condivisione della conoscenza. Ci scambiavamo idee soprattutto a distanza, però: quell’incontro che tu menzioni, ad esempio, è stato un evento epocale, perché le volte che siamo riusciti effettivamente a incontrarci, in quegli anni, si contano sulle dita di una mano. Abitare lontani ed essere sempre in giro per suonare non aiutava, in quel senso. Quella volta lui ci aveva ospitato a casa sua dopo uno Zulu Party a Torino, ed essendo riuscito a decodificare per primo alcuni trucchetti, ci aveva spiegato pazientemente tutto. Sicuramente i tutorial velocizzano la conoscenza, ma non ti trasferiscono il talento per scienza infusa: o ce l’hai o non ce l’hai. Puoi tentare di imitarlo, ma dopo un po’ la verità salta fuori, come è successo recentemente in quel famoso caso del producer che in realtà non produceva… (Si riferisce a The Orthopedic, ndr)
B: Ecco, a proposito di questo: l’aspetto più sconvolgente di tutta questa storia, secondo me, è che sono tutti cascati dal pero, nessuno sembrava essersi accorto di nulla. Come si distingue un beatmaker capace da uno che finge di esserlo?
I: Secondo me il problema è l’atteggiamento “business”: la gente non va più a controllare dal vivo in che modo lavora un producer. È necessario un contatto, un feeling, possibilmente un incontro di persona e non solo tramite Internet: collaborare per un album è una cosa importante, non si può comprare una base come al mercato del pesce. O peggio ancora, comprarla per corrispondenza per poi sentirti proprietario di qualcosa di cui in realtà non conosci neanche l’origine. Un vero producer, se ne ha la possibilità, entra in studio insieme a te e ti fa vedere come lavora. Osservare un producer che lavora è un vero spettacolo, secondo me. Anni fa facevamo a gara: 10 minuti d’orologio, una pila di dischi e il più veloce a chiudere un beat vinceva. Magari ne usciva fuori una schifezza orrenda, ma sicuramente ti dava l’idea delle capacità di un produttore! (ride)
B: Rimanendo in tema di beatmaking: spulciando vecchi numeri di Aelle ho trovato una rubrica in cui spiegavi che tipo di attrezzature procurarsi per intraprendere la carriera di beatmaker. Tra le altre cose dicevi che il prezzo di un campionatore usato si aggirava tra le 800.000 lire e i 2 milioni…
I: Ecco perché ho sempre insistito sul fatto che era necessario guadagnare: il problema era proprio quello! Chiaramente, se diventavi un po’ più conosciuto, i produttori e i distributori di quelle macchine te le mandavano gratuitamente, ma prima di riuscire ad arrivare a quel traguardo il campionatore diventava un costosissimo oggetto del desiderio. Chi non era già un musicista professionista doveva lavorare e faticare non poco per poterselo permettere. Ricorderò sempre che nel periodo in cui uscì l’album di Frankie HI-NRG, in parte prodotto da me, ascoltavo le sue canzoni alla radio del supermercato dove lavoravo come magazziniere per 12 ore al giorno, e tra me e me speravo fosse un segno del destino che mi indicava che da lì a breve sarei stato fuori da quella prigione, perché non ce la facevo più! (ride)
B: Continuando con le curiosità: quando hai pubblicato B-Boy Maniaco non eri mai stato in America, né per lavoro né per piacere. In questi anni, invece, hai avuto occasione di farlo?
I: No, non ancora. Ho viaggiato parecchio in Europa, ma per me l’America è una specie di traguardo, che voglio tagliare solo a certe condizioni. È vero, è la patria dell’hip hop, ma lì non hanno bisogno di me, è qui che va sviluppato, ed è qui che voglio continuare a lavorare. Magari tra quindici anni, quando avrò fatto tutto quello che devo e voglio fare qui, ci andrò, finalmente. Ma per ora non ci vado, per partito preso.
B: Mettendo in play oggi B-boy maniaco si sente che il flow è un po’ datato, ma i beat suonano ancora freschi e attuali. Qual è il segreto per fare un disco senza tempo, che si riascolta con piacere anche quasi vent’anni dopo?
I: Mi fanno spesso questa domanda, e secondo me il segreto è saper cogliere la differenza tra una traccia e una canzone. Una traccia diventa una canzone quando permetti al tuo pubblico di cantare in prima persona le tue parole, senza metterci troppi riferimenti personali e facendo sentire l’ascoltatore in parte protagonista di quello che racconti. Riguardo al beat, invece, è tutta una questione di musica. Grazie ai sacrifici dei miei genitori ho potuto studiare pianoforte, e consiglierei a tutti i beatmaker di fare lo stesso: inutile affidarsi ai software che ti mettono automaticamente le note in tonalità, i risultati sono scadenti e si sentono. Bisogna conoscere i rudimenti della composizione, perciò almeno qualche lezione di musica di base sarebbe da prescrivere a chiunque voglia fare questo lavoro. Io ho un certo immaginario di riferimento: mi piacciono i film horror, la musica cupa, e cerco di esprimere quel mood con la matematica della musica. C’è uno studio attento e una ricerca dietro ogni suono che scelgo.
B: Tra l’altro, a proposito di questo, mentre riascoltavo il disco per preparare l’intervista ho beccato un campione che anni dopo avrebbero anche usato, in maniera assolutamente identica alla tua, i Massive Attack per l’intro di Protection…
I: È una cosa che è capitata spesso a me, Next One, Gruff, Skizo e tanti altri dj italiani: abbiamo anticipato delle produzioni internazionali di personaggi famosissimi. È normale, perché abbiamo tutti lo stesso bagaglio culturale. Spesso invece succede anche che abbiamo le stesse idee, ma non la stessa possibilità di realizzarle. Ad esempio mi sarebbe sempre piaciuto campionare il tema di Uccellacci uccellini di Ennio Morricone, ma non ho potuto perché non potevo permettermi di pagare la cifra necessaria a liberare il sample (la cosiddetta sample clearance: soprattutto se il campione è famosissimo e si rischia di essere beccati, è pratica comune chiedere all’autore originale l’autorizzazione all’utilizzo dietro pagamento, ndr). Alla fine lo hanno fatto gli EPMD per Symphony 2000, che sicuramente era un progetto in cui non avevano problemi di budget. L’alternativa era tentare di campionarlo a sgamo, ma in Italia sarebbe stato troppo complicato perché è un tema molto conosciuto. Con molti miei sample meno noti taglio la testa al toro e faccio così, incrociando le dita e sperando che mi vada sempre bene… (ride)
B: Tu sei uno di quei producer che ancora fa tutto campionando, e magari campiona solo da vinile?
I: Sì, la maggior parte delle mie produzioni, anche quando sono lavori più elettronici che non sembrano sample, è costituita da campionamenti. E ho sempre campionato da tutto. Il mio eroe era un mio amico un po’ più giovane di me, Phella, che ha lavorato con me anche ne La Comitiva, che utilizzava davvero qualsiasi cosa per fare i suoi beat, perfino le cassette che davano in omaggio con i fustini del detersivo. Io ho adottato lo stesso suo metodo, anche perché nel 2006 ho subito un grosso danno: il mio studio è andato distrutto a causa di un’inondazione. I locali erano sepolti nel fango e sono riuscito a salvare molti vinili, ma ho perso tutte le macchine. Da quel giorno ho imparato a viaggiare leggero: ho 2 thera di Mp3 e spesso e volentieri campiono da quelli, anche se ovviamente la mia preferenza va sempre al vinile. L’importante, comunque, è il suono, anche perché poi ci penso io a lavorarlo nella maniera giusta.
B: Poco fa nominavi La Comitiva, un collettivo incredibile e molto innovativo di cui eri una colonna portante: avete sfornato un unico, bellissimo disco alla fine degli anni ’90, Medicina buona, e poi non avete mai più lavorato insieme. Come mai non avete dato un seguito al progetto?
I: Eravamo tantissimi: oltre a me i membri fondamentali erano Riccardo Sinigallia (noto cantautore e attuale produttore di Coez, ndr), Francesco Zampaglione (fratello di Federico Zampaglione dei Tiromancino, nonché uno dei principali parolieri e compositori di musica italiana, ndr), David Nerattini (creatore della rivista Superfly e batterista, giornalista, produttore con lo pseudonimo di Little Toni Negri, ndr) e dj Stile. Oltre a noi, vari altri artisti hanno collaborato al progetto, come Elisa – il cui nome all’epoca non venne citato esplicitamente in tracklist perché stava cercando di distaccarsi dalla sua immagine di cantante anglofona – Malaisa, Frankie HI-NRG, Massimo Nunzi (Trombe Rosse Posse/C’era una Volta a Roma), Phella e Erika Savastani. Il progetto nacque una sera al Locale di Roma, attorno al 1994: mancava il gruppo che doveva suonare, così chiamarono un po’ di gente, ovvero noi, per fare una jam session. Ci ritrovammo tutti lì e, ispirati da una quindicina di bottiglie di vino rosso, cominciammo a improvvisare: per caso tra il pubblico c’era anche l’allora presidente della Virgin, Riccardo Clary, che dopo averci sentito volle assolutamente che facessimo qualcosa per lui. Ci diede qualcosa come sette milioni di lire per pagarci lo studio per registrare un provino, una cifra astronomica per noi all’epoca… Ci chiudemmo in sala d’incisione per una settimana e uscimmo con un dat pieno di tracce, che gli consegnammo. Lui lo ascoltò entusiasta e disse testuali parole: “Ragazzi, è un disco incredibile, davvero meraviglioso, molto avanti. Ci rivediamo tra cinque anni!”. Noi rimanemmo a bocca aperta! In sostanza, secondo lui era un progetto troppo futuristico per funzionare all’epoca.
B: Pazzesco! E quindi cosa successe da lì al ’99, quando l’album effettivamente uscì?
I: Ci dimenticammo per un po’ della cosa: La Comitiva fece una comparsata come collettivo in B-boy maniaco, e riutilizzai anche diverse cose che avevo prodotto per La Comitiva inserendole in quello stesso album. Devi sapere che il mio progetto solista uscì come una sorta di tappabuchi: con i Colle der Fomento eravamo in un mostruoso ritardo per la consegna del disco, oltre un anno, perciò per non fare attendere troppo la Irma Records che giustamente si aspettava qualcosa dal nostro collettivo, decidemmo di anticipare il mio album. Comunque, tornando alla Comitiva, esattamente cinque anni dopo la Virgin si fece viva di nuovo, chiedendoci di pubblicare l’album. Naturalmente non riconsegnammo lo stesso dat del ’94: ormai quella roba la sentivamo vecchia, così chiedemmo di poter ri-registrare tutto. Per fortuna Riccardo Sinigallia aveva appena aperto il suo nuovo studio, per cui registrare Medicina buona fu anche una sorta di rodaggio… Il risultato ci ha molto soddisfatto ma, come spesso succede nei gruppi che coinvolgono parecchie persone, subentrarono incomprensioni, malumori e difficoltà di vario tipo, perciò abbiamo abbandonato il progetto. Ma in fondo va bene così: quell’unico disco è una chicca per intenditori, che magari prima o poi ristamperanno.
B: Mi ricollego alla questione progetti solisti che accennavi poco fa: gli unici dischi esclusivamente tuoi usciti finora sono B-boy maniaco e un altro lavoro con Irma Records, Crescendo – The dark side of funk. Come mai?
I: Sono stato travolto dagli impegni come produttore: oltre agli album con i Colle Der Fomento, La morte dei miracoli di Frankie HI-Nrg (i cui beat sono stati prodotti con la preziosa collaborazione di Julie P), Banditi degli Assalti Frontali, Metamorfosi di liriche di Malaisa… Era impossibile concentrarsi anche sullo scrivere. Nel corso degli anni ho comunque fatto uscire qualcosina, magari in free download. Oggi come oggi, invece, ogni tanto faccio un pensierino sull’idea di pubblicare un nuovo album solista: stiamo valutando le varie possibilità. Sarebbe una sorta di evoluzione di B-boy maniaco, chiaramente, perché i contenuti che mi stanno a cuore sono ancora quelli. Rap sociale, umanitario, senza colori: pur avendo una mia idea politica, voglio che le mie canzoni non siano politicizzate, ma della gente.
B: Già: hai sempre dichiarato di volerti astenere dal rap politico, o meglio, da quello politicizzato. Nel libro di Damir Ivic Storia ragionata dell’hip hop italiano c’è una teoria molto interessante riguardo alle posse: potevano rendere unico l’hip hop italiano, ma alla lunga l’hanno cannibalizzato, accentrando tutta l’attenzione su di sé e convincendo l’opinione pubblica che il rap era solo di un movimento di protesta sociale. Sei d’accordo?
I: È un’analisi giusta, ha centrato perfettamente il problema. Certo, è stato tutto molto più morbido e spontaneo di come potrebbe sembrare a posteriori: certe cose succedevano perché succedevano, senza voglia di imporre la propria visione, anche se all’epoca molti di coloro che cominciavano a fare hip hop non politico la vivevano in questo modo. Diciamo che si trattava di due sotto-scene che procedevano spalla a spalla, in parallelo, e gli esponenti più intelligenti di entrambe non si facevano problemi a confrontarsi e mescolarsi. Il fenomeno delle posse non è stato né un bene né un male: la difficoltà vera è stata dal punto di vista pratico. All’epoca io cercavo di mantenermi solo con la musica, e subire la concorrenza di crew di 8/10 persone che andavano a suonare nei centri sociali esclusivamente per il rimborso spese era davvero difficile… (ride)
B: Progetti futuri?
I: Parto da quelli presenti: usciranno moltissimi miei lavori con artisti emergenti. Lord Madness, Rata da Torino, Tommy Sparda dalla Sicilia… Sto anche collaborando con i Giuda Fellas, una nuova formazione romana che include anche Fetz delle Scimmie del Deserto. Ho anche fatto un remix ad Ensi per una raccolta che uscirà a breve. Probabilmente – non di sicuro, ma c’è la volontà da entrambe le parti – ci saranno alcune mie tracce nel nuovo album dei Colle der Fomento. Ci siamo riavvicinati dopo tanto tempo: non c’era mai stata una rottura definitiva tra di noi, ma solo un allontanamento, dovuto anche a un mio periodo un po’ difficile, che chiaramente ha influenzato anche la musica, da cui mi ero preso una pausa per qualche tempo. Inoltre, come dicevamo prima, sto valutando l’idea di produrre un mio nuovo album solista, che sicuramente si avvarrebbe della collaborazione anche di altri produttori. Magari ragazzi che sono cresciuti con me, che negli anni hanno imparato tanto e sono diventati ottimi beatmaker: mi piacerebbe molto rappare su strumentali di altri, se gli altri sono loro.