Il suo primo album ufficiale, Non erano fiori, uscirà l’11 giugno, ma Coez è già un nome parecchio conosciuto nella scena hip hop romana e non solo, grazie alla sua militanza nei Brokenspeakers e a ottimi lavori solisti come il recente EP Senza mani. Tuttavia, chi ascolterà il disco per la prima volta (noi l’abbiamo già fatto in anteprima) non si aspetti di sapere già cosa ci troverà dentro. Il rapper – o forse sarebbe il caso di dire ex rapper e neomusicista – ha infatti intrapreso una strada ancora poco battuta in Italia, trasformando l’hip hop in qualcos’altro che è molto difficile definire a parole. L’unica cosa che possiamo dire per rendere l’idea è che il primo singolo, Hangover, è perfettamente rappresentativo di quello che sarà l’album: basi strumentali, incastri lirici che si avvicinano più a un cantato che a un rappato, atmosfere soft e scanzonate da primo giorno di primavera. La produzione è interamente affidata a Riccardo Sinigallia, che anche se abitualmente si muove in ambito cantautorale ha già lavorato a ottimi progetti hip hop, come parte de La Comitiva e come produttore di La Morte dei Miracoli di Frankie Hi-NRG. Il risultato è molto piacevole all’ascolto, ma senz’altro ci vuole una mentalità piuttosto aperta per arrivare a questa conclusione, nonché per accettare la trasformazione di uno dei più promettenti mc italiani in un futuro fenomeno pop da classifica. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Coez nella sede milanese della Carosello Records, la storica etichetta che l’ha “adottato”, per parlare di trasformazione, o meglio, di rinascita.
Blumi: Prima domanda d’obbligo: ti aspettavi questo contratto con Carosello Records, etichetta che ha già diversi artisti hip hop tra le sue fila?
Coez: Aspettarmelo proprio no, sarebbe un po’ presuntuoso da parte mia dire il contrario: diciamo che speravo che prima o poi la musica sarebbe diventata il mio lavoro, e sono stato molto contento quando ho ricevuto la telefonata della Carosello, che ha una lunga tradizione di cantautori italiani alle sue spalle (tra gli artisti che in passato hanno militato nella label ci sono Domenico Modugno, Giorgio Gaber, Vasco Rossi e molti altri, ndr). Inoltre è un’etichetta indipendente, e questo influenza in positivo il tipo di rapporto che hai con i tuoi “capi”. Quando ho visto che un artista come Emis Killa ha firmato per Carosello ho pensato che fosse la cosa migliore in assoluto che potesse fare, perciò a maggior ragione quando è toccato a me ho fatto questa scelta in maniera molto convinta.
B: Come hai conosciuto Riccardo Sinigallia e che tipo di lavoro avete fatto insieme?
C: A livello artistico, ovviamente, avevo ben presente chi era, ma non lo conoscevo personalmente prima di iniziare a lavorare con lui: è stata l’etichetta a metterci in contatto. Diciamo che ci siamo venuti incontro a vicenda. Lui non avrebbe mai scelto di lavorare a un disco canonicamente hip hop: quando ha ascoltato i miei primi provini ha capito che c’era senz’altro un retaggio rap nella mia musica, ma che allo stesso tempo stavo cercando di distaccarmi dai suoi stilemi classici. Sta di fatto che è un grande conoscitore e appassionato di questa musica, anche se nella vita fa musica pop. Quando parlo di rap con lui lo trovo sempre molto aggiornato e informato: io amo molto la golden era degli anni ’90, ad esempio, e lui conosce molto bene tutti i miei riferimenti artistici, perciò si può dire che parliamo davvero la stessa lingua. Era la persona ideale per accompagnarmi in un percorso che, partendo dall’hip hop, si dirigeva una tappa diversa e successiva.
B: Ecco, a proposito di questo: perché hai deciso di intraprendere questo percorso?
C: Non l’ho deciso, è successo. Prendi Fenomeno mixtape: secondo me lì ci sono già tutti gli elementi che saranno presenti nel mio nuovo album, anche se magari utilizzavo beat hip hop o elettronici. Poco tempo dopo ho scritto Ali sporche, che all’inizio doveva essere una canzone rap, ma più la perfezionavo e meno mi sembrava tale: è stato solo quando ho cominciato a lavorarci su con Riccardo che ho capito davvero di che cosa si trattava.
B: In sostanza, è stato un processo in divenire…
C: Esatto: a dire il vero neanche me lo aspettavo, che gli eventi avrebbero preso questa piega. Quando ho dato Ali Sporche a Riccardo era registrata su una qualsiasi base: lui me l’ha suonata accompagnandola con il piano e l’ho sentita aprirsi completamente, in una maniera quasi commovente. Mi sono esaltato tantissimo! E alla fine di tutto questo lavoro paradossalmente i pezzi che amo di meno, nel mio album, sono proprio quelli più rappati. Mi piace molto l’idea di aver fatto qualcosa di completamente nuovo, che non ha una vera e propria collocazione.
B: Tra l’altro, con tutte le distinzioni del caso, il tipo di operazione che hai portato avanti tu con Non erano fiori ricorda un po’ quella di Nesli (anche lui peraltro sotto contratto con Carosello Records). Ti riconosci in questo paragone?
C: Anche Nesli è uno che viene dal rap e si è trasformato in un artista di un genere non meglio classificato, quindi il paragone ci può stare. Chiaramente c’è parecchia differenza tra i nostri stili di scrittura e interpretazione, ma il percorso in effetti è simile. Lui, però, è molto più pop, mentre io cerco di creare un mix tra rap, cantato ed elettronica. Un ibrido assurdo, insomma! (ride)
B: Che tipo di musica ascolti di solito, e che tipo di musica ti ha ispirato per l’album?
C: Al momento l’hip hop americano non mi soddisfa molto: da qualche anno ascolto molta musica elettronica strumentale, fatta perlopiù da gente che arriva dall’hip hop. Ad esempio Hudson Mohawke, oppure i Ratatat, un duo formato da un produttore hip hop e un chitarrista in cui la chitarra funge da melodia principale al posto della voce. Insomma, tutta gente che come me aveva un background di un certo tipo ma si è poi evoluta in un’altra direzione. Raramente, comunque, ascolto album interi: preferisco cercarmi i singoli brani che mi piacciono e compormi una mia playlist.
B: Sei straordinariamente intonato per essere un rapper. Avevi mai provato a cantare prima?
C: Ad ogni nuovo disco a cui lavoravo cercavo di alzare ulteriormente di una tacca l’asticella del cantato. Anche nei Brokenspeakers ero sempre io ad occuparmi dei ritornelli, che definivo “intonati”, più che cantati. Non credo di avere una gran voce, comunque: tutto si basa sul mio timbro e su melodie apparentemente istintive che tutti potrebbero provare a rifare. In realtà c’è un grande studio dietro a quelle melodie, comunque.
B: Li giudichi ancora in qualche modo dei pezzi rap, o sono già qualcos’altro?
C: Sono sicuramente qualcos’altro, ma credo che abbiano conservato l’aspetto più bello del rap, ovvero il linguaggio urban e l’utilizzo delle esperienze personali, anche le più piccole, in cui la gente riesce a riconoscersi: quel tipo di poesia cruda che è stata poi la cosa che mi ha fatto innamorare dell’hip hop, e che ha formato la mia scrittura nel tempo. Chi mi segue da anni riconoscerà senz’altro quell’impronta all’interno del mio nuovo disco; chi non mi conosce, invece, potrebbe appassionarsi alla mia musica indipendentemente dall’hip hop.
B: Che differenza c’è, a livello di lavoro di scrittura, tra lo scrivere per una canzone rap e lo scrivere una canzone più tradizionale?
C: La differenza sta soprattutto nel modo in cui tiri fuori le tue emozioni. Quando scrivevo rap ero alimentato soprattutto dalla rabbia: c’era più foga e più ansia anche nel momento stesso in cui scrivevo. Oggi, invece, c’è una vibrazione molto più positiva, che si basa sul feeling tra alcune parole e un certo giro di accordi. E ovviamente sto più attento alla melodia, alle pause, all’intonazione…
B: L’album è molto ricco di canzoni d’amore. Sono venute spontaneamente, o sono arrivate perché un album che strizza l’occhio al pop ne richiede tante?
C: Non so se sono venute spontanee con questo tipo di disco, o se al contrario questo tipo di disco mi è venuto spontaneo perché avevo bisogno di esprimere quel tipo di emotività.
B: Il disco non è ancora uscito, ma ovviamente è già prevedibile che potrebbe a) spiazzare i tuoi fan di prima, b) attirare una tipologia di fan che non hai mai avuto in precedenza, come un pubblico di ragazze molto giovani. Come credi che verrà recepito il tuo progetto?
C: Sono convinto che piacerà anche a un pubblico più ampio, ma allo stesso tempo sono anche convinto che i fan di Coez, che mi seguono per quello che scrivo e non perché rappo, non resteranno delusi. Alle ragazzine, onestamente, non ci penso, e non so come reagirò se e quando succederà. Spero solo di poter continuare a dividere la dimensione pubblica e live dalla mia vita privata, e di poter continuare a condurre la mia esistenza solitaria di sempre! (ride)
B: Come funzionerà, invece, il tuo rapporto con i Brokenspeakers?
C: Abbiamo dichiarato lo scioglimento dei Brokenspeakers, perché siamo tutti molto presi dai nostri progetti solisti. Non necessariamente quelli musicali, nel senso che come gruppo avevamo deciso di non trasformare la musica in un lavoro, e quindi ciascuno di noi aveva impegni e progetti impegnativi che esulavano dal rap. Tutti noi, comunque, continueremo a fare musica e a collaborare in amicizia quando capiterà l’occasione. Non so se, per quanto riguarda me, quella musica sarà hip hop: può anche darsi che un domani scopra che non sono più capace di scrivere un pezzo rap. Se non sei più stimolato a fare qualcosa, decade anche l’abilità a farlo. O al contrario, potrebbe darsi che a furia di allontanarmi dal rap, dopo questa pausa di riflessione io me ne innamori di nuovo…
B: Insomma, il tuo prossimo lavoro potrebbe essere simile a questo, oppure rap, oppure un’altra cosa ancora…
C: Io penso che sarà un’altra cosa ancora! (ride) Onestamente non credo che farò un altro disco rap, comunque: non lo disdegno affatto come genere musicale, ma credo che al momento per me sia meglio sperimentare. Mai dire mai, però.
B: Di solito chiudiamo ogni intervista chiedendo i progetti futuri, ma visto che Non erano fiori è di fatto un progetto futuro (ricordiamo che esce l’11 giugno, ndr), ti chiedo come saranno strutturati i tuoi live.
C: Ci stiamo pensando in questi giorni: di sicuro ci sarà sia una formula più semplice, solo con un dj, e una un po’ più articolata, in cui il dj sarà affiancato da musicisti che suoneranno dal vivo. Chiaramente all’inizio non mi presenterò con fiati e pianoforti, ma in futuro mi piacerebbe anche sperimentare quel tipo di set. Più avanti ci proveremo.