La nostra intervista a R.A. The Rugged Man potrebbe benissimo essere sottotitolata “La storia infinita”. Tutto comincia un anno fa, quando R.A. annuncia il suo tour italiano e noi chiediamo al promoter la possibilità di intervistarlo: dopo una trafila lunghissima finalmente otteniamo un sì da tutto lo staff, ma all’ultimo momento R.A. annulla tutti gli incontri con la stampa per questioni personali improrogabili. Ci rassegniamo alla triste evidenza che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un rapper in tour faccia promozione (un giorno scriveremo un libro o una teoria matematica sull’argomento) e ci dimentichiamo completamente di quell’intervista. All’improvviso, però, un paio di settimane fa ci arriva una mail in cui si intravede la possibilità di intervistarlo di nuovo, stavolta via Skype: rispolveriamo volentieri le domande preparate all’epoca, ne aggiungiamo qualcuna nuova e, dopo un po’ di tentativi per trovare il fuso orario giusto e il momento più adatto, riusciamo finalmente a metterci in contatto con lui, che ci accoglie in collegamento dal suo salotto di New York. La cordialità della conversazione e la sua attenzione ai dettagli ci danno davvero l’idea di essere lì con lui: è elegantissimo nel suo cappello simil-Borsalino e la webcam è strategicamente posizionata per inquadrare anche la foto di Muhammed Ali che campeggia alle sue spalle. Il risultato della chiacchierata è la bella intervista che ne segue. È doveroso ricordare che il 5 aprile R.A. The Rugged Man suonerà a Bologna e che il 30 aprile esce il suo nuovo album Legends never die, così come è doveroso ringraziare la BPM Recordings per aver costruito questo ponte tra le due sponde dell’oceano atlantico. Le domande del seguente articolo sono di Reiser, che doveva realizzare la primissima intervista di cui sopra, mentre le risposte sono state raccolte e trascritte da Blumi, che l’ha materialmente realizzata.
Blumi: Partiamo dalla tua adolescenza a New York negli anni ’80, che è ancora in parte avvolta dal mistero. Ci racconti qualcosa di come sei entrato in contatto con l’hip hop e di come successivamente hai deciso di diventare un rapper?
R.A. The Rugged Man: Long Island, dove sono cresciuto io, aveva una scena rap grandiosa negli anni ’80; abbiamo conquistato il mondo all’epoca! (ride) Verso la fine della decade tutti i più grandi rapper venivano da lì: Rakim – che è considerato il migliore mc di sempre – Chuck D e Flavor Flav dei Public Enemy – che sono considerati il miglior gruppo hip hop di sempre – i De La Soul, gli EPMD, Prince Paul, Freddie Foxxx… All’epoca ero un ragazzino e osservavo tutti questi artisti fantastici della nostra zona che si facevano strada e diventavano sempre più grandi, giorno dopo giorno. L’hip hop lo avevo scoperto tramite un mio amico del quartiere un po’ più grande di me, un vero casinista: faceva beatbox e io avevo iniziato a scrivere rime, e pian piano mi sono reso conto che stavo diventando molto più bravo di tutti quelli con cui mi confrontavo. Ovviamente non ero più bravo dei rapper professionisti, visto che all’epoca avevo solo quattordici anni, però mi accorgevo di essere migliore di tutti i rapper del vicinato, quelli che lo facevano per passare il tempo. Così dai cypher in strada sono passato a fare sfide e battle un po’ più serie ai party, a cui mi accompagnava sempre questo mio amico, e ho cominciato a farmi conoscere tra gli mc locali. Era una strana sensazione, però, perché non c’era nessun altro bianco a parte me e il mio beatboxer! (ride)
B: C’è una strettissima relazione tra la golden age dell’hip hop e New York. Oggi le cose sono molto cambiate in città: credi che queste differenze abbiano in qualche modo influenzato anche il modo di fare rap?
R.A.: Un sacco di cose sono cambiate, in effetti. Negli anni ’90 il sindaco Giuliani ha cambiato faccia alla città con la sua politica di tolleranza zero: ovviamente la criminalità in strada c’è ancora, ma il grosso è stato estirpato, contribuendo anche a salvare molte vite. Negli anni ’80 l’ispirazione per il rap arrivava dalla povertà, dalle strade, dallo struggle, da quello che ti capitava di vedere tutti i giorni nel tuo quartiere. Le donne venivano violentate nei parchi, c’era gente strafatta di crack e di eroina o che moriva di Aids per strada, prostitute e spacciatori erano ovunque… Tutto quello che vedi nei film dell’epoca a New York succedeva veramente, ma ora è una città completamente ripulita. Ovviamente questo ha cambiato in qualche modo il cuore e l’anima della città, ma credo che il fatto che New York sia un posto più sicuro sia comunque una svolta positiva. La cosa, però, ha avuto delle conseguenze. Un tempo avevamo i più grandi campioni di boxe, come Mike Tyson o Sugar Ray Robinson, che erano cresciuti facendo a pugni nelle strade di Harlem: abbiamo perso un bel po’ di supremazia rispetto a questi aspetti, e la stessa cosa succede con il rap. Eravamo i migliori liricisti del mondo, e per le prime due decadi dell’hip hop siamo stati noi gli artefici di tutto ciò che aveva a che fare con questa cultura. Adesso abbiamo perso la leadership.
B: Dopo il tuo album come Crustified Dibbs (il precedente aka di R.A., con cui ha debuttato giovanissimo sotto Jive Records, ndr) hai fatto una lunga pausa di riflessione. Hai dichiarato che si è trattato di uno dei periodi più bui della tua vita. Ovviamente, visto che siamo qui a parlarne, le cose sono migliorate…
R.A.: La vita può metterti al tappeto, lo fa con tutti noi. A volte, quando sei giovane, non sei abbastanza forte per riuscire a fare i conti con tutto questo: ti tirano un paio di colpi sotto la cintura e tu non riesci a reagire e esci di testa. Ovviamente non sempre la situazione è davvero così seria: quando sei giovane qualsiasi cazzata sembra un fottuto, enorme problema. Perdi un po’ di soldi e all’improvviso cominci a pensare che sei povero, che sei un fallito, che non troverai mai più un lavoro… E lo stress ti travolge. Prova a pensare a una ragazza del liceo che viene mollata dal fidanzatino: a lei sembra che la sua vita non sarà mai più la stessa, ma a chiunque la guardi dall’esterno è evidente che quel tizio è solo un minuscolo frammento della sua esistenza, e che avrà un brillante futuro davanti a sé anche senza di lui. Io ho ottenuto il mio primo contratto discografico a diciotto anni, e quando sono incominciati i primi problemi tutto mi sembrava tragico e insormontabile. Era come se il mondo mi stesse crollando addosso. Un paio di anni dopo, ripensando a quel periodo, ovviamente ho imparato a mettere le cose in prospettiva: sono in salute, ci vedo, ci sento, posso correre, il mio cazzo funziona… Non c’è null’altro che si può desiderare dalla vita, se capisci cosa intendo. Qualcuno vorrebbe avere di più: macchinoni, ville, proprietà. Io non ho nulla di tutto questo, ma comunque penso che la vita sia stata molto buona con me. Molti dicono che sono sempre stato sottovalutato, che avrei potuto ottenere molto più successo di quanto ne ho effettivamente avuto, che sarei potuto essere ricco come Eminem o Snoop, ma io sono felice così: sono sempre riuscito a mantenermi con la musica, gli unici lavori “normali” che ho avuto erano quelli che facevo da ragazzino per riuscire a racimolare qualche spicciolo. Se mi lamentassi meriterei davvero di morire, perché ho avuto tutte le fortune.
B: Fin dal 2004, quando hai pubblicato il tuo primo album come R.A. The Rugged Man, è stato immediatamente chiaro a tutti che avevi un bagaglio di esperienze e un senso dell’umorismo un po’ sadico che ti rendevano davvero unico. Come sarà il tuo prossimo lavoro, Legends never die?
R.A.: Ci saranno un sacco di differenze con i miei precedenti progetti perché, si sa, nella vita si cambia. Il primo album, quello che pubblicai con Jive come Crustified Dibbs, era il lavoro di un ragazzino molto arrabbiato e pieno di odio: detestavo il mondo intero all’epoca, e le mie rime erano una sequela di “Voglio ucciderti, non ti sopporto, ti farò a pezzi” e via dicendo. Il mio secondo album, American low life, uscito per Priority Records, era più sul mood “Sì, lo so, sono un perdente, ma fanculo a tutti, sono felice di essere il cazzone che sono”. Die, Rugged Man, Die, invece, era sul tipo “Okay, non sono più così incasinato, pian piano sto guarendo, ma lasciate che vi racconti tutto quello che ho passato fino ad oggi, così capirete che non sono cattivo, sono solo un tizio che è caduto malamente e che è riuscito a rialzarsi”. Nel prossimo album, invece, penserò soprattutto ad essere me stesso, a sputare rime e a far scorrere il flow, parlando di molti argomenti diversi ma sempre nel segno della cultura hip hop. Voglio concentrarmi sull’essere unico come mc: il vero obbiettivo di Legends never die sarà dimostrare che sono un mc flessibile e versatile e che sono maledettamente bravo in quel che faccio. Ci saranno un paio di pezzi molto throwback, tra cui anche uno con Eamon, che dovreste conoscere, perché con una sua canzone era arrivato al n°1 anche in Italia (la canzone in questione è Fuck it, del 2003, ndr). È venuto in studio e ha registrato della roba molto perversa, quasi da maniaco sessuale: siamo stati molto espliciti in quelle liriche, come sentirete. Ma ci saranno anche dei brani più politicizzati, in cui si parla della mia visione del mondo, così come canzoni molto personali e pezzi comici. Ho voluto mescolare molto le carte, per non dare un solo stile né un solo sound al disco.
B: La tua tanto attesa nuova collaborazione con Kool G Rap sarà nell’album o dovremo aspettare ancora un po’ per sentirla?
R.A.: Abbiamo già registrato due canzoni in passato e all’inizio sembrava dovessimo inciderne una anche per questo, ma ormai il disco è chiuso, perciò ne riparleremo al prossimo giro. Però un paio di mesi fa ho registrato un pezzo con Rakim per una colonna sonora, e quello è stato un altro mio grande sogno che si è avverato: avere all’attivo collaborazioni sia con Kool G Rap che con Rakim è meraviglioso. Sempre con Rakim avevamo parlato di fare una seconda canzone insieme appositamente per il mio album, ma non siamo riusciti a terminarla in tempo per inserirla. Per ora ho registrato la mia strofa e gliel’ho mandata, e lui ha fatto lo stesso con la sua. Probabilmente la inserirò nel mio prossimo progetto.
B: Secondo te alla musica rap di oggi manca qualcosa?
R.A.: Ti dirò che cosa manca secondo me: gente con le palle che si occupi di produzione e marketing. Negli anni ’90 ad esempio esisteva questo tizio di nome Steve Rifkind che era a capo della Loud Records, e lui le palle ce le aveva eccome: ha preso un gruppo come i Wu-Tang Clan, che più underground di così non si poteva – erano talmente sotterranei che avevano registrato l’album in una cantina, per dire – e ha dato al loro Enter the Wu un budget e una promozione da major, trasformandoli in un enorme successo. Certa musica underground è talmente bella che se la porti all’attenzione di tutti, anche il pubblico mainstream se ne innamorerà, solo che non tutti hanno il coraggio di provarci, perché preferiscono andare sul sicuro. Quando Rifkind mise sotto contratto i Wu-Tang, la west coast non si filava proprio quel tipo di sound sporco e newyorkese: lui, però, come prima cosa si mise a promuoverlo testardamente per sedici settimane consecutive in California, per assicurarsi del fatto che, sfondando perfino lì, si sarebbe trasformato in un fenomeno pop. L’hip hop ha bisogno di persone così, volenterose e intelligenti, che riescano a fare in modo che gli album rap siano ascoltati dalla massa di gente che meriterebbero come pubblico. Ci sono tantissimi artisti validi là fuori, ma la maggior parte dei finanziamenti finiscono a supportare artisti debolissimi che alla fine si prendono tutta la gloria.
B: Ecco, a proposito di questo: molto spesso, quando alcuni leggendari artisti hip hop vengono in tour in Europa, nonostante abbiano ottenuto un successo enorme negli anni della golden age raccontano di situazioni economicamente disastrose. In certi casi sembra che sia difficile per loro riuscire ancora oggi a vivere di musica…
R.A.: Non penso sia così: io non ho nessun altro lavoro a parte la musica e, quando le cose si fanno dure, mi limito a lavorare ancora più duramente. L’hip hop è la mia vita, ed è così che porto il pane in tavola e sopravvivo. Nei periodi di difficoltà la soluzione è impegnarsi molto più del normale: piuttosto aggiungi dozzine di date al tuo normale tour e ti fai il culo. Molti artisti della golden age all’epoca erano abituati a grandi budget e a grandi riscontri economici, e magari si beccavano anche 25.000 dollari per ogni concerto. Ora, ovviamente, tutti i compensi sono stati ridimensionati, e ottengono la metà della metà di quel cachet. Secondo me quei rapper dovrebbero cominciare a pensare di ridimensionare le proprie spese, in modo da riuscire a vivere ancora di musica e mantenere degnamente le proprie famiglie: ad esempio dovrebbero tagliare lo staff e andare in tour solo con il proprio dj. Se ti fai un centinaio di show in questo modo, i tuoi figli dovrebbero essere a posto per un paio d’anni! (ride)
B: Cosa pensi invece degli artisti di nuova generazione come Kendrick Lamar, Smoke DZA, Action Bronson o Clams Casino? Ti piace il loro sound?
R.A.: Alcuni degli artisti che hai nominato mi piacciono, altri penso siano un po’ sopravvalutati.
B: Quali sono quelli sopravvalutati?
R.A.: Non farò nomi, perché tutti lavorano sodo per fare musica e tutti hanno i loro fan, perciò non voglio creare casini. C’è una persona in particolare che penso sia sopravvalutata, che sicuramente è un essere umano meraviglioso, e mi sono trovato anch’io nei suoi panni, perciò da una parte lo capisco. In ogni caso penso che emergere oggi dipenda soprattutto dal marketing e dalla promozione. La maggior parte degli esempi che hai nominato hanno degli investimenti importanti alle loro spalle, tipo Kendrick Lamar: la gente pensa che sia il migliore in quel che fa, ma indipendentemente dal fatto che sia vero o no ha Dre e tutta la Interscope a supportarlo, ed è talmente sotto i riflettori in questo periodo che tutti sono portati a dire che Kendrick Lamar è il rapper migliore di tutti. Non sto dicendo che non sono d’accordo con questa affermazione, e neanche che sono d’accordo, ma solo che la sua musica è stata presentata al mondo nella maniera giusta. È per quello che prima dicevo che ci vorrebbero più addetti ai lavori in grado di promuovere i progetti hip hop.
B: Stai anche lavorando a un’autobiografia. La pubblicherai presto o la stai solo scrivendo, per ora?
R.A.: Speravo sarebbe stata pronta per l’uscita di Legends never die, ma Chaz Kangas (il giornalista con cui sta lavorando alla stesura del libro, ndr) mi sta ancora mandando le bozze un po’ per volta, e io devo concentrarmi sulla promozione dell’album, non ho tempo per occuparmi di altro. Quando avrò terminato la promo, uscirà anche l’autobiografia.
B: Ma sarà incentrata solo sulla tua carriera o parlerà della tua vita in generale?
R.A.: Se scrivo un libro, deve parlare di tutta la mia stramaledetta vita! (ride) Mi sono successe un sacco di cose assurde, molto più assurde di quelle che capitano a una persona normale. Ad esempio la storia dell’agent orange, che ha contaminato mio padre in Vietnam e ha modificato i geni della mia famiglia: i miei fratelli sono nati ciechi, incapaci di camminare e parlare, e pian piano li ho persi tutti. Praticamente già solo questo potrebbe essere un libro a sé… Se poi aggiungi la mia carriera come attore, quella nella musica e quella nella boxe, penso che ne verrà fuori del gran materiale!
B: In pratica potresti scrivere una saga, anziché un singolo libro…
R.A.: Già, e la gente penserebbe a un’opera di fantasia. Per quanto ne sanno loro potrebbe benissimo trattarsi di uno spin-off di Star Wars, tanto sembra inverosimile tutto quello che mi è successo. Ma giuro che è tutto vero.
B: Hai anche annunciato che vorresti girare un documentario su tuo padre. Ci stai già lavorando?
R.A.: La produttrice ha ottenuto i soldi per girare una versione da 20 minuti appena, idea che non mi piace molto. Lei, però, dice che è un’ottima cosa, perché se la preview piace potremmo avere i finanziamenti per girarlo per intero. Io invece preferirei mettere insieme una squadra e girare l’intero fottuto film…