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Nto’: l’intervista

22-03-2013 Marta Blumi Tripodi

Nto’: l’intervista

Quando è arrivato l’annuncio dello scioglimento dei Co’Sang, esattamente quattordici mesi fa, per i fan è stato un fulmine a ciel sereno. Ciò che preoccupava di più il pubblico era soprattutto l’incertezza sul futuro dei due componenti, Nto’ e Luché: le loro carriere soliste sarebbero mai state all’altezza di quella collettiva? E la decisione di tentare la via del rap in italiano, presa poco prima della separazione, sarebbe stata abbandonata o perseguita fino alla fine nonostante tutto? Qualche risposta, parecchio confortante, è arrivata dal disco solista di Nto’, Il coraggio impossibile, che è uscito da un paio di settimane appena, ma è già riuscito ad impressionare per la sua complessità e profondità. E’ un disco musicale, pieno di sfaccettature e contributi strumentali, da scoprire ascolto dopo ascolto; per struttura e atmosfera, alla sottoscritta ricorda molto lo Speaker Cenzou di Malastrada. Napoletano e italiano convivono pacificamente e in maniera funzionale e coerente, e per la sua ricchezza di anime diverse è facile innamorarsene anche per chi di solito non ascolta (o non ama) l’hip hop. Insomma, la strada non è certo quella precedentemente intrapresa con i Co’Sang, ma Nto’ sa dove vuole andare e sicuramente arriverà molto lontano. Lo abbiamo incontrato a Milano a pochi giorni dall’uscita del disco, per parlare della sua musica, della sua città e del suo quartiere, della sua storia e di quanti passaggi ci vogliono per realizzare un disco complesso e intricato come il suo. (Si ringrazia Luca Malatesta per l’integrazione alle domande)

Blumi: Partiamo dalla copertina, che si rifà al quadro di Michelangelo Il tormento di sant’Antonio: da dove arriva l’idea, e perché i tuoi demoni sono polizia, famiglia e politici?

Nto’: Come dicevi mi sono liberamente ispirato al tormento di sant’Antonio di Michelangelo. Per richiamare il suo dipinto, tutti i personaggi che mi circondano nella copertina hanno un elemento animale: una coda, delle ali, delle zampe da pollo… Il quadro lo ha realizzato una pittrice polacca mia amica, Monica Natalia Mazur: ci tenevo che il cd fosse un bell’oggetto da possedere, visto che ormai quelli che li comprano sono pochi il loro sforzo va premiato. In realtà il terzo che nomini non è un politico, ma un discografico, uno di quei businessman un po’ burocrati che niente hanno a che fare con la creatività della musica. Diciamo che i personaggi dipinti non rappresentano necessariamente dei demoni, ma piuttosto delle preoccupazioni: la famiglia, ad esempio, per tutti noi è spesso motivo di apprensione, nel bene e nel male. Poi c’è anche un fan che mi chiede l’autografo, che invece incarna tutte le aspettative della gente rispetto al mio primo disco solista. La divisa, invece, è semplicemente un simbolo di repressione: personalmente non ho nessun problema con le forze dell’ordine, ma vivendo nel mio quartiere vedo una massiccia presenza dello stato tesa più alla ricerca di una legalità ostinata che alla risoluzione di un problema. E la legalità ostinata dove abito io non ha senso: se devi combattere la camorra e evitare fatti di sangue, che c’entra occupare militarmente la zona per andare a fare i controlli nei bar e scoprire se i camerieri sono in nero? È inutile essere fiscali, perché è evidente che l’unico lavoro disponibile dalle nostre parti è in nero, e oltretutto spesso i dipendenti non vengono messi in regola perché farlo costa troppo.

B: Negli ultimi anni hai affrontato parecchi cambiamenti, tra cui uno personale molto significativo: hai perso tuo padre. In che modo tutto questo ha influenzato la tua musica?

N: Il distacco lo vivi davvero una sola volta, la prima; dopo, forse, sei già preparato al fatto che le cose brutte accadono. In un mondo dominato da finzione e social network, quando ti capita una cosa del genere ti ritrovi catapultato di colpo nella realtà: e, come dico spesso io, la realtà è ancora più vera di come te la immagini. La morte di mio padre mi ha influenzato tanto soprattutto dal punto di vista della pragmaticità: mi ha spinto a lavorare a quest’album in modo più concreto, e infatti dopo lo scioglimento dei Co’Sang ci ho messo solo un anno a realizzarlo, assumendo la direzione artistica totale del progetto. Però mi ha anche in qualche modo limitato: se non fosse successo magari mi sarei trasferito a Milano, che è la città dove a livello discografico hai più possibilità di emergere. Negli ultimi due anni non mi è stato possibile, perché non potevo lasciare sole mia madre e mia sorella. Ho approfittato di questo momento di stallo per lavorare il più possibile: la produzione in studio la puoi fare ovunque, e se la fai a casa tua è anche meglio, perché sei più tranquillo.

B: Un’altra delle grandi sfide che hai affrontato è stata introdurre l’italiano all’interno della tua produzione. Domanda un po’ antipatica: lo hai fatto perché ti sentivi in qualche modo costretto dal mercato discografico?

N: Indubbiamente sì. Credo che sia necessario essere onesti, quando si parla di queste cose: se non fossimo stati condizionati da fattori esterni, magari esisterebbero ancora i Co’Sang. Il napoletano è praticamente bandito dalle radio, salvo pochissime eccezioni. Commercialmente noi non abbiamo avuto il riscontro che, oso dire, meritavamo: penso che ci siano circa 100.000 copie di Chi more pe’mme in giro, ma sono pezzotte, come diciamo noi, ovvero tarocche. Ufficialmente non è un disco che ha venduto tantissimo, anche se è un disco di culto. La cosa è dipesa da molti fattori: iniziava a sentirsi la crisi del mercato discografico, noi non eravamo pronti a livello di marketing e di e-commerce e iTunes praticamente non esisteva ancora. Il diktat tra le etichette, oltretutto, era davvero forte: era necessario che noi scrivessimo in italiano per avere un contratto, e il napoletano ci ha letteralmente tagliato fuori da qualsiasi possibile investimento nei nostri confronti. D’altra parte, però, penso che scelte obbligate a parte ci saremmo comunque evoluti verso l’italiano, anche perché io mi sentivo molto limitato: è frustrante scrivere un pezzo a cui magari tieni tanto e constatare che un ragazzo che abita a 200 km da te, anche se può apprezzare flow e metrica, non capisce quello che dici. Fermo restando che l’espressione folkloristica è bellissima: il napoletano porta una dinamicità completamente diversa nel rappare, e i tempi che riesco a prendere con il dialetto sono impossibili in italiano…

B: Infatti: è stato difficile ricominciare a scrivere in un’altra lingua, di fatto?

N: Noi avevamo iniziato già da un po’, e grazie a Dio credo di essermi molto evoluto nel tempo. Io scrivo in napoletano dal ’96 (la nostra prima uscita ufficiale come Clan Vesuvio, l’album Spaccanapoli, era del ’97): approcciarti a un altro tipo di scrittura è in parte facile, perché hai già gli strumenti di base del rap, e in parte molto laborioso. L’italiano è una lingua con parole piane, dalle desinenze lunghe, e termina sempre in vocale: la cosa più faticosa è stata sicuramente riadattare il flow. Però ho notato, e questo mi è stato confermato anche dagli altri, che sto riuscendo a dare un po’ di complessità a queste mie nuove strofe. Un ragazzo, ad esempio, ha postato su YouTube un’analisi della mia metrica e dello schema delle rime. E il fatto che quell’analisi arrivi da qualcuno che non viene dalla mia città mi rende molto felice, oltretutto! (ride) Così come mi fanno felici i risultati di vendita, che a giudicare da quanto sono alti sono evidentemente relativi a tutta Italia e non solo alla mia zona. Non credo che avremmo ottenuto quei numeri, se avessi fatto l’album in napoletano.

B: Tra l’altro la tua è un’uscita completamente indipendente, giusto?

N: Esatto, con l’etichetta Stirpe Nova, che però è più un’area di riferimento che una label vera e propria; a livello logistico ci appoggiamo a No Music. Abbiamo fatto un grande sforzo in senso artistico, soprattutto, cercando una via personale all’hip hop e alla musica in generale. Penso che avessimo il dovere di farlo: riproporre la stessa formula di Chi more pe’mme nel 2013 non avrebbe avuto senso.

B: In effetti il mood del disco, ricchissimo di interventi strumentali, è molto musicale e intimista, e si differenzia tantissimo da tutto ciò che hai fatto finora…

N: Ho seguito una procedura alla Mos Def! (ride) Sono un suo grandissimo fan, e la mia intenzione era di ricalcare quel tipo di atmosfera aperta e libera che si respira nei suoi dischi. Mi sono piaciute molto le sonorità uscite di recente, come quelle di Kendrick Lamar, di 2Chainz, o quelle della musica trap, ma per il mio album avevo soprattutto voglia di coinvolgere musicisti “veri”: mio zio Enzo Avitabile, ma anche altri artisti eccezionali meno conosciuti al mainstream. Il pianista Francesco Villani, che ha scritto la frase di piano del pezzo con Enzo; Gianluca Brugnano, un batterista incredibile, che si ispira ad Aaron Pierce e Tony Royster, che suonano con Usher e Jay-Z… Si può dire che Il coraggio impossibile sia un disco realizzato alla vecchia maniera. Ogni dettaglio è stato seguito in maniera personale ed attenta, in modo che abbia un valore intrinseco. Tutte le preproduzioni sono state curate da Valerio Nazo e NTA, due producer di Torre Annunziata e Giugliano che hanno letteralmente plasmato il progetto in base ai miei desideri. In una prima fase abbiamo lavorato in piccole sale d’incisione locali, ma per registrare gli strumenti ho scelto gli studi migliori e i più professionali: visto che non pagavo i turni ai musicisti miei amici, ho voluto che avessero il meglio e ho investito in quello. Ciascuno aveva le sue esigenze: ad esempio Francesco mi ha chiesto di poter registrare in un certo studio perché lì c’era un pianoforte di cui adorava il suono… Per le voci ci siamo spostati in un altro studio ancora: quello di Giuseppe Cozzolino, il mio vocal coach, che è un ottimo sound engineer e ha delle attrezzature che mi piacciono moltissimo, come i preamplificatori Neve. Infine abbiamo preso tutto ciò che avevamo registrato e lo abbiamo portato da Giovanni ‘Blob’ Roma, che ha mixato il disco. Insomma, è stata una trafila molto complessa e costosa: praticamente tutto il budget dell’album l’ho investito nello studio, perché credo che per ottenere un ottimo riscontro bisogna offrire un prodotto all’altezza.

B: Raramente si vede tutto questo sforzo produttivo per un album rap!

N: Volevamo ottenere un disco che suonasse, letteralmente. Purtroppo in Italia si sottovaluta molto questo aspetto. L’idea era di fare qualcosa simile al progetto BlakRoc (supergruppo formato dalla migliore rock band attualmente in circolazione, i Black Keys, e da numerosi ospiti della scena hip hop, tra cui RZA, Mos Def, Raekwon, Nicole Wray e molti altri, ndr), ma meno scuro e brillante. Credo che sia necessario tornare all’ABC della musica: se metti il cd nell’autoradio, deve pompare sul serio. L’ascolto dev’essere un’esperienza extrasensoriale, come il 3D al cinema. Spero che riusciremo a esprimere l’identità e il concept del disco anche dal vivo, anche se dobbiamo ancora capire come strutturare il set che porteremo in giro.

B: Poco fa nominavi il tuo celeberrimo zio Enzo Avitabile (cantautore e sassofonista, è universalmente considerato un maestro ed è idolatrato dalla scena jazz, fusion e world music internazionale, ndr). Che tipo di input ti ha dato per la tua crescita musicale?

N: E pensa che c’è voluto un film sulla sua vita girato da John Demme, il regista de Il silenzio degli innocenti, per portarlo davvero all’attenzione di tutti alla veneranda età di 57 anni! (Il film in questone è Enzo Avitabile music life, ndr) Indubbiamente la sua è stata un’influenza molto forte, crescendo. Eravamo sempre a casa sua, e negli anni mi ha dato tantissime dritte, sia sulla musica in sé che sul music business. È stato molto bravo a non influenzarci, però, perché ha sempre voluto che camminassimo sulle nostre gambe; anche quando debuttammo con i Co’Sang, pur guardandoci con occhio benevolo, preferiva darci consigli e critiche solo in privato. Ha voluto che non cominciassimo la nostra carriera sotto la sua egida, in modo che ci confrontassimo con il mercato in maniera paritaria, e in questo ha avuto ragione. Quando poi finalmente ci siamo affermati per quello che eravamo, abbiamo cominciato a fare davvero un pezzo di strada insieme: ad esempio abbiamo fatto il concertone del primo maggio – l’ultima apparizione ufficiale dei Co’Sang insieme – suonando dal vivo una canzone a mio parere bellissima, Mai cchiù, tratta dal suo album Black tarantella. Il brano è un grido che invita a non restare inermi rispetto alla attuale situazione globale: il ritornello dice più o meno “Gente perbene che avete voluto la pace, se questo è il prezzo da pagare, è uguale alla guerra”. Il brano che abbiamo registrato insieme per il mio album, invece, si intitola Se ti avessi ora e parla del distacco in una storia d’amore. Tra l’altro abbiamo campionato uno strumento stranissimo che possiede Enzo: un sax sopranino, ovvero un minuscolo aggeggio di 40 cm, una via di mezzo tra un sassofono e una ciaramella.

B: Parlando appunto delle singole tracce, sembra che l’intro dell’album contenga vari riferimenti alle liriche di Sfida il buio di Dee’mo. È effettivamente così?

N: Esatto. È un omaggio che ho voluto fare a Dee’mo, perché mi ha aiutato tantissimo: insieme ad Alioscia dei Casino Royale è stato uno degli artisti che più ci hanno sostenuti e consigliati negli anni. È il mio primo lavoro da solista, e volevo pagare tributo a una persona davvero importante per me. In futuro mi piacerebbe anche chiedergli una strofa per il mio disco; non l’ho fatto per Il coraggio impossibile solo perché era un progetto particolare che contiene pochissimi featuring. Ho citato in particolare Sfida il buio, comunque, perché in questo periodo storico il buio è parte integrante delle nostre vite: qualcuno lo identifica con una personalità politica, qualcun altro con la crisi, qualcuno con le misure imposte dall’Europa, però è evidente che c’è.

B: Sempre rispetto ai testi dell’album, forse è un’impressione, ma sembra che traspaia anche un po’ di amarezza nei confronti dell’amore, che tra l’altro è un argomento molto citato…

N: Più che altro traspare un po’ di intermittenza, secondo me, il che rispecchia anche un po’ i miei trascorsi negli ultimi anni. La vita che facciamo oggi è complicata, tanto che non riusciamo a creare dei legami veri con le persone. Nonostante questa precarietà dei sentimenti e delle relazioni, però, nel disco ci sono tanti buoni propositi, ad esempio nella title track Il coraggio impossibile, che parla proprio di questo. Bastano piccoli gesti di buona volontà, ad esempio instaurare un dialogo quando si torna a casa dal lavoro la sera, anziché rinchiudersi nella propria stanchezza e nei propri malumori…

B: Cambiando del tutto argomento, essendo tu napoletano non posso non chiedertelo: di recente Fabri Fibra si è esposto a favore di Saviano nella title track del suo album Guerra e pace, ma molti tuoi concittadini sono fortemente critici nei confronti dello scrittore. Tu come la vedi?

N: Ho apprezzato il gesto di Fabri perché era evidente che si trattava di qualcosa di molto spontaneo. Ha espresso la sua vicinanza e solidarietà umana nei confronti di Roberto Saviano: era come se stesse parlando a lui direttamente. Tutti dovrebbero imparare a esternare liberamente quello che sentono, e la sua sincerità in questo caso è stata molto bella. Riguardo invece alla figura di Saviano a Napoli, la questione è un po’ diversa. Ormai siamo al “gomorrismo” e al “savianismo”, e tutto ciò che diventa una sindrome che finisce in -ismo non va bene. Roberto ha avuto il coraggio di fare pubblicamente determinate denunce, e tutto ciò ha portato a moltissime conseguenze: politiche, umane, sociali… Io, per delicatezza, non mi sono mai sentito di esprimere un’opinione, cosa che spesso ha portato a dei fraintendimenti con la stampa, convinti che noi non appoggiassimo questa sua battaglia frontale contro la camorra. Il punto, secondo me, non è quello. Noi siamo ragazzi cresciuti in un quartiere difficile, dove tuttora vivo, e sappiamo che in una situazione così complessa ci sono logiche di potere e fattori economici che noi cittadini comuni non conosciamo e non comprendiamo: proprio per questo, preferisco non esprimermi. Però mi esprimo volentieri contro l’accanimento che c’è stato contro Saviano in quest’ultimo periodo. Presto Sky girerà nelle nostre zone la fiction di Gomorra, diretta peraltro da Stefano Solima, lo stesso della serie su Romanzo Criminale. Molti cittadini si sono incazzati e, stufi del fatto che di Scampia emerga solo questo aspetto, hanno affisso in giro dei manifesti contro Saviano. Mi sembra assurdo: com’è possibile che la gente non si indigni per le sparatorie e i fatti di sangue, ma si indigni per un telefilm che dipinge la realtà per quella che è? Se noi – e mi ci metto dentro anche io – abbiamo scelto di vivere così, lasciando correre tutto, perché mai dovremmo scandalizzarci se qualcuno viene a girare una fiction sull’argomento? Succedono tutti i giorni cose orribili che passano sotto silenzio…

B: Ad esempio?

N: Tre mesi fa un tizio è entrato in un asilo di Scampia e ha ammazzato uno. Non è una cosa per cui vale la pena essere disgustati pubblicamente? Nel mio quartiere a ottobre hanno ucciso un ragazzo: erano le 13.30, ora di punta a Napoli, e c’erano circa 2.000 persone che entravano e uscivano dalla vicina metropolitana in quel momento. Il ragazzo in questione, che in quel momento stava guidando, è caduto dal cavalcavia con la macchina… La società civile non può accettare una situazione del genere, da narcos del Messico. Se tutti noi accettiamo passivamente l’assunto che basta uscire di casa perché qualcuno possa piantarti una pallottola in testa per sbaglio – come è successo a un altro ragazzo a Marianella, trucidato con 14 colpi perché l’avevano scambiato per qualcun altro – allora dobbiamo anche accettare il fatto che ci sia qualcuno che documenta queste cose, come ad esempio Saviano. Non lo sto difendendo in tutto e per tutto, ma bisogna fare dei ragionamenti lucidi e obbiettivi su questo argomento. E bisogna anche dire che finora nessuno ha fatto i nomi di chi davvero ha alimentato questo sistema e lo ha fatto crescere fino a questo punto: vogliamo parlare di trattative stato-mafia? Napoli è stata abbandonata a se stessa, e le poche forze dell’ordine che sono sul territorio giustamente non hanno voglia di rischiare la vita per 1400 euro al mese. Se come spero dovessero nominare un governo di persone nuove e oneste, vorrei che qualcuno decidesse di cominciare a fare un tentativo di risolvere la cosa con una politica del lavoro seria. Insomma: non parliamo di Roberto Saviano, parliamo di Napoli.

B: Restando sul territorio, cosa pensi della vicenda della Città della Scienza andata a fuoco qualche giorno fa, e del conseguente articolo su Il Foglio in cui si affermava che “dovevano bruciarla prima”?

N: Non ho letto l’articolo, ma credo che la Città della Scienza fosse una bella realtà. Era una specie di museo interattivo dove i ragazzini delle medie andavano in gita per imparare le leggi fondamentali della fisica tramite alcuni esperimenti, giochi e installazioni. Sorgeva in un’ex area industriale dell’ItalSider che nessuno aveva mai voluto recuperare, a Bagnoli, un luogo letteralmente stuprato dallo Stato. È una bella zona, sulla spiaggia, vicinissima a Posillipo, quindi potenzialmente meravigliosa. Negli ultimi trent’anni avrebbero voluto farci di tutto, dai casinò ai grand hotel, ma alla fine non era mai successo niente perché, già prima ancora che partissero i progetti, c’erano stati dodici omicidi per varie faide legate agli appalti e alla gestione. Alla fine era arrivata la Città della Scienza, che nell’ultimo periodo avrebbe dovuto essere ristrutturata, ma non c’erano i fondi. Magari qualcuno, come tante volte capita, ha pensato che la cosa più semplice fosse darle fuoco nottetempo e incassare l’assicurazione… Un po’ come credo sia capitato con le Torri Gemelle! (ride) Il vero problema è che quella zona non è mai stata bonificata davvero. Lì vicino ci sono molti locali: quando mi capitava di andarci, la mattina dopo mi soffiavo il naso e usciva solo fuliggine. Letteralmente.

B: Last but not least: non ti ho chiesto niente dei Co’Sang perché immagino che tu sia stufo di rispondere alle domande sullo scioglimento del gruppo…

N: Non preoccuparti, chiedi pure! Venendo da lì, mi sembra normale parlarne…

B: C’è qualcosa che vuoi aggiungere in merito a tutto quello che è stato detto e scritto sull’argomento?

N: Non molto, in realtà. All’epoca facemmo un comunicato stampa, che tra l’altro non era esattamente come volevo io, ma che alla fine uscì comunque in quella forma perché c’era una certa fretta – non mia – di farlo uscire. Credo che sia soprattutto la nostra produzione artistica a dover parlare: ciascuno di noi esprime le proprie scelte in musica e nelle liriche. Inutile chiedersi se ci siamo sciolti a causa dei beat, delle tematiche, del napoletano o di chissà cos’altro: basta ascoltare. I Co’Sang sono stati un pezzo importantissimo della mia vita e auguro il meglio a Luca in tutto ciò che fa e farà, ma credo che ciascuno di noi continuerà a costruirsi la propria strada anche come solista. Spesso si ha l’errata convinzione che un gruppo sia forte solo in quanto gruppo: in realtà nell’hip hop non funziona assolutamente così, perché siamo abituati a fare moltissimi featuring singolarmente, ciascuno per conto proprio. C’è un individualismo che non viene riconosciuto abbastanza, secondo me: le nostre carriere soliste cominciano (e cominciano ad essere giudicate) nel momento stesso in cui per la prima volta ci troviamo a fare una strofa sul pezzo di qualcun altro.

B: E qual è il tuo rapporto col collettivo Poesia Cruda, invece?

N: Poesia Cruda per me è soprattutto un modo di scrivere liriche, lo stesso di artisti come Guccini, ad esempio. Questa è una definizione che è sparita nel tempo: oggi la si identifica solo con una certa crew o con un gruppo di persone, e la cosa un po’ mi dispiace. Insomma, ho un bellissimo e continuativo rapporto con la poesia cruda come concetto, indipendentemente dai ragazzi della crew, che spesso mi capita di incontrare in giro e che, come noi, con il tempo hanno preso direzioni diverse. Se un giorno dovessimo incontrarci di nuovo su un terreno comune, ben venga, ma in questo momento tutti sentiamo l’esigenza di realizzare progetti più personali.

B: A proposito: progetti futuri?

N: Vorrei iniziare un tour, soprattutto, e realizzare il maggior numero possibile di video estratti dall’album. Di qui a due anni mi piacerebbe investire su qualche artista nuovo: aspetto di avere tutti gli strumenti necessari per farlo, perché quando lavoro a un prodotto voglio dare il massimo. Secondo me bisogna consolidare la posizione delle etichette indipendenti, perché le major non potranno mai seguirti continuativamente e a 360° come invece fanno le piccole label: mi piace molto il lavoro che ha fatto Gué con Tanta Roba, e vorrei fare qualcosa di simile. Inoltre ho una linea di giubbini da baseball, TBL Academy – come quello che indosso nel video di Je rappresento, per intenderci – che mi piacerebbe continuare a portare avanti, e di cui probabilmente sentirete parlare in primavera. Ci lavoro in collaborazione con un altro ragazzo di Napoli, nel puro spirito del made in Italy: come vedi vorrei sviluppare anche il mio lato imprenditoriale. Del resto, tutti dobbiamo campare! (ride)