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Don Diegoh: l’intervista

04-03-2013 Marta Blumi Tripodi

Don Diegoh: l’intervista

Tutti pensano che diventare un rapper di una certa fama sia la cosa più bella che possa capitare a un aspirante mc che vorrebbe trasmettere un messaggio con la propria musica. Non sempre è così, però, e meno male che c’è qualcuno che ha il coraggio di dirlo ad alta voce: affrontare ogni santo giorno il peso delle aspettative, delle critiche, della competizione fine a se stessa, non è poi così piacevole, e chi dice il contrario spesso mente. Don Diegoh è uno di quelli che non vi mentono e che ammettono le proprie umanissime fragilità, tanto che fino a un paio di mesi fa aveva seriamente pensato di abbandonare il rap. Per fortuna, però, ha cambiato idea: un’ottima notizia per i numerosissimi fan di Radio Rabbia, il suo ultimo album realizzato in collaborazione con Mastrofabbro. A giudicare da quello che si legge in giro è uno dei progetti più apprezzati degli ultimi mesi sia dal pubblico che dalla critica. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere al telefono con l’mc in questione, per parlare di cosa succede quando un disco è talmente pervasivo che riesce perfino a farti cambiare idea sui tuoi progetti futuri. (Ph: Cool 79, tutti i diritti riservati)

Blumi: Tu sei in giro da molto tempo, ma è soprattutto questo disco che ti ha fatto conoscere da un pubblico più ampio. Ci riassumi in poche parole chi sei e che cosa hai fatto finora?

Don Diegoh: Fino ad oggi ho portato avanti due binari paralleli: l’attività discografica e il freestyle. La gavetta secondo me non finisce mai, e la mia è stata molto lunga. Il mio primo album, Storie di tutti i giorni, è uscito soltanto nel 2006, mentre nel 2008 è uscito Double deck, entrambi per Audioplate Records. Nel frattempo ho partecipato a molti contest di freestyle, tra cui in particolare il Tecniche Perfette, che mi ha aiutato a farmi conoscere sotto una luce diversa, meno da rapper e più da mc: per me ciò che caratterizza davvero il secondo, rispetto al primo, è la completezza, la capacità di improvvisare e di scrivere canzoni valide. A un certo punto mi sono preso un lungo periodo di pausa: ho fatto un paio di featuring con Esa e qualche altra piccola cosa, ma non dei veri e propri progetti miei. E adesso ho deciso di tornare con quest’album, Radio Rabbia. Tutto qui, più o meno! (ride)

B: A proposito di questa pausa, hai dichiaratamente avuto un momento di grande sconforto qualche tempo fa e hai pensato di smettere di fare rap; su Facebook hai addirittura dichiarato che questo sarebbe stato il tuo ultimo album. Ora che è uscito (e che l’accoglienza è stata molto buona), hai cambiato idea?

D.D.: Voglio essere molto sincero: io, così come molti altri, vivo l’hip hop esponendomi giorno per giorno. Sei in prima linea, ricevi continuamente critiche e complimenti, e devi gestire sia le une che gli altri. È una pressione fortissima e, quando ho scritto che mi sarei ritirato, era una cosa che pensavo già da diversi anni: io non ho un carattere che mi aiuta a reggere quel tipo di confronto e competizione continua, né a fare buon viso a cattivo gioco. In questo ambiente tutti ti consigliano di non mostrarti mai debole e di non abbassare mai la guardia, ma a me di questi discorsi frega ben poco, così ho deciso di uscire allo scoperto e di scrivere un post su Facebook in cui spiegavo che, per vari motivi, Radio rabbia sarebbe stato il mio ultimo album. Ora, in effetti, non sono più così sicuro che davvero sarà l’ultimo. Molti mi hanno criticato per questo, perché sembra che io abbia cambiato idea proprio perché ha avuto un buon riscontro: ma, come diceva Walt Withman “Mi contraddico perché sono vasto, contengo moltitudini”. La sostanza è che razionalmente penso ancora che sarebbe meglio smettere, ma sento l’esigenza di scrivere nuovi pezzi e di diffonderli, perché ho la sensazione di avere ancora molto da dire. Al momento sto producendo una strofa al giorno, che scrivo puntualmente ogni sera quando esco dal lavoro: di conseguenza, penso che a breve uscirà un mio nuovo progetto. So che per qualcuno risulterò incoerente, e che molti penseranno che volessi solo attirare l’attenzione con la mia dichiarazione di volermi ritirare, ma in realtà spero che, valutazioni isolate a parte, la gente continuerà ad apprezzare soprattutto la mia musica, come ha sempre fatto.

B: Se davvero non ami e mal sopporti la pressione della competizione, posso chiederti come ti gestisci per i contest di freestyle, che sono in assoluto una delle nicchie più competitive all’interno dell’hip hop italiano?

D.D.: Infatti i contest al momento li ho praticamente abbandonati: per me il freestyle è soprattutto uno strumento da usare per arricchire i live, di conseguenza quando mi chiamano per partecipare alle battle rifiuto serenamente, perché non mi interessano più. Mi sembra, appunto, che quel tipo di competizione non mi aiuti più a crescere. Io, tra l’altro, sono una persona un po’ permalosa ed estremamente pignola: mi crocifiggo per ogni errore e ogni imperfezione, quindi partecipare era veramente faticoso, per me. Anche per questo motivo ho deciso di dire basta. Preferisco lavorare per migliorarmi in privato e in silenzio, per poi mostrarmi in pubblico nella migliore forma possibile…

B: Cambiando argomento, tu sei a tutti gli effetti un solista, ma in questo disco hai deciso di unire le forze con Mastrofabbro, che lo firma con te…

D.D.: Mastrofabbro è il classico artista hip hop estraneo alla scena: ha 33 anni, nella vita fa l’avvocato, vive a Catanzaro (io, invece, sono di Crotone), è una persona di una straordinaria umiltà e fa una vita semplicissima, lontana dai social network e dai ritrovi del rap. Ama la musica, fa il beatmaker e si interessa soprattutto dell’aspetto musicale e produttivo della faccenda, tant’è che in genere quando suono in giro lui non viene neanche con me. Abbiamo cominciato a collaborare molti anni fa, con l’uscita dei miei precedenti album, e siamo diventati molto amici. Quando ho immaginato un nuovo disco ho subito pensato di coinvolgerlo, e lui mi ha mandato oltre 150 beat tra cui scegliere. Il nostro è stato davvero un lavoro a quattro mani, perché lui ha detto la sua anche sui testi, dandomi suggerimenti rispetto al mood e ai temi, ma anche dicendomi molto sinceramente se le singole strofe gli piacevano o no. Ha fatto un lavoro eccellente, tanto che adesso molti mc italiani si sono accorti di lui e ormai è più richiesto di me, per i featuring! (ride)

B: Parafrasando il titolo, ascoltando l’album sembra che per te la rabbia non sia un sentimento di incazzatura fine a se stessa, ma più che altro qualcosa che ti spinge a reagire e fare meglio. È effettivamente così?

D.D.: Certo. Per me Radio rabbia è soprattutto un crescendo di emozioni che si declinano pezzo per pezzo, per poi arrivare a dare il panorama completo di una situazione. È sicuramente un disco di reazione, ma non voleva essere il classico progetto da rapper che si sente represso dalla società. Non volevo scrivere come scriverebbe un hip hopper, ma piuttosto come una persona normale. La radio è la metafora di un mezzo ancora puro, con cui diffondere un messaggio forte; abbiamo caricato la nostra radio con una playlist di brani che trasmettano una serie di vibrazioni positive, tutte unite da una sorta di fil rouge.

B: E quale sarebbe, questo fil rouge?

D.D.: È il classico colpo di reni che ti permette di rialzarti. L’album comincia con una panoramica: il posto dove vivo, la situazione generale, la mia città. Poi comincio ad elencare una serie di momenti negativi, come se fossero una lunga fila di diapositive. Si arriva a una svolta con la traccia numero 12, che si chiama appunto Punto di (non) ritorno: da lì si comincia a risalire. La prima strofa parla di una persona – io – ricoverata in ospedale, solo che per raccontare questa mia esperienza ho utilizzato la storia del mio vicino di letto, un operaio di 45 anni che ha tentato il suicidio; ho preferito non parlare di me, ma di lui, perché la sua è una vicenda in cui tanti altri italiani si possono rispecchiare. Da quel brano in poi il resto dell’album è una sorta di lenta e positiva ripresa, fino ai titoli di coda. Insomma, come dicevamo prima, la rabbia è stata una molla per andare avanti e per trovare la forza di costruire il nostro lieto fine. Il che è anche uno dei motivi per cui ho deciso di andare avanti a fare rap.

B: Quello di Radio Rabbia è un suono molto classico e d’impatto. Nel 2013 che tipo di valore aggiunto ha un sound del genere?

D.D.: Per me rappresenta soprattutto la musica con cui sono cresciuto. Quando devi parlare della tua vita, hai bisogno di avere un amico vicino, e il primo amico che ha un rapper è il sound che lo ha svezzato. Così come ho scelto solo persone di fiducia per lavorare a quest’album, allo stesso modo ho scelto anche un suono di fiducia, perché sapevo che mi avrebbe aiutato ad esprimermi al meglio. Questo, comunque, non vuol dire che io disprezzi sonorità più innovative, anzi: al momento sto lavorando anche con produttori che hanno un altro tipo di sound.

B: Di questi tempi, sembra che il semplice essere molto bravi a fare rap non sia più abbastanza: per attirare davvero l’attenzione del pubblico bisogna costruirsi delle sovrastrutture, la musica da sola non è più sufficiente. Tu, invece, vuoi dichiaratamente essere una persona normale che racconta la sua normalissima storia…

D.D.: Il rap in questo momento è uno specchio fedele dell’Italia, anche perché è utilizzato da tutti: dai ragazzini, ma anche dalle pubblicità in tv, da Giuliano Ferrara e da Sara Tommasi. L’Italia è il Paese dei sensazionalismi, e questo ovviamente comporta che il personaggio sia più importante della persona. C’è chi porta una maschera come scelta artistica, e quello va benissimo, è giusto e sacrosanto; però c’è anche chi cerca di costruirsi un’immagine da anteporre alla propria musica. Qualche anno fa c’erano perfino una serie di etichette: il rapper immigrato, il rapper con i genitori divorziati, il rapper delle periferie, il rapper lavoratore… Una categorizzazione continua, che indica semplicemente la paura (degli artisti, ma spesso anche dei discografici) di non riuscire a sfondare con la musica e basta. Fortunatamente ci sono anche molti casi in cui tutto questo non succede: ad esempio quello di Johnny Marsiglia e Big Joe che, a prescindere dall’impatto sonoro, parlano di realtà quotidiane che chiunque può toccare con mano, e lo fanno con uno stile incredibile. Magari un gruppo del genere ci mette un po’ di più ad emergere, rispetto a chi invece punta tutto sulla trovata pubblicitaria del momento, ma poi a livello d’impatto i risultati sono migliori. E io sono fiero di appartenere a quest’ultima categoria.

B: A proposito di persone che stimi, ci sono molti featuring nel tuo disco. Come mai hai scelto di coinvolgere così tanti artisti diversi?

D.D.: Pensa che a me sembrano pochi! (ride) Avrei voluto farne di più, anzi, ce ne sono un paio che purtroppo sono rimasti in sospeso. È stata una cosa molto spontanea: ho fatto ascoltare i provini a diversi colleghi e loro si sono rispecchiati nelle mie parole e nei temi. Le varie collaborazioni nascono quasi da un’esigenza e secondo me si sposano perfettamente ai vari pezzi, come nel caso di Madness (che partecipa a Ci siamo persi, ndr). La sua strofa la sento mia al 100%, tanto che mi è capitato anche di cantarla personalmente durante i live: è davvero emozionante e mi è capitato perfino di vedere delle persone commuoversi per quei versi.

B: Domanda d’obbligo, visto che sei stato uno dei più noti concorrenti del Tecniche Perfette: cosa pensi di Moreno, uno dei freestyler più forti fuoriusciti da quel contest, di recente entrato nel cast di Amici di Maria De Filippi?

D.D.: Con molta sincerità, non condivido la sua scelta ma la rispetto. Deda diceva “Ognuno segue la sua via nel destino”…

B: Progetti futuri?

D.D.: Stiamo ristampando il disco. Per il resto, c’è in cantiere un nuovo EP di cui ho già deciso il titolo: per il momento è ancora tutto nella mia testa e non so neppure se e quando uscirà, ma spero di poter concretizzare al più presto! (ride) Ci tenevo poi ad aggiungere un’ultima cosa: io sono cresciuto in Calabria, in un periodo in cui non c’era ancora il boom dell’hip hop italiano e i media che se ne occupavano erano praticamente inesistenti. All’epoca, l’unico canale che c’era per restare aggiornati era Hotmc e noi lo leggevamo tutti i giorni; onore al merito per essere rimasti attivi e veri per tutti questi anni. Oggi, invece, è pieno di sedicenti cronisti che parlano di hip hop sfruttando il trend del momento e criticando a spron battuto gli artisti per futili motivi, senza capire che cosa significa esporsi in prima linea. Voi avete sempre parlato chiaro, nel bene e nel male, e vi rispetto per questo: ci vorrebbe molta più serenità anche da parte degli altri addetti ai lavori, perché a furia di divorarsi dall’interno questa scena rischia di esplodere.