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Sean Price: intervista + reportage fotografico

28-02-2013 Reiser

Sean Price: intervista + reportage fotografico

La prima volta in cui ebbi l’occasione di incontrare Sean Price fu ad un live al Tunnel diversi anni addietro. Allora come oggi il tempo era freddo e piovoso, restituendo la peggiore impressione possibile di Milano, ma il Nostro non ne era turbato, così come non lo era dalla pessima acustica di quella serata. Sicché si era dimostrato più che disponibile a farsi immortalare con i (pochi, allora) fan, sorbendosi un paio di freestyle in una lingua a lui sconosciuta — seriamente: ma cos’ha in testa la gente?— e in generale scambiando quattro chiacchere con chiunque. Incluso il sottoscritto, a cui confessò di avere i piedi doloranti a causa delle Timberland nuove, dimostrandosi sollevato ed entusiasta quando in breve lo omaggiai di una confezione di cerotti antidolorifici.

Nel frattempo sono passati quasi sette anni e la situazione è decisamente cambiata: giunto al terzo disco solista e con alle spalle decine di collaborazioni, la maggior parte delle quali eccelse, la sua popolarità si è impennata. Una differenza che si farà palpabile nel vedere l’affluenza all’attuale concerto, il quale per giunta gioverà di un impianto audio nettamente migliore e di un’organizzazione generalmente più professionale. L’unica cosa rimasta uguale, come potrete leggere, è la sua affabilità e in generale la sua genuinità — eccetto qualche pelo bianco nella barba, infatti, non sembra che per lui sia passato nemmeno un mese dall’ultima volta in cui siamo incontrati, tanto che si ricorda dell’episodio del callifugo.

Quando incontro Sean Price nella sua camera d’albergo quel che mi si presenta davanti è l’esatta controparte di come uno se lo potrebbe immaginare ascoltando i suoi pezzi: stanco ma sorridente, occhi iniettati di sangue, m’invita a sedermi chiedendomi subito un consiglio di moda: «Sono indeciso… mi son portato dietro questa Polo rossa con la scritta “Italia”, mi sembra che possa essere un’idea carina, no? Oppure può essere vista come corny?». Incerto della rilevanza del mio parere, comunque lo rassicuro (per quanto si possa rassicurare un omone di Brownsville alto almeno un metro e novanta sul centinaio di kili) e comincio quella che voleva essere un’intervista “standard” ma che finirà con lo spaziare per gli argomenti più svariati.

L’inizio è promettente. Chiedendogli ciò che pensa in merito alla ricezione di Mic Tyson da parte di critica e pubblico, P non ha dubbi: «Guarda, da ciò che mi viene scritto su Twitter o detto di persona, e da quel che vedo ai concerti, alla gente il mio album piace, ed è questo quello che conta. Lo stesso dicasi per la critica, chi più chi meno, e pure questa è una soddisfazione; anche perchè se dovessi andare a vedere le vendite… lasciamo stare. Le vendite di dischi ormai sono stronzate, diciamocelo, e comunque non campo di quelle. Gira e rigira, il punto è che con la mia musica riesco a vivere non solo io, ma anche mia moglie e i miei figli, ed è questa la cosa più importante».

Ecco: quella che in un’ottica superficiale potrebbe sembrare una dicotomia tra il Sean Price che rappa Sniff coke and punch niggas through school buses e il padre di famiglia, è in realtà una cosa naturale che lui spiega così: «Ma guarda che io sono una persona supertranquilla, se mi conosci. La chiave di tutto è conoscermi, però. E per il resto, cosa ti posso dire? Per come sono cresciuto a Brownsville è stato inevitabile che venissi a conoscenza anche di killer o ex killer, quindi è ovvio che anche solo di riflesso uno si faccia un certo tipo di scorza. Però io non mi ritengo un thug, è solo che da dove provengo io, se vuoi tenerti addosso i tuoi bei vestiti Ralph Lauren o il tuo orologio, devi essere disposto a difenderli — specie in passato, erano molti a pensare “Col cazzo che compro qualcosa se lo posso rubare”. Insomma, puoi anche avere un’indole tranquilla, ma non puoi permetterti di rilassarti troppo, ed è da questa realtà che mi è rimasto un certo imprinting oltre che le conoscenze di cui ti dicevo. È però anche vero che spesso queste stesse persone sono le più divertenti e brillanti che abbia mai conosciuto e, di conseguenza, essendo anch’io abituato a scherzarci penso che questo si rifletta nei miei testi».

Già, l’umorismo: se i suoi dischi sono apprezzati non è infatti solo per questioni come tecnica, qualità delle rime e beat, ma anche per il sense of humor che riesce ad esprimere attraverso metafore e giochi di parole (quando non intere canzoni: vedi Brokest Rapper You Know o Mess You Made). Al che calo dalla manica la domanda-asso che avevo preparato: vista la somiglianza di umorismo, scrittura e, presumibilmente, gusti… non sarà che è lui la persona che si cela dietro al geniale autore di Bigghostnahmean? «Cosa? Stai scherzando! [scoppia in una risata, polverizzando le mie speranze per un Pulitzer ] No no, davvero, non sono io, sul serio. Però conosco l’autore, quello sì, e posso dirti che è un grande. Certo che… cosa vai a pensare di me? Che mi recensisca l’album da solo? Cazzo, nemmeno io sono così vanitoso! [ride]».

Tornando quindi a Mic Tyson, prendo spunto dalla recensione citata e gli faccio notare che, se in passato aveva mostrato diversi lati del suo carattere, anche solo occasionalmente o con la sola scelta di beat più “leggeri”, con il suo ultimo solista ha imboccato la via dell’hardcore e dell’ignoranza totale (in senso positivo, mi affretto a precisare). «Eeeeh [sorridendo]… il processo creativo è stato abbastanza simile a quello che BigGhost descrive nella sua recensione, che non era un granchè ma era vera: beat pesante, testo pesante, avanti la prossima canzone; beat pesante, testo pesante, avanti la prossima; e così via. E il motivo per cui mi sono focalizzato più su questo stile è che è da un po’ che non sento un album esattamente come piacerebbe a me. Sai, per come la vedo io il rap non è una lezione di scienza o matematica, piuttosto è come andare in palestra. Cazzo, entri, fai due addominali, i pesi, corri un po’ e poi ti levi dalle palle non appena hai finito, senza perdere troppo tempo a pensare al materiale di cui son fatti i pesi, giusto? Anche per i beat: quelli che ho scelto da 9th Wonder e dalla sua cricca (che include Khrysis, Amp ed Eric G) sono più ruvidi che in passato, e lo stesso dicasi per Alchemist, che oltretutto ha un grande orecchio e perciò, anche senza grandi rullanti, ha creato robe hardcore come STFU Pt.2. Di più non c’è da dire, secondo me: è rap diretto, essenziale, come piace a me. Se poi tutto questo è il risultato di una reazione subconscia alla generazione di gente coi pantaloni sottovuoto e le magliette coi colori dell’arcobaleno non te lo so dire, ma fare un disco che piacesse prima di tutto a me era ormai una reale necessità».

E quanto ad artisti come A$AP Rocky, Kendrick Lamar, Meyhem Lauren o Smoke DZA (con gli ultimi due ha anche collaborato), che sono distanti dalla generazione a cui si riferisce, che ne pensa? «No, loro certamente sono validi, e poi DZA is my man. Anche se io sono un Decepticon e quindi non faccio parte dei Lo-Lifes, lo conosco da tempo, così come Thirstin Howl The 3rd, con cui sono cresciuto assieme visto che vivevamo nella stessa strada. Quindi anche se apparteniamo a gang diverse, soprattutto loro restano miei fratelli. E visto che prima parlavamo di beat senza batterie, colgo l’occasione per dire che tra coloro che recentemente hanno prodotto dischi di spessore includo anche Roc Marciano: il suo ultimo album è incredibile, così come del resto Grief Pedigree di KA. Quindi di roba degna in giro ce n’è, non capirmi male».

Tornando all’argomento Decepts, gli chiedo che fine abbia fatto Rock, il suo partner negli Heltah Skeltah: «Lui sta benone, come no. Di recente ha firmato per la mia etichetta discografica, nel frattempo ha vinto la causa [che lo vedeva accusato di tentato omicidio, NdR] e il suo album da solista uscirà tra breve. Tra l’altro, è in lavorazione anche il prossimo album degli Heltah Skeltah, quindi in definitiva puoi vedere che le cose stanno andando a gonfie vele». E giacché siamo in modalità Chi L’Ha Visto, colgo l’occasione per chiedergli lumi su buona parte della Boot Camp Clik, primo tra tutti Starang degli O.G.C., che alcune voci volevano ritirato dalla scena. Fattosi improvvisamente serio, P mi spiega che «nella Boot Camp siamo prima di tutto amici da ben prima che cominciassimo a pubblicare dischi. In questo senso, fanculo il rap. Perciò uno può chiudere la sua carriera quando vuole, ma anche interromperla fin quando non gli torna la voglia. Al momento Louisville si trova ad Atlanta e sta bene; lo stesso dicasi per Top Dawg, che è rimasto a Brooklyn. Detto questo, quando avranno voglia di rimettersi di fronte al microfono, ben venga, io sarò sempre lì, e nel frattempo continuiamo comunque a sentirci».

Un po’ com’era successo a lui dopo l’uscita di Magnum Force, azzardo, senonchè negli ultimi anni lo abbiamo sentito sempre più spesso su dischi e singole canzoni altrui. «Già, ma lì è in parte una questione di sopravvivenza. Vedi, in linea di massima io non chiedo soldi agli MC che rispetto. La mia filosofia è I don’t do songs with Ras Kass/ I do songs with wack ass rappers for fast cash; chiaramente è una punchline da non prendere alla lettera. Il senso generale è che vista la mia etica professionale, se facessi solo pezzi con gente del calibro di Ras finirei col non mangiare più. Ma siccome per fortuna al mondo non ci sono solo MC bravi, anzi, ecco uno dei motivi per cui mi vedi in giro così spesso. Non lo nego: sono una puttana, e se mi sbatti i soldi sul tavolo il pezzo con io te lo faccio — dimmi solo quante barre ti servono [ride]! Anche perchè a me non interessa che il tipo sia solo mediocre o proprio uno scarsone senza un domani: io resto Sean Price e scrivo materiale di qualità, e alla peggio la cosa che ne ricava lui è una figuraccia. Contento lui, contenti tutti! [ride] No, tornando seri per un attimo: la riprova che le mie barre spezzano è il fatto che sono costantemente richiesto e, se questo oltretutto mi consente di dar da mangiare ai miei figli, beh, ho fatto tredici. Sai, ci tengo ad essere un buon padre per i miei tre figli… anche se al fisco ne dichiaro solo due, hahah! P!».

Purtroppo, avendo ampiamente sforato il tempo dedicato all’intervista, il bussare alla porta della camera interrompe il flusso di aneddoti di P. Tuttavia, alla luce dei fatti, è chiaro che intervistarlo oltre è quasi superfluo. A parlare per lui ci sono Monkey Barz, Jesus Price Superstar e Mic Tyson. Scusate se è poco.

Foto di Giulia ‘Ghostdog’ Alloni, tutti i diritti riservati. Si ringraziano Soulfood Promotions e I Soliti Ignoti Fam per la collaborazione nell’organizzazione di questa intervista