Knowledge is power, il motto della nostra rubrica libri, è perfetto per descrivere Giuseppe ‘U.Net’ Pipitone, una vera eccellenza italiana. E’ uno dei più instancabili ed accurati saggisti hip hop del mondo, tanto che grazie alla sua opera si è guadagnato la fiducia di una impressionante sequela di personaggi storici, che concedono a lui interviste esclusive e approfondite che nessun americano probabilmente otterrà mai. La sua trilogia, pubblicata per Agenzia X, è stata scritta nell’arco di 10 anni: comincia con Bigger than hip hop, prosegue con Renegades of funk e si conclude con Louder than a bomb, esplorando le evoluzioni della cultura black e urban dagli albori fino all’inizio degli anni 2000. Prestandosi per una volta al ruolo di intervistato anziché fare come d’abitudine l’intervistatore, ci ha raccontato la sua storia, le sue esperienze e, soprattutto, ci ha svelato i segreti del mestiere. Perché la sua missione è quella di forgiare una schiera di nuovi hip hop writer tra le nuove generazioni: come dice lui, c’è così tanto da raccontare…
Blumi: Come hai cominciato a scrivere di hip hop, e perché?
U.Net: L’intera trilogia, ma soprattutto il primo capitolo Bigger than hip hop, è nata come progetto collaterale a una serie di viaggi che ho portato avanti fin dalla metà degli anni ’90, per raccogliere una storia orale del Black Panther Party. All’epoca mi concentravo sugli anni immediatamente precedenti alla nascita dell’hip hop, prendendo in esame la comunità nera a 360 gradi. Grazie a diversi attivisti ed ex membri delle Black Panther ho iniziato a conoscere meglio i gruppi hip hop più vicini a queste organizzazioni politiche. Con grande piacere, tra l’altro, perché sono sempre stato un grande fan del rap; ad esempio ho avuto l’onore di conoscere M1 dei Dead Prez, che quando mi hanno presentato durante una manifestazione era uno dei miei idoli e che negli anni è diventato un amico. Dopo essere stato introdotto a quel mondo, ho pensato di provare a descrivere la storia dei neri d’America attraverso la lente di ingrandimento dell’hip hop: musica, ma anche libri, cinema, costume e tutto il resto. In sostanza si potrebbe dire che non volevo propriamente scrivere di hip hop, ma volevo utilizzarlo come strumento per parlare d’altro. Uno dei libri che più mi ha ispirato in questo percorso è stato quello di Bakari Kitwana, The hip hop generation; e anche in questo caso, tra l’altro, l’autore ormai è diventato un amico.
U: Sei uno degli studiosi più rispettati nel panorama internazionale. Che tipo di lavoro c’è dietro ogni tuo libro?
U.N.: Tanti contatti personali e lunghe chiacchierate. All’inizio tutti i miei incontri nascevano per passaparola o dal vivo, anche perché quando ho cominciato a scrivere avevo appena comprato il mio primo computer per scrivere la tesi, e Internet ancora non era così diffuso. All’epoca ero un po’ come Fonzie: avevo dei parenti a New York che mi lasciavano usare un monolocale sopra il loro garage, con un’entrata indipendente… (ride) Mi bastava mettere via 600.000 lire per il biglietto dell’aereo, e poi avevo la possibilità di restare in America per mesi a fare ricerche e vivere in prima persona quell’atmosfera. Sia in ambito politico che in ambito hip hop, ho avuto la fortuna di avere dei mentori. Personalità chiave dei vari movimenti che mi hanno preso in simpatia e mi hanno aperto molte porte, aiutandomi e facilitandomi in tutti i modi: è soprattutto loro che devo ringraziare. Oggi, invece, molti dei miei contatti nascono sui social network o via mail. E ovviamente è tutto molto più facile, anche perché i miei lavori precedenti mi danno la credibilità indispensabile a far sì che la gente che voglio intervistare si fidi di me. È un po’ come quando tiri un sasso in uno stagno: i cerchi nell’acqua si allargano e non li puoi più fermare, e arrivano a toccare sponde che non ti eri immaginato.
B: Da come parli si evince che sei un grande appassionato di hip hop a 360 gradi, ma ti concentri soprattutto sul passato, vicino o lontano che sia. Perché?
U.N.: Non è sempre un passato lontanissimo, in effetti: Bigger than hip hop parla dei primi anni ’00, ad esempio. Con Renegades of funk e Louder than a bomb, invece, sono andato più lontano. È stato soprattutto perché mi sono reso conto che se volevo effettivamente usare l’hip hop per educare e spiegare determinati avvenimenti dovevo fornire delle basi storiche approfondite, visto che molte vicende non sono mai state davvero raccontate per iscritto: la storia dell’hip hop è soprattutto orale. Tra l’altro Louder than a bomb è anche una celebrazione della mia adolescenza, perché tutto quello che è raccontato nel libro l’ho vissuto in diretta. Agenzia X ha voluto farmi una sorpresa e ha pubblicato nelle prime pagine alcune mie foto dell’epoca: un ragazzino impacciato e brufoloso con l’Invicta in spalla che posa insieme a Chuck D… (ride) Quell’incontro mi ha cambiato la vita. Ero andato davanti a Radio Deejay, dove erano ospiti i Run Dmc, che avrebbero suonato il giorno dopo insieme ai Public Enemy. Qualcuno mi disse che la mattina dopo ci sarebbe stata una loro conferenza stampa in un albergo del centro: io saltai la scuola e andai direttamente lì. Rimasi lì davanti per ore, da solo, finché un portinaio ebbe pietà di me e mi disse che se promettevo di starmene zitto e buono potevo entrare. Mi sedetti in ultima fila, timidissimo, ma una celebre (e bellissima) giornalista musicale dell’epoca, Kay Rush, mi vide e si intenerì: “Vieni con me in prima fila, fai finta di essere il mio fotografo, così puoi scattare tutte le foto che vuoi”. Un’emozione incredibile! (ride) L’amore per i Public Enemy mi ha accompagnato per il resto della mia vita, soprattutto perché quando sono cresciuto un po’ ho capito fino a che punto riuscivano a intrecciare musica d’impatto a elementi politici e militanti.
B: Restando in tema di periodi storici, c’è un argomento più “contemporaneo” che ti piacerebbe affrontare in un libro, o che secondo te meriterebbe di essere affrontato?
U.N.: Ce ne sono davvero tantissimi, e tutti meriterebbero di essere portati avanti. Non è detto che debba farlo per forza io, però. La tecnologia in questo momento permette a chiunque di produrre un libro da zero e di venderlo e distribuirlo da solo: per questo invito tutti coloro che avessero un’interesse specifico a provare a scrivere. Per quanto riguarda me, invece, prossimamente mi dedicherò alla scrittura di un romanzo un po’ autobiografico, che prende spunto dagli 8 mesi che trascorsi a Cuba, anni fa. Cercherò di mascherare il più possibile i fatti realmente accaduti, però, perché non voglio che i miei genitori o mio figlio scoprano che cosa è vero e che cosa no… (ride)
B: Parlando invece di hip hop italiano: prima o poi ne scriverai?
U.N.: Ci sto ragionando. L’anno scorso si parlava di realizzare una storia orale delle posse, corredata da quattro eventi a Bologna, Roma, Milano e Napoli: dalle registrazioni del dibattito e da varie ulteriori interviste avremmo dovuto ricavare un libro. Alla fine, però, purtroppo è finito tutto in nulla. Vedremo in futuro.
B: Restando in Italia: Louder than a Bomb parla di come l’hip hop all’estero è diventato parte della cultura di massa. Da noi l’hip hop si sta trasformando in una cultura di massa solo adesso, con vent’anni di distanza. Secondo te cosa dovremmo imparare noi italiani da quel periodo?
U.N.: È difficile rispondere a questa domanda. Il nostro Paese è l’ultimo in ordine di tempo a farsi coinvolgere dalla massificazione dell’hip hop. Quando l’hip hop è sbarcato nel music business, negli anni ’80, i discografici non sapevano bene cosa farsene e quindi sperimentavano a 360°, dalla visione street-knowledge di KRS-One ai nerd e borghesissimi De La Soul, passando per i Public Enemy, gli X-Clan, gli NWA. Decine di versioni e visioni diverse del rap, eppure gli ascoltatori erano comunque stimolati a comprare qualsiasi tipo di disco uscisse. Oggi, invece, in Italia a livello di massa si produce solo l’hip hop che garantisce vendite e visibilità: se usiamo solo questo come metro di giudizio difficilmente ci sarà mai nulla di veramente creativo, ma solo una rivisitazione continua della stessa formula. Magari con rime diverse o mc più o meno bravi, ma la sostanza sarà sempre quella. Ultimamente c’è una sorta di appiattimento sul modello dominante americano, anche a livello di testi; ci sono etichette indipendenti che sperimentano (ad esempio la Macro Beats Records, che ha prodotto dischi ottimi come quelli di Ghemon e Kiave), e tra l’altro io sono personalmente convinto che molti artisti cosiddetti “mainstream” in realtà vendano molto meno di loro. Con questo, però, non voglio fare una stupida contrapposizione underground vs mainstream. Negli anni ’90 la scena italiana era sì bellissima, ma divisa tra i sostenitori delle posse e quelli meno impegnati politicamente; a rivedere la situazione a posteriori, erano due anime che avrebbero dovuto integrarsi e fondersi in una sola.
B: Tornando al tuo lavoro, qual è l’intervista più significativa che hai fatto, secondo te?
U.N.: In generale io cerco sempre di intervistare persone che non mi parlino solo di hip hop, ma di come l’hip hop ha cambiato la loro vita. Ed è difficilissimo scegliere, soprattutto per l’eccezionalità di alcuni eventi. Kool Herc, ad esempio, non rilasciava interviste da quasi dieci anni, e quando sono stato chiamato all’Mc Hip Hop Contest di Rimini per moderare la sua conferenza non mi sembrava quasi vero; un’emozione enorme. Uno dei personaggi più eclettici che ho avuto l’onore di intervistare, però, è sicuramente Melvin Van Peebles (leggendario regista, sceneggiatore e compositore che, tra le molte altre cose, ha segnato il cinema blaxploitation come nessun altro, ndr), un ottantenne più vitale di un ragazzino! (ride) Mi ha tenuto quattro ore nel suo appartamento a New York facendomi ascoltare musica, guardare film, leggere libri… Un altro incontro interessantissimo è stato quello con Just Ice, forse uno dei primi artisti ad incorporare lo stile gangsta nel rap. Mi ha raccontato episodi allucinanti: era costantemente ricercato, e l’FBI veniva a cercarlo in studio di registrazione o ai concerti perché erano gli unici luoghi dove erano certi di poterlo rintracciare… (ride) Sto anche lavorando ad un documentario sulle origini della scena di londinese, che mi sta appassionando tantissimo: quella città è stata il mio primo amore, quando da ragazzino facevo tappa lì ogni estate con la scusa di imparare meglio l’inglese. Scoprire che le persone che vedevo esibirsi per strada a Covent Garden nell’89 sarebbero poi diventati i veri pionieri della scena hip hop britannica è stato in qualche modo commovente. Lo stesso tipo di sensazione incredibile che ho sperimentato quando stavo scrivendo la parte musicale di Renegades of Funk: ero in un centro giovanile di Harlem dove moltissimi pionieri del rap di New York stavano provando per uno spettacolo che avrebbero fatto nei giorni successivi. Mi hanno messo al centro di un cypher e ciascuno di loro ha fatto un freestyle in onore del libro: da brividi! Soprattutto se pensi che, come dico sempre io, una volta terminate queste interviste io smetto i panni di supereroe e torno a fare l’impiegato…
B: Infatti: tu non fai lo scrittore a tempo pieno, hai un lavoro normalissimo e dedichi tutto il tuo tempo libero alla ricerca sull’hip hop, cosa davvero lodevole…
U.N.: I più giovani non se ne capacitano: pensano che il mio vero lavoro sia questo, e quando spiego che invece si tratta solo della mia passione, e che per lavoro sono in ufficio come tutti gli altri, restano a bocca aperta. I libri in effetti li scrivo nel mio tempo libero. E avendo un bambino di quattro anni, in pratica li scrivo di notte! (ride) Ma ne vale la pena, non ho alcun rimpianto. Lo dico sempre nella presentazione dei miei libri, e non finirò mai di ripeterlo: sono ovviamente felice delle recensioni positive e degli apprezzamenti, ma quello che ho fatto io lo può fare chiunque, basta un po’ di buona volontà. C’è bisogno di più libri di approfondimento, sugli argomenti più svariati, e ciascuno dovrebbe provare a scrivere di quello che gli interessa, mettendosi un po’ d’impegno. Bisogna sviluppare e portare avanti le proprie idee. Spero che in futuro le nuove generazioni riescano a fare più e meglio di me; solo allora tutto ciò che ho provato a fare avrà un senso.
B: Parliamo invece della definizione di golden age. Tu la identifichi soprattutto come il periodo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90: spesso, però, per golden age si intende soprattutto il periodo attorno alla metà degli anni ’90. Come la risolviamo?
U.N.: Per prepararmi a rispondere ho fatto un sondaggio tra le mie conoscenze! (ride) Di solito si fa coincidere la nascita della golden age con una specifica battle, quella tra KRS-One e Melle Mel al Latin Quarter, nel 1986. Melle Mel era sicuro della sua supremazia ed era pronto a scommettere che avrebbe battuto chiunque lo avesse sfidato, ma non aveva fatto i conti con un giovanissimo KRS-One, affamato di visibilità e di gloria. Il pubblico, giovane e scalpitante come lui, vide nella sua vittoria un momento di rivalsa nei confronti della generazione precedente, e quella sfida fu un vero e proprio catalizzatore per il nuovo movimento. Il momento in cui secondo me la golden age si chiude, invece, è la fine del 1992, con l’uscita di The Chronic di Dr. Dre, che in un verso dice pressappoco “È iniziato un altro giorno da negri, ma non voglio vedere né pugni chiusi, né dreadlocks, né medaglioni africani”, mettendo una distanza enorme tra sé e i simboli dell’hip hop conscious e politicizzato. Però, confrontandomi con Damir Ivic e David Nerattini, è emerso che secondo loro quello è uno dei momenti di passaggio, ma non necessariamente quello conclusivo. In particolare, per David la golden age finisce tra il ’95 e il ’96, con l’avvento della Bad Boy di Puff Daddy. In effetti, quei due o tre anni di scarto sono quelli in cui iniziarono a farsi conoscere dal grande pubblico personaggi come 2pac o i Gangstarr, però era sempre più difficile scegliere cosa ascoltare, perché la varietà di cui parlavamo prima andava spegnendosi: la discografia si concentrava soprattutto su un certo tipo di hip hop un po’ superficiale, che quindi diventò il modello imperante anche per le radio e le tv. Insomma, sulla golden age esistono due versioni: una più rigida e una un po’ più ampia. Io comprendo perfettamente chi aderisce a quella più ampia, perché le motivazioni addotte a sostegno di questa tesi sono sicuramente degne di riflessione, ma continuo a mantenere la più rigida! (ride)
B: Non è un po’ rischioso, però, affermare che la golden age di un genere musicale è così vicina all’inizio della sua vita discografica (quella dell’hip hop risale al 1979 con la pubblicazione di Rapper’s Delight della Sugar Hill Gang, ndr)? Sembrerebbe quasi implicare che l’hip hop sia morto in partenza…
U.N.: Assolutamente no, implica solo che l’hip hop sia un genere musicale che ha rischiato di atrofizzarsi e di perdere la sua vena più creativa. Credo però che, visto che a livello underground e indipendente è possibile essere dei veri artisti, maturi e completi, e contemporaneamente vivere della propria arte, l’hip hop non è morto affatto. Sia in Italia che all’estero, ci sono realtà molto interessanti che lo tengono vivo. E, anche se non è quella la via maestra, esistono anche moltissimi esperimenti crossover che regalano grande vitalità al rap. Non mi sento nella posizione di poter dare dei giudizi, ma mi sento di dire che se siamo sopravvissuti al periodo di fine anni ’90, in cui l’industria musicale imponeva le sue condizioni e i musicisti potevano solo scegliere se aderire e farne parte o rifiutare e restarne esclusi, sopravviveremo a tutto. Oggi ciascuno può scegliere e, se sceglie di non militare nel mainstream a tutti i costi, ha un’ampissima libertà a livello creativo, per poi magari finire ad essere comunque corteggiato dal mainstream, come nel caso dei già citati Kiave e Ghemon, o anche di Ensi o The Night Skinny. Insomma: l’hip hop non morirà mai, rinascerà sempre dalle sue ceneri e si reinventerà partendo da se stesso. Anche perché, nei suoi quasi quarant’anni di vita, è stato un genere segnato da decine di trasformazioni fondamentali, ma non per questo si è mai estinto. Già i primissimi dischi hip hop sono molto diversi dall’hip hop che si praticava nei bloc party o alle feste, se ci pensi…
B: Last but not least: progetti futuri?
U.N.: Mentre stavo lavorando a Louder than a Bomb ho cominciato anche a curare un progetto insieme a Paradise The Architect, produttore degli X-Clan: una storia orale e fotografica di un locale storico di New York, il Latin Quarter che già citavo prima, in cui tutti gli artisti si sono fatti le ossa. Inoltre, insieme alla crew romana Woka Production, sono impegnato nella realizzazione di un documentario sulle origini dell’hip hop a Londra. L’entusiasmo per questo lungometraggio è enorme, tanto che diversi pionieri inglesi mi scrivono per auto-candidarsi a un’intervista o per lamentarsi del fatto che sono stati coinvolti altri anziché loro… (ride) Inoltre c’è il romanzo di cui abbiamo parlato in precedenza. Insomma, la carne al fuoco è tanta!