Quando desideri qualcosa, tutto l’universo trama affinché essa si realizzi, diceva Paulo Coelho. Volli, fortissimamente volli, diceva l’Alfieri. Due motti che sembrano scritti apposta per Andrea Nardinocchi, che in vita sua sembra non aver mai pronunciato la frase “non ce la farò mai, mi arrendo”. La prima cosa che ti colpisce incontrandolo è proprio questa: la determinazione incredibile che lo spinge a non mollare mai e a tendere costantemente verso la perfezione. Senza perdersi d’animo o dubitare che la sola tenacia fosse sufficiente, questo ventiseienne bolognese è riuscito a portare a termine di tutto, letteralmente. E’ un eccellente atleta (pur senza averne il fisico), è un compositore eccezionale (pur non avendo alle spalle studi tradizionali), è un produttore coi controattributi (pur avendo intrapreso questo percorso da pochissimo, rispetto ai suoi colleghi), quando suona dal vivo affronta il palco armato di una sola loop station, ma riesce a farla sembrare un’intera band (e ha imparato tutto per conto proprio). E, soprattutto, è un artista di cui è difficile non innamorarsi al primo ascolto. Tanto che Dargen l’ha voluto con sé nella sua etichetta Giada Mesi e, dopo aver sentito una sola canzone, l’ormai onnipresente Un posto per me, ora lo vuole anche la Emi, una delle principali major al mondo. Lo abbiamo incontrato a Milano per scoprire qualcosa di più su questo talento eccezionale del nuovo R’n’B’ italiano.
Blumi: Cominciamo dall’inizio. Come succede che un ex campione di basket freestyle decida che in realtà la sua vera passione è la musica?
Andrea Nardinocchi: Innanzitutto ci terrei a dire che la parola “campione” non è quella giusta, perché non esiste un vero e proprio campionato o una graduatoria. Il basket freestyle non è direttamente connesso alla pallacanestro, è una disciplina meno competitiva e più creativa. Io ho giocato a basket per tutta la vita: essendo uno sport si tratta essenzialmente di una gara, si vince o si perde, non c’è molto spazio per sfogarsi o esprimersi liberamente. Forse per questo ho cominciato a dedicarmi all’aspetto freestyle della questione. A un certo punto era esplosa la moda anche in Italia, grazie ad alcuni spot pubblicitari, ma io lo facevo già da un po’ di tempo per conto mio, quindi ero più avanti degli altri. Ho iniziato a partecipare a gare, eventi ed incontri che spesso vincevo: da lì è nata la mia nomea di campione. La realtà è che io ero mosso semplicemente dall’amore per il basket. Avrei voluto giocare nell’NBA, ma arrivato a diciott’anni ho capito che non ce l’avrei mai fatta, un po’ perché non avevo raggiunto gli standard necessari, ma soprattutto perché non mi divertivo più a giocare, così ho deciso di smettere.
B: E a quel punto cos’è successo?
A.N.: A quel punto non sapevo più cosa fare e come impiegare le mie giornate, anche perché in terza superiore ho lasciato la scuola, che ho terminato da privatista più avanti. Per occupare un po’ di tempo libero, un giorno ho pensato di provare a cantare e sono andato in una scuola per prendere una lezione. In quel momento non avevo un vero trasporto per la musica, però: l’ho fatto giusto per tentare qualcosa di nuovo. Studiando, ho conosciuto tante persone che mi hanno fatto appassionare a generi e artisti diversi, spingendomi ad allargare i miei orizzonti e anche a scrivere cose mie. Per tutta la mia adolescenza mi ero interessato soprattutto di hip hop, perciò la mia conoscenza era molto limitata.
B: A proposito di questo, anche se canti e non rappi il tuo sound e le tue collaborazioni (vedi quella ormai consolidata con Mecna) sono decisamente assimilabili a questo genere musicale. Qual è il tuo rapporto con l’hip hop?
A.N.: Tutto è cominciato più o meno quando avevo tredici anni. La mia famiglia è di origine pugliese, e da sempre vado in vacanza in un paesino in provincia di Foggia. Anche Mecna è di Foggia, perciò ci conosciamo fin da quando siamo piccoli e in vacanza frequentiamo lo stesso posto. Quando ci siamo incontrati per la prima volta io, ovviamente, giocavo a basket, mentre lui aveva cominciato da poco a fare rap con la sua crew, i Microphone Killarz. Mi diede una cassetta che conteneva tutto l’hip hop che gli piaceva all’epoca: Bassi Maestro, i Pooglia Tribe, Kaos, Kaso, Biggie, 2Pac, Wu-Tang Clan… Era una specie di riassunto di ciò che era l’hip hop all’epoca. Mi sono appassionato moltissimo, tanto che quella cassettina l’ho consumata per anni. Il rap in generale ha segnato quegli anni, per me, anche se i miei genitori in casa hanno sempre suonato un sacco di gruppi e generi diversi: Queen, Dire Straits, Pink Floyd, ma anche Mina, Battisti, perfino Bocelli. Insomma, i miei ascolti sono stati abbastanza eclettici, ma posso dire che sia stato soprattutto il rap a contraddistinguere la mia crescita. E credo che, quando ho iniziato a fare musica, questa caratteristica abbia cominciato a riflettersi molto nelle mie canzoni, dai beat a tutto il resto.
B: Continuando a parlare del tuo background, Bologna, la tua città, è famosa per la sua tradizione musicale (vedi i vari cantautori che l’hanno eletta a quartier generale), ma non è certo la patria del tipo di sound che proponi tu…
A.N.: E infatti la mia crescita musicale è un processo che si è sviluppato soprattutto in casa. Ho suonato in un sacco di piccoli locali con la mia loop station, improvvisando delle cover di brani internazionali che riarrangiavo sul momento sia a livello di voce che a livello di accompagnamento; ogni tanto, timidamente, cercavo di buttarci dentro anche qualcuno dei miei pezzi, scritti in italiano. A parte quello, però, niente, infatti nella mia città mi sento un po’ un pesce fuor d’acqua per quello che faccio…
B: Il tuo produttore è Dargen con la sua etichetta Giada Mesi. Come vi siete conosciuti (e fidanzati, stando al suo profilo Wikipedia)?
A.N.: (ride con aria un po’ sconsolata, ndr) Riguardo all’aspetto serio della domanda, l’ho conosciuto perché avevo passato alcuni miei provini a un amico musicista che vive a Londra. Lui aveva chiesto una mano a Francesco Gaudesi, socio di Dargen nell’etichetta Giada Mesi, il quale a sua volta gli ha fatto sentire il pezzo. Hanno fatto qualche ricerca e su YouTube hanno trovato alcuni video di mie performance con la loop station. A quel punto mi hanno contattato e mi hanno proposto di collaborare con loro. Comunque, Dargen non è propriamente il mio produttore: nel momento in cui stiamo parlando rappresenta la mia etichetta discografica e, al di là dei dati ufficiali, è soprattutto il mio mentore. Lui e Francesco mi hanno aiutato in tutto, soprattutto da un punto di vista psicologico, facendomi stare tranquillo e aiutandomi a crescere in ogni modo possibile. Per il resto, sono io il produttore di me stesso: per come lo intendo io, il produttore è soprattutto la persona che si occupa di arrangiare e confezionare i brani secondo il suo gusto, e questo l’ho sempre fatto da solo, aiutato e consigliato “da lontano” da loro due. Mi hanno lasciato spazio e tempo per sbattere la testa contro il muro, imparare dagli errori e trovare la mia strada, e gliene sono molto grato. Quanto invece alla storia del fidanzamento, non sappiamo esattamente chi l’abbia scritto su Wikipedia… Non siamo stati noi!
B: Sul serio? E quando l’avete visto, avete deciso di lasciarlo lì a beneficio dei posteri?
A.N.: Sì, abbiamo pensato che in fondo anche la cattiva pubblicità è pur sempre pubblicità. (ride) La cosa divertente è che la fonte citata da Wikipedia era un tweet di Dargen che recitava “Andrea Nardinocchi sta arrivando e fa stare bene”, quindi non proprio una dichiarazione di omosessualità!
B: Cambiando del tutto argomento, tu suoni un po’ il pianoforte, usi macchine che di solito utilizzano i beatmaker o i produttori di elettronica, hai studiato jazz al conservatorio… Il tuo è un approccio molto ibrido alla musica.
A.N.: Sì, ho studiato un anno al corso triennale di jazz del conservatorio, ma poi ho abbandonato. La loop station, invece, è un aggeggio molto istintivo: non c’è bisogno di conoscere la musica per suonarlo, anche perché fondamentalmente si limita a risuonare delle parti che tu hai già registrato. Quanto al pianoforte, mi ci sono avvicinato dopo essere stato letteralmente folgorato da un pezzo di John Legend (non possiamo scrivere quale per una specie di fioretto che abbiamo fatto durante l’intervista, vi tocca tenervi la curiosità, ndr). Dopo molti sforzi ho convinto la mia famiglia a regalarmi un piano per Natale, e ho imparato a orecchio ad accompagnarmi. Con un misto di ear training e una teoria musicale di base (scala maggiore, scala minore eccetera) ho acquisito una visione chiara e istintiva di note e accordi: magari non ho una gran tecnica, ma con questo sistema nella mia testa so già cosa andrò a suonare prima ancora di suonarlo. Il che è anche il metodo che uso per comporre e per le mie performance alla loop station.
B: A proposito delle tue performance: in un contesto come quello italiano, dove anche i giornalisti e gli addetti ai lavori sono spesso vecchie carampane con una concezione molto “antica” della musica, quanto è difficile fare capire come funzionano i metodi che usi per comporre e suonare dal vivo le tue canzoni?
A.N.: Diciamo che non ci si può aspettare che alcuni giornalisti, che non fanno musica e sicuramente non sono avvezzi a certi tecnicismi, capiscano immediatamente come funziona una loop station o un campionatore. Ho notato un grosso sforzo, però: il fatto che questo progetto stia venendo fuori è la dimostrazione che in questo momento storico tutto può accadere. La gente si sta sforzando di capirmi, anche perché io un po’ lo impongo: suono così, mi presento in questo modo e non ho intenzione di cambiare per compiacere qualcuno. Quando ho iniziato volevo cantare dal vivo le mie cose utilizzando le mie produzioni, ma senza mettere semplicemente una base in play: per farlo ho costruito una specie di live 2.0, dove di fatto non suono nessuno strumento, ma suono le diverse parti del mio beat. Questo è quello che sono e quello che faccio, prendere o lasciare.
B: Chi ti vede suonare dal vivo, tra l’altro, resta molto colpito dal tuo essere quasi “rapito” nella musica: si potrebbe dire che durante il live cadi in trance. È una performance o ti viene semplicemente naturale? Per intenderci: lo fai anche quando suoni a casa?
A.N.: La risposta effettiva sarebbe questa: è il modo in cui ho imparato a esprimermi. È come se schiacciassi un pulsante nella mia testa ed entrassi in una modalità mentale in cui isolo tutto il resto, ed è l’unico modo in cui riesco a combattere la pressione di essere osservato da tante persone. Quando sono da solo, invece, ovviamente non ho bisogno di rinchiudermi così tanto in me stesso, perché nessuno mi sta guardando. È una necessità che ho, insomma.
B: Hai anche fama di essere piuttosto maniacale, soprattutto quando suoni dal vivo: controlli tutti i livelli, il volume di ogni singola frequenza, le diverse sfumature delle note…
A.N.: Confermo! Ma è soprattutto perché ho vissuto molte esperienze in cui, dal punto di vista acustico, il contesto in cui suonavo era abbastanza disastroso. Nel tempo ho sviluppato una specie di diffidenza nei confronti dei live, così ho deciso che faccio tutto da solo e poi consegno al fonico due cavi con l’output del mio mixer. In futuro, però, mi piacerebbe rilassarmi da quel punto di vista, e sicuramente col tempo succederà.
B: Restando in tema di futuro, tu per ora hai fuori un solo singolo, Un posto per me. Cosa succede adesso?
A.N.: C’è un album in lavorazione: in questi giorni mi trovo a Milano proprio perché ero in studio a registrare. Di sicuro nei prossimi mesi verranno pubblicati nuovi singoli, probabilmente uno già prima della fine dell’anno. Per il disco vero e proprio, invece, credo che bisognerà aspettare l’inizio del 2013.
B: Tu ufficialmente hai debuttato con l’etichetta Giada Mesi di Dargen, ma nel momento in cui registriamo questa intervista ci troviamo in una sala riunioni della Emi… Qual è la tua situazione contrattuale?
A.N.: Questa non è una risposta facile perché al momento la mia situazione è sospesa sotto vari punti di vista. Il singolo è uscito per Giada Mesi, ma in licenza Emi (il contratto di licenza vuol dire che un artista, o un’etichetta, si pagano da soli tutte le spese di registrazione, mix e master di un disco, ma poi lo fanno pubblicare tramite un’etichetta più grande, che paga tutte le altre spese: il master, ovvero il disco vero e proprio, resta di proprietà dell’artista, ma è come se fosse stato “noleggiato” dall’etichetta più grande per un certo numero di anni, ndr). È possibile che, dato il successo del singolo, l’album esca ufficialmente solo con Emi, ma non c’è nessuna sicurezza di questo, anche perché la situazione dell’industria discografica è davvero incerta in questo momento (Emi è stata appena comprata da Universal, quindi non si sa ancora esattamente cosa ne sarà di lei, ndr). In ogni caso cerco di non pensare a queste cose e di lasciar fare al mio manager: molto meglio concentrarsi solo sulla musica.
B: Un’ultima domanda. Pubblicare un album all’inizio dell’anno, nella discografia italiana, significa una cosa ben precisa: partecipare a Sanremo. Pensi di farlo? E, più in generale, come la vedi?
A.N.: Boh! (ride) Per me tutto questo è talmente nuovo che non ho una risposta. È come se “esistessi” da due mesi scarsi, e sto facendo un percorso molto particolare, difficile e rapido, rispetto agli standard classici. Febbraio dell’anno prossimo lo vedo lontanissimo: già negli ultimi 30 giorni sono cambiate un sacco di cose, con le radio che cominciano a suonare Un posto per me e la gente che inizia ad interessarsi a quello che faccio. Ti confesso che al momento decidere se propormi o meno è uno dei più grandi crucci che ho: per ora sono davvero indeciso, per tanti motivi che sono facilmente intuibili. So che molti mi punterebbero il dito contro, se scegliessi di andarci: anche da spettatore ho sempre percepito quest’atmosfera un po’ controversa attorno al festival. Io penso che il problema sia soprattutto che la gente che si presenta a Sanremo tende a portare canzoni legate a una certa idea di Sanremo. Al momento non so dirti se ci andrò o meno: se mai ci andassi, però, penso che poterei una cosa totalmente inerente a quello che faccio, utilizzando gli gli strumenti che uso di solito. E cercherei di farmi accettare dal pubblico per quello che sono davvero.