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Vergognamoci per loro

23-11-2011 Reiser

Vergognamoci per loro

Vuoi per questioni anagrafiche, vuoi per semplice ignoranza, ricordo che quando cominciai ad ascoltare rap mi aspettavo, anzi pretendevo, che qualsiasi canzone veicolasse un messaggio di protesta. Mi si perdonerà l’ingenuità, spero, ma era ancora il periodo d’oro dei Public Enemy e in Italia aveva fatto molto presa la storia della CNN del ghetto e tutte quelle cose lì. Per non parlare poi del ruolo detenuto allora dai centri sociali. Ci volle una cura da cavallo – a base di Smif ‘N’ Wessun e Mobb Deep – per farmi capire che, come al solito, nel belpaese s’erano estrapolati solo gli aspetti mediaticamente più spendibili del fenomeno, ignorandone le mille sfumature che da sempre l’avevano caratterizzato.

Successivamente, però, capii anche che la predominanza di argomenti tutto sommato sterili nel rap non era necessariamente un male, tutt’altro: fatte salve rarissime eccezioni, infatti, a tutt’oggi la norma vuole che quando un reppuso cerca di buttarsi nel sociopolitico si assiste ad una bufera di minchiate e inesattezze capaci di far impallidire persino il più sgarrupato dei collettivi studenteschi.
Qualche esempio? Da vere Caporetto della conoscenza storica come “Nature of the Threat” di Ras Kass si arriva alle paraculate generaliste dei vari Talib Kweli ed emuli assortiti, passando per qualche improvvisa (e divertentissima) zampata tirata da gente altrimenti dotata di pedigree da puri analfabeti come Blaq Poet o Prodigy. Oh, e sempre restando nel Queensbridge, una menzione speciale va alla figura da peracottaro fatta da Nas che, oltre a produrre l’ennesimo album deludente della sua carriera, ha pure ritrattato sul titolo del suo ultimo lavoro (da Nigger a Untitled, per dire quanto ci teneva a smuovere le coscienze).

Insomma: nonostante alcune eccezioni – Immortal Technique su tutti, ma anche Paris, Mr. Lif o i Coup -, a conti fatti reputo che una certa distanza di sicurezza tra rap e politica sia generalmente quasi salutare: quando viene a mancare, può succedere che una causa o un pensiero potenzialmente condivisibili vengano involontariamente denigrati dalla povertà del pensiero dell’MC di turno (vedi ciò che avvenne per la raccapricciante campagna “Vote or Die” messa su da Puff Daddy in occasione delle presidenziali americane del 2004). In tal senso, un’ulteriore conferma di quanto io abbia ragione mi è stata data poche settimane or sono, quando a fianco dei manifestanti di Occupy Wall Street scesero Russell Simmons e Kanye West, ossia due dei maggiori rappresentanti di quello che è il Capitalismo con la C maiuscola. Per intenderci, è come se Ahmadinejad scendesse in piazza a manifestare per la libertà delle donne. Sicché, com’era auspicabile, gli stessi manifestanti, che magari peccheranno di ingenuità politica ma non sono poi così fessi, hanno bene o male spernacchiato la presenza dei due; e in particolar modo Kanye West, che persino nella triste operazione di mettere il cappello su un movimento con cui ha poco o nulla a che spartire, ha pure avuto la sfacciataggine di presentarsi agghindato come il principe di Zamunda.

Ma, come spesso accade in questi casi, appena si è convinti di aver toccato il fondo ecco che inevitabilmente arriva qualcuno a spostare più in alto l’asticella del cinismo. E, manco a farlo apposta, in quest’occasione il dubbio onore è toccato alla Rocawear di Jay-Z, la quale non solo ha deciso di giocare sul nome del movimento Occupy Wall Street, declinandolo in “Occupy All Streets” (‘na roba che manco gli sceneggiatori di Boris), ma come bonus avrebbe pure stabilito di lucrarci sopra. Sì: dei ricavati delle vendite dei suddetti capi, è altamente probabile che nemmeno un centesimo venga devoluto a opere più consone allo scopo delle proteste (in verità, la cosa più consona sarebbe stata non farle nemmeno, ma glissiamo). Non ci credete? Ebbene, eccovi il surreale comunicato stampa:

“La t-shirt ‘Occupy All Streets’ è stata creata per supportare il movimento “Occupy Wall Street”. Rocawear incoraggia fortemente tutte le forme d’espressione costruttive, siano esse artistiche, politiche o sociali. ‘Occupy All Streets’ è il nostro modo di ricordare alla gente che vi sono cambiamenti da attuare ovunque, non solo a Wall Street. Al momento non abbiamo preso impegni ufficiali per supportare economicamente il movimento.”Capito, insomma? Il politburo della Rocawear ci ricorda, squadrandoci dall’alto di anni e anni di lotte politiche nelle piazze e sit-in di fronte al Campidoglio, che ci sono cambiamenti da attuare ovunque, mica solo a Wall Street – e scemi noi a pensare diversamente!

Ora, è ovvio che la prima reazione sia di meravigliarsi ancora una volta della faccia di palta di persone simili; la seconda dovrebbe però essere quella di stupirsi ancor più dell’ingenuità di chi si fa promotore di certi movimenti di protesta, il cui difetto primigenio non è nemmeno tanto di essere privi di obiettivi concreti, bensì di princìpi fondatori. Personalmente, infatti, nutro seri dubbi sul fatto che a tutti i cosiddetti “indignados” sia chiaro a cosa si riduca fondamentalmente la loro protesta: l’anticapitalismo. E se invece hanno chiaro il concetto, evidentemente buona parte del mondo non ne è stata informata. Certamente non a Jay-Z o Kanye.

I loro tentativi di grattare qualche soldino dalla situazione sociopolitico americana (in maniera diretta o indiretta) tradiscono sì una discreta ignoranza – vista la grossolanità delle loro gesta – mista ad un’avidità grottesca e ottusa, ma denotano soprattutto un’incomprensione più generale dell’oggetto del loro sfruttamento. Ciò nonostante, non gli si possono attribuire tutte le colpe: dovrebbero essere gli stessi manifestanti a mettere in chiaro che qui non si tratta tanto di smussare gli angoli acuti del sistema bancario, quanto d’inventarsi un intero sistema ex novo (auguri, detto en passant). L’impressione che si ricava dalla confusionarietà delle proteste, oltre che dalla vacuità degli strali lanciati contro il mondo della finanza, è invece che il problema riguarda il non potersi più permettere lo stile di vita di un tempo. Che se tutti potessero nuovamente guidare macchine grosse come monolocali, allora l’allarme potrebbe rientrare e tutti amici come prima. Punto.

Detto ciò, era quindi solo questione di tempo prima che arrivasse qualcuno a cercare di mettere il cappello sul movimento; e va ancora bene che per ora i tentativi siano stati fatti in maniera talmente rozza da rendersi immediatamente riconoscibili per quel che sono. Posso solo augurami che questo li metta un po’ più sul chi vive di quanto siano stati finora.

Comunque sia, noi italiani in fondo abbiamo poco di cui lamentarci: il simbolo della débacle della protesta dei nostri indignados è l’ormai leggendario Er Pelliccia, talmente caricaturale da non necessitare di ulteriori commenti e, quel che più importa, incapace di influenzare alcunché al di fuori della propria vita (et encore!). Oltreoceano, invece, non solo hanno personaggi di un certo calibro, a loro volta caricaturali nel loro cinismo e nella propria ignoranza, ma anche scendendo verso il basso della piramide sociale non mi sembra che stia fiorendo chissà quale presa di coscienza. E in tutto questo, l’hip hop, fatte salve le eccezioni riportate poco sopra, continua ad essere d
el tutto ininfluente se non addirittura peggio.

E finchè si decide di abbandonare un ruolo sociale per limitarsi alla musica, ammesso che ciò sia davvero possibile, la cosa può anche andare bene (semmai con un output qualitativo un po’ più alto, se non è chiedere troppo). Se invece si opta non solo di entrare a gamba tesa nel dibattito, ma si decide addirittura di farlo con gli scopi peggiori in mente e le idee a dir poco confuse, allora meglio DMX, che perlomeno entrò nel mito pronunciando questa frase: “What the fuck?! That ain’t no fuckin’ name, yo. That ain’t that nigga’s name. You can’t be serious. Barack Obama. Get the fuck outta here”.