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Club Dogo: l'intervista

09-01-2011 Marta Blumi Tripodi

Club Dogo: l'intervista

Fino a qualche anno fa, sarebbe stato difficile immaginare che un album di hip hop italiano debuttasse al secondo posto in classifica. O che il tour legato a quell’album rischiasse un totale sold-out già dalla prima data. Eppure, è proprio quello che è accaduto. Ed è piacevole pensare che sia accaduto ai Club Dogo, un gruppo che non ha mai smesso di meritarsi il successo che ha. Nonostante tutto ciò che gira attorno a loro – le polemiche, le apparenze, il tormento e l’estasi che generano in alcuni fan della prima ora – è confortante che siano stati proprio loro a sfondare quel soffitto di vetro che teneva lontano il nostro rap dal circuito che conta davvero. Perché (indipendentemente dai gusti personali: l’oggettività è d’obbligo) Gue, Jake e Donjoe sono il miglior biglietto da visita che potesse capitarci. In quasi dieci anni sono riusciti a declinare l’hip hop in tutte le sue sfumature, dalla più alta alla più leggera. Ragion per cui, siamo particolarmente lieti di intervistarli (di nuovo) nella persona di Gue Pequeno, per festeggiare insieme a loro un’altra pietra miliare della loro carriera.

Blumi: Nel 2010 cade la ricorrenza dei dieci anni da 3 mc’s al cubo, l’EP delle Sacre Scuole che vi ha imposto all’attenzione globale. A una decade di distanza, che effetto fa ripensare a quel periodo? Il percorso per arrivare fin qui è stato come ve lo aspettavate?

Gue: Addirittura “attenzione globale”! (ride) Io avevo imparato i rudimenti del rap da Dargen e quella era stata la nostra prima vera esperienza in studio. È buffo che quell’ EP sia oggi preso come esempio di “virtù e purezza” musicale da una nicchia di utenti, probabilmente solo internettiani, che lo paragonano alla nostra odierna svendita, corruzione e commercialità, quando per vari aspetti era molto immaturo e a tratti mediocre per flow, musica e interpretazione; non destò tutta questa attenzione quando uscì all’epoca. Questo, sono sicuro, possiamo confermarlo tutti e tre. La cosa bella è che da quella scintilla sono nati i Club Dogo e Dargen, che ormai è un personaggio rilevante nella scena rap italiana, con uno stile unico, delle collaborazioni importanti e i propri ammiratori. Onestamente, non mi aspettavo nessun tipo di percorso: noi volevamo fare rap anche un po’ testardamente ed eravamo lontani dall’immaginare qualunque tipo di business. Ripensando a quel periodo, posso solo ringraziare Dargen per avermi fatto capire che avrei potuto fare rap bene e Chief per averci prodotto il cd!

B.: Musicalmente, Che bello essere noi è un po’ diverso da come molti se lo aspettavano. Anzi, direi che ha scatenato due reazioni contrapposte: c’è chi l’ha amato al primo ascolto e chi proprio non l’ha capito. Quali sono state le principali ispirazioni e cosa vi ha spinto in questa direzione?

G.: Credo che per “reazioni”, di qualunque tipo, tu ti riferisca in generale al mondo del forum su cui scrivi: un mondo super settoriale e ripiegato su se stesso. Questo disco è entrato al secondo posto nella classifica ufficiale dei dischi più venduti in Italia e rappresenta il più grosso risultato ottenuto dai Club Dogo, e un altrettanto grosso risultato per il rap italiano! Musicalmente lo riteniamo un passo avanti, non capisco a che “direzione” tu ti riferisca: la nostra intenzione era quella di fare un disco di hip hop italiano che spaccasse. L’album contiene alcuni dei brani più riusciti e significativi degli ultimi anni per la band, ad esempio All’ultimo respiro, Anni zero, Fino alla fine. Ognuno ha le sue opinioni, ma parlare di “non l’ha capito” mi fa sorridere, non è che sia così sperimentale o astruso che ci sia da tanto da capire.

B.: Correggimi se sbaglio, ma mi sembra che siate anche più incazzati e schifati del solito dalla società e dall’andazzo dell’ultimo periodo. Testi come Anni Zero o Qualcuno pagherà parlano fin troppo chiaro, e da quando è uscito l’album la situazione ha fatto in tempo a peggiorare ulteriormente…

G.: Anni zero è uno dei pezzi più forti della nostra produzione degli ultimi anni e siamo molto fieri del sound e delle trovate liriche. Comunque, è da Mi-Fist che osserviamo la società e la politica italiana e ne siamo schifati.

B.: Nell’album ci sono molti tributi alla cultura pop di massa, come JCVD (a proposito, il riferimento è anche all’omonimo film?) o Nuove Nike (a proposito, è un omaggio ai Run Dmc di My Adidas?). In America capita spesso; in Italia, invece, al posto vostro molti avrebbero scelto di tenere questo tipo di brano fuori da un album ufficiale e di sfruttarlo magari per qualche mixtape o produzione minore. Come mai questa decisione?

G.: Nuove Nike è uno dei pezzi favoriti dai ragazzi e da un certo tipo di feticista delle sneaker; è anche una delle tracce che suonano di più, se messe in play su un impianto degno. E’ ovvio che richiami ANCHE pezzi come My Adidas: è un omaggio a una delle sneaker hip hop per eccellenza. Comunque la Nike non ci ha dato una lira, forse un paio di scarpe. JCVD, invece, è un omaggio a un mito del cinema di serie-B per la nostra generazione: forse per apprezzarlo appieno bisogna essere nati nei primi anni ‘80. È sicuramente una traccia originale. Detto questo, mi fa sorridere parlare di produzioni minori in Italia, dove non si sa nemmeno la differenza tra mixtape e album. Noi mettiamo quello che vogliamo in un album, nessuno ha mai fatto questo genere di pezzi in Italia, e neppure pezzi come La Notte Prima, dove parliamo di paranoia, promiscuità sessuale e malattie veneree. Il fatto che tu dica che in America capita spesso, invece, lo prendo come un complimento.

B: Il vostro nuovo video è Cocaina. Tra l’altro, trasformare questo brano in un video è un’idea totalmente vostra, tanto che lo avete anche prodotto autonomamente, senza appoggiarvi alla Universal. Com’è nata questa scelta? E, visto che fate musica in un paese come l’Italia, non avete temuto neanche per un attimo la censura di radio e tv, per non parlare del Moige?

G.: Yo Clas! ha realizzato un clip fantastico e lontano dagli standard italiani: visto il contenuto forte, è ovvio che l’etichetta si sia dissociata legalmente. Chiaramente, comunque, si tratta di uno street-video. Non abbiamo temuto per un attimo la censura di radio e tv, visto che non è un progetto destinato ad esse.

B.: Alcuni hanno interpretato il testo di di DDD come una specie di velato dissing a Crookers e soci, ovvero a tutti quei producer che hanno cominciato con l’hip hop e poi sono emigrati verso i pascoli più prosperi della musica clubbin. L’ipotesi è corretta? E cosa pensate in generale di questo esodo, che effettivamente c’è?

G.: L’ipotesi è scorretta e demenziale. È un pezzo ironico che divinizza i giganti della dance (vedi Morillo, Tiesto eccetera); è anche un po’ una presa per il culo, ma prende per il culo anche i rapper. Non è che tutti quelli che non hanno sfondato col rap sono approdati alla dance. Soprattutto, il pezzo non parla di quello, ma dice “vorrei fare il dj dance e fare un sacco di soldi facendo meno fatica che a fare il rapper”. L’esodo non si può generalizzare: c’è gente brava come i Crookers e altri meno bravi. C’è un esodo altrettanto consistente verso il reggae-dancehall: ognuno è libero di fare quello che vuole. La mamma mi ha insegnato a fare il meglio che posso senza guardare/parlare male degli altri.

B.: La vostra intervista a Le Invasioni Barbariche ha colpito molto. Soprattutto perché voi, che di solito non le mandate a dire ai giornalisti, in questo caso siete stati molto più pacati del solito, e questo nonostante la Bignardi sembrasse parecchio prevenuta nei vostri confronti. Ci raccontate com’è nata la partecipazione alla trasmissione e che tipo di esperienza è stata?

G.: È nata perché le realtà più rilevanti della cultura e dello spettacolo vengono chiamate anche nei grossi show televisivi. In un momento in cui i Dogo entrano secondi in classifica, il Corriere gli dedica un paginone nell’edizione nazionale e gonfiano le librerie di tutta Italia presentando il nuovo cd, siamo trascesi dalla stretta scena hip hop e siamo diventati più un fenomeno di costume. Crediamo onestamente che ci siano stati alti e bassi nelle risposte… È evidente che la diretta con una personalità come la Bignardi è una situazione non facile e che prevede una certa educazione nelle risposte: non so cosa le gente pensa che siamo e cosa si aspetti da noi, forse che rompiamo lo studio televisivo! La conduttrice non era prevenuta nei nostri confronti ha avuto lo stesso atteggiamento un po’ polemico che ha con tutti gli ospiti, fa parte di lei ed è funzionale alla trasmissione. Al contrario, ci è stato dato molto spazio e siamo stati presentati come un “fenomeno” con un video di un-store che parlava da solo. Invece il filmato della scrittrice, ad esempio, era messo apposta per creare polemica.

B.: Restando in argomento, la stampa non sempre vi rende un buon servizio: spesso si tende a parlare di cliché e aspetti marginali della vostra musica, e il resto magari si perde nel discorso. Quali sono le domande che non vi fanno mai e a cui invece vi piacerebbe rispondere?

G.: Non posso biasimare chi è lontanissimo dalla comprensione di un fenomeno hip hop per vari motivi, principalmente perché non ha i riferimenti culturali sul rap mondiale necessari per poterne parlare: finisce che vivono sempre l’hip hop italiano come qualcosa di “inusuale”. Molti giornalisti sono così: nella cosiddetta stampa alternativa c’è spesso l’aggravante che, oltre a non saperne un cazzo, hanno come riferimento unico di rap italiano valido solo l’old school o le posse. Non hanno idea di quali siano gli artisti che spaccano in Usa e in Europa. Non fanno mai domande sulla linguistica, le metafore, le immagini che usiamo… Gli unici che hanno riconosciuto pubblicamente il peso dei nostri testi in tutti i sensi sono Linus e Nicola Savino a Deejay Chiama Italia, ed è stato per noi il riconoscimento più grande.

B.: Recentemente abbiamo pubblicato una lettera aperta di Fabri Fibra in cui si rivolgeva agli utenti di Hip Hop Hotboards che avevano commentato il suo ultimo album sul nostro forum. Se tu dovessi lanciare un tuo messaggio, una tua opinione, alle decine persone che hanno intasato con quasi mille post il topic dedicato a Che bello essere noi, cosa diresti?

G.: Ho trovato la lettera di Fabri molto interessante. Nonostante ciò, non ho nessun messaggio da lanciare agli utenti di questo o di altri forum: il web è ultra-democratico e chiunque può dire la sua e dire qualunque cosa, spesso non avendo competenza in materia. Per quanto riguarda i forum, cinicamente credo che l’80% degli iscritti non compri i biglietti dei live e i dischi, quindi il mio interesse è anche relativo. Le 60 pagine del topic che hai citato sono infarcite di tutto questo, ho troppo mal di testa e troppo poco tempo per leggere tutto… Non mi sembra il caso di dover convincere gli utenti che siamo bravi, siamo hip hop e altro: ognuno scrive quello che vuole. Posso essere d’accordo o meno sul loro pensiero, anche se di solito si tratta di hating gratuito o di commenti dettati da ignoranza musicale. Giusto sull’ultimo post che ho letto in questo momento: qualcuno dice che vedendoci ovunque “la Universal ha capito che deve sganciare i dindini per la nostra promozione”, con un velo di saccenza anche. È ridicolo! La label non paga gli spazi come il Chiambretti Night, ma sono gli spazi stessi che cercano l’artista quando è rilevante, che sia per vendite, perché ha creato un caso o perché è un fenomeno giovanile, eccetera eccetera. La major non distribuisce i soldi così, alla Paperon De Paperoni: se sei sotto contratto con la Sony o la Universal, ma nessuno ti vuole, nessuno ti vuole e nessuno ti passa. Ma è troppo lungo da spiegare ed è una battaglia persa, come contro la droga.

**B.: Progetti futuri? **

G.: Il tour parte dal sold-out dell’Alcatraz, le date su www.facebook.com/clubdogo. Comprate il cd originale, è un masterpiece del rap italiano.