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99 Posse: L'intervista

20-12-2009 Marta Blumi Tripodi

99 Posse: L'intervista

Premessa: questa intervista a ‘O Zulu è stata redatta più di un mese fa, ben prima che nella scena hip hop si scatenasse una vera e propria rivolta di popolo. Per chi nell’ultimo periodo fosse vissuto in una grotta, ricordiamo che il 28 novembre scorso i 99 Posse hanno vinto un premio come miglior gruppo hip hop, assegnato dalla rivista XL nell’ambito del MEI (Meeting Etichette Indipendenti). Non sono mancate le polemiche. Alcuni contestano il fatto che i 99 Posse non hanno mai fatto realmente parte della scena hip hop, altri puntano il dito contro un presunto conflitto di interessi (XL è un supplemento di Repubblica, e sarà proprio Repubblica a pubblicare in free download sul proprio sito i primi singoli dei 99 Posse). Avremmo voluto aggiungere in corsa una domanda a tema, ma purtroppo attualmente il gruppo è impegnatissimo e perennemente in giro per l’Europa, ragion per cui siamo ancora in attesa di un commento a caldo (o meglio, ormai a freddo): speriamo di potervi fornire una loro replica al più presto. Sia quel che sia, resta il fatto che come musicisti i 99 Posse sono apprezzatissimi dalla stragrande maggioranza degli ascoltatori italiani di rap e black music, nonché persone davvero disponibili e interessanti, perciò è con grande piacere che vi presentiamo questa intervista.

Blumi: Nel 2005 hai dichiarato in un’intervista a Focolaio.it che le possibilità che i 99 Posse si riunissero erano pari a zero. Eppure, cinque anni dopo, eccovi qui. Cosa vi ha fatto cambiare idea?

‘O Zulu: Il mondo in cui viviamo. Ai tempi ci eravamo sciolti perché la 99 Posse cominciava a starci un po’ stretta: ciascuno di noi aveva delle velleità artistiche e politiche che ci spingevano in direzioni diverse. Subito dopo lo scioglimento, infatti, c’è stata una vera e propria esplosione di attività e iniziative da parte di ogni singolo membro. Purtroppo, però, tutto questo non ha ricevuto grande attenzione da parte dei media, ma siamo comunque felici di aver intrapreso questa strada, perché sono state esperienze molto importanti per la nostra formazione politica, culturale e musicale. Nel periodo in cui ci eravamo sciolti, le nostre attività erano talmente tante che bastavano ampiamente a garantirci la tranquillità economica e anche la soddisfazione dal punto di vista politico e musicale. A un certo punto, però, ci siamo resi conto che se nessuno parlava più di noi, l’impatto che potevamo avere sulla politica italiana con il nostro messaggio era davvero ridotto. Ciò che ci è mancato maggiormente, insomma, è l’attenzione che il “marchio” 99 Posse ha sempre sollevato attorno a ogni sua iniziativa. Inoltre la gente, ogni volta che aveva l’occasione di dialogare con noi, ci chiedeva di riunirci. Ci siamo accorti che ci stavamo comportando come se il gruppo fosse una cosa nostra: in realtà è di tutti coloro che lo hanno supportato, lo hanno ascoltato, hanno contribuito a farlo diventare quello che è diventato. Il pubblico ci ha fatto capire in maniera molto esplicita che aveva bisogno di una voce diversa da quelle che si sentono di solito, tutte uguali, che si esprimono con il martellamento ossessivo tipico delle pubblicità. Fino a qualche anno fa, noi eravamo un piccolo ma efficace megafono che dava la parola a tutti coloro che non hanno potere, diritti, ricchezza. Abbiamo deciso di restituire questo megafono ai legittimi proprietari.

B: C’è stato un episodio in particolare che vi ha convinti a tornare insieme?

Z: Ci siamo rivisti dopo otto anni perché tutti e tre (‘O Zulu, Kaya Pezz8 e JRM, ovvero i membri storici del gruppo, ndr) partecipavamo a un concerto a Napoli a sostegno di Egidio, un compagno arrestato che aveva bisogno di fondi per le spese processuali. Visto che eravamo stati invitati tutti, abbiamo pensato che la cosa più logica da fare fosse salire sul palco insieme, dando vita alla prima vera reunion del gruppo. Non abbiamo fatto prove né abbiamo preparato una scaletta, ci siamo semplicemente presentati in scena e ci siamo ributtati nella mischia; e il live è andato davvero bene. In quel momento abbiamo capito che riunirci era la cosa giusta da fare.

B: Come mai, però, Meg non è più parte della vostra formazione?

Z: Come ti dicevo, l’idea di tornare a fare musica insieme è nata proprio da quel concerto, perciò la decisione è stata presa unicamente da chi era presente in quel momento. Non vogliamo negare l’importanza di Meg per la storia della 99 Posse, ma bisogna tener presente che lei è entrata a far parte della band parecchio tempo dopo, rispetto a noi. Il suo ingresso è legato a un periodo in cui ci ponevamo politicamente il problema di allargare il nostro “bacino di utenza”, utilizzando le capacità espressive e di scrittura di una persona che condivideva le nostre idee di sinistra, ma non aveva mai condiviso il nostro percorso di militanza. La sua presenza ha reso il gruppo ancora più unico e singolare; in questo momento, però, non abbiamo davvero l’esigenza di addolcire il messaggio e di farci comprendere da chi non ci comprende. Abbiamo semmai l’esigenza opposta, ovvero quella di compattare in un unico fronte tutti coloro che non ne possono più e cercano un cambiamento reale e radicale. Insomma, per dirla in due parole: nella fase che stiamo attraversando a noi non è venuto in mente di chiamare Meg e a Meg non è venuto in mente di chiamare noi.

B: Rimanendo in tema della vostra storia politica, in questi ultimi anni i partiti comunisti sono usciti dal parlamento. Non vi è mai venuto il dubbio che un gruppo come il vostro potesse essere considerato ormai anacronistico da quel pubblico che ha decretato il fallimento di un certo tipo di progetto politico?

Z: In realtà, questa è proprio una delle motivazioni di fondo per cui abbiamo deciso di tornare. La cosiddetta “crisi della sinistra” non è una crisi di valori, ma di partiti, che evidentemente nel tempo hanno perso la capacità di parlare la lingua della gente e di costituire un’alternativa. Vicende elettorali, discussioni interne e divisioni non fanno che allontanare la gente dalla politica, ma il bisogno di partecipazione e la voglia di cambiamento continuano ad esistere. La gente avrà anche smesso di votare comunista, ma non ha mai smesso di chiedere a gran voce il ritorno di un gruppo comunista come il nostro, quindi evidentemente questo ideale ha ancora senso e c’è chi ne sente l’esigenza. In questo momento ci ritroviamo a colmare un vuoto che la sinistra ha lasciato, anche se non sarebbe il nostro lavoro né il nostro obbiettivo. Il nostro pubblico non ha perso la voglia di protestare e di opporsi: ha semplicemente perso la fiducia in coloro che avevano votato per farlo. In sostanza, noi siamo per la conservazione del metodo, non per la conservazione dei leader e dei partiti che hanno dimostrato di avere fallito. La lotta di un’intera popolazione oppressa e unita ha sempre funzionato, è un sistema antico e ben collaudato.

B: Cambiando argomento, sul vostro sito vi presentate come “gruppo indipendente”, ma non risulta che voi abbiate firmato con nessuna etichetta, neppure piccola: qual è la vostra situazione discografica, attualmente?

Z: Al momento abbiamo ancora una questione contrattuale aperta con una major, che però non stiamo proprio considerando. Quando ci siamo sciolti non abbiamo minimamente pensato al fatto che, per contratto, eravamo ancora obbligati a produrre un altro album insieme; abbiamo rischiato una causa milionaria, ma abbiamo dato la priorità a considerazioni politiche e artistiche. Allo stesso modo, adesso non ci stiamo interessando a quale sarà il destino “discografico” del nostro prossimo lavoro: ci interessa solo produrre una serie di canzoni reali, genuine. Quando ne avremo in numero sufficiente da raccoglierle in un nuovo album, ci porremo il problema di come pubblicarlo. Quello che ti posso dire con certezza è che stiamo chiudendo una mezza dozzina di pezzi nuovi e ne abbiamo un’altra decina in fase embrionale. Il primo test per questi nuovi brani sarà portarli ai live, una prova del fuoco a cui noi teniamo tantissimo: il disco che ci ha più portato fortuna è stato il primo, Curre curre guagliò, che è nato proprio mentre eravamo in tour per i centri sociali di tutta Italia. Ci piacerebbe che il processo creativo fosse lo stesso, perché per noi è così che dovrebbe nascere la musica: con calma, confrontandosi con il pubblico, facendosi influenzare dal suo giudizio e dal suo calore. Tra l’altro, abbiamo anche intenzione di pubblicare alcune canzoni su Internet: il nostro primo inedito, Italia a mano armata, uscirà il mese prossimo in free download sul sito di Repubblica. L’album vero e proprio, invece, probabilmente arriverà alla fine dell’estate prossima.

B: A proposito di questo, sul vostro sito auspicate che la discografia passi a nuovi modelli di business, compatibili con il nuovo progresso tecnologico. A cosa vi riferite esattamente?

Z: Il concetto è molto semplice: visto che la musica è un veicolo di pensieri e di cultura, dovrebbe essere accessibile gratuitamente o quantomeno a prezzi consoni. Ovviamente questo non è possibile, perché le grandi multinazionali della discografia vendono la musica come se fosse una saponetta o un pacco di pasta e quindi cercano di trarne il massimo profitto. Dal nostro punto di vista, non solo di musicisti ma anche di ascoltatori, abbiamo deciso di cercare una strada alternativa. Innanzitutto costruendo un nostro studio di registrazione, in modo da incidere i nostri brani con il minor costo possibile e di emanciparci dalle case discografiche, a cui normalmente ci si rivolge proprio per non dover rimettere di tasca propria i soldi della produzione. In secondo luogo, abbiamo deciso di puntare sulla diffusione live. Fino a un secolo fa i musicisti venivano pagati praticamente solo per la loro attività dal vivo, perché non esistevano supporti fonografici; se volevi ascoltare qualcosa dovevi andare a bussare alla porta di un musicista e convincerlo a suonartela. Se tutta l’industria musicale si accontentasse dei proventi dei concerti, rinunciando ai profitti delle vendite – che per gruppi della nostra portata sono davvero irrisori – tutto funzionerebbe molto meglio.

B: Parlando di musica in generale, come mai un gruppo impegnato come voi ha scelto di esprimersi attraverso rap e raggamuffin? Quando avete cominciato a suonare, agli inizi degli anni ‘90, già si delineavano come generi piuttosto materialisti e commerciali…

Z: C’è da dire che, parlando di contenuti, i nostri punti di riferimento sono sempre stati molto particolari e specifici: alcuni gruppi punk e hardcore, i Public Enemy per il rap e, per il reggae, Macka B, un toaster giamaicano che nei suoi testi parla di rispetto, diversità e fraternità. Quello che ci colpì immediatamente di rap e raggamuffin non fu tanto il messaggio, ma piuttosto la tecnica di esecuzione, che ci sembrava rivoluzionaria e democratica. Rendeva possibile per la prima volta esprimersi in musica senza saper suonare uno strumento o cantare; anzi, non c’era neppure bisogno di spendere dei soldi, bastava prendere un vecchio disco e “prendere in prestito” la strumentale sul lato B. In quel periodo, noi non ci potevamo permettere l’acquisto di strumenti, né tanto meno le lezioni, ma la voglia di suonare era tanta e con il rap abbiamo potuto iniziare da un giorno all’altro. Nella realtà dei centri sociali degli anni ‘80, tutto questo ci sembrava un miracolo: eravamo finalmente in grado di far sentire la nostra voce, in un periodo in cui tutto ciò che passava alla radio sembrava rispecchiare l’edonismo Reaganiano. Secondo me, oggi l’avvento di Internet e delle nuove tecnologie ha portato ancora più in là il concetto di democraticità dell’hip hop.

B: Sempre a proposito dei canali con cui vi esprimete, voi utilizzate moltissimo il dialetto, cosa che sembra un po’ in contraddizione con la vostra voglia di comunicare un messaggio “universale”: alla fine, solo i vostri fan della zona di Napoli riescono a cogliere appieno i vostri testi…

Z: Ma questo è il nostro modo di esprimerci, ci viene naturale. Scrivere una canzone in una forma che non corrisponde alla nostra natura sarebbe una forzatura, che renderebbe anche il nostro messaggio meno vero e spontaneo. Vorrei sottolineare, però, che noi non abbiamo scelto il dialetto per questioni di rivendicazione culturale o appartenenza, ma proprio perché è il linguaggio che utilizziamo tutti i giorni parlando tra noi. Certo, se io uso il verbo “arravogliare” c’è il rischio che uno di Bolzano non mi capisca, ma dopo che l’ho utilizzato una mezza dozzina di volte, l’ho trascritto nei libretti e l’ho contestualizzato, probabilmente anche lui inizierà a capirne il senso. È anche un modo per costruire un modello multiculturale in un periodo in cui la globalizzazione sembra spingere il mondo in un’unica direzione. L’unicità linguistica spesso diventa il sinonimo di un pensiero unico che, ovviamente, non ci rappresenta.

B: Usciamo per un attimo dall’ambito musicale. Tu hai viaggiato moltissimo e, data la tua formazione politica, sei senz’altro la persona più adatta per consigliarci: considerando che la situazione italiana non sembra migliorare, che paese ci consiglieresti per emigrare?

Z: (Sghignazza, ndr) Non penso che ce ne sia uno. Se però dovessi pensare a un posto dove scappare se fossi ricercato da tutta la polizia europea, credo che andrei in Chiapas, una zona del Messico in cui alcuni volenterosi gruppi di guerriglieri sono riusciti a liberare delle zone piccole, ma determinanti. Hanno creato dei villaggi rivoluzionari in cui vige una democrazia reale che noi Paesi occidentali, che esportiamo la democrazia a suon di guerre, ci sogniamo. Anche lì, però, è difficile: i guerriglieri zapatisti sono tra i principali produttori di caffè del mondo, eppure nei negozi del loro Paese si trova solo il Nescafè. Devono vendere cinquanta chili di patate per poter ottenere i soldi necessari a comprare un pacchetto di patatine, e via dicendo. Un posto perfetto non c’è, insomma, ma mi piacerebbe essere lì e far parte di quel fermento culturale. O anche in Kurdistan e in Palestina, ma da quelle parti purtroppo le possibilità di sopravvivere sono scarse, perciò confermo la mia scelta: Messico, Chiapas.