Giuseppe “U_Net” Pipitone si occupa da anni di hip hop come movimento culturale a 360° legato indissolubilmente alla politica e alla storia sociale Americana del XX secolo. Il suo primo libro Bigger than Hip Hop (Agenzia X, 2006) è una raccolta di saggi e interviste e ha già riscosso enorme successo.
FxLd: Chi è U-Net e cosa significa per te lo slogan “Bigger than Hip Hop” ?
U-Net: u.net è un acronimo che sta per underground_network e altro non vuole rappresentare che l’idea una rete di artisti, intellettuali e militanti, dispersi geograficamente, che abbiano l’obiettivo di creare un vero e proprio dibattito culturale e politico al di fuori degli ambiti puramente commerciali. Più informazioni a riguardo le potete trovare qui: http://www.myspace.com/u_net.
Bigger than Hip Hop, espressione che è il titolo di una delle canzoni più potenti dei Dead Prez, è la prima realizzazione dell’underground network. Il libro, infatti, si avvale dei contributi di una ventina di personaggi che sono tra i principali esponenti della generazione dell’Hip Hop. Prendendo quest’espressione come titolo del mio primo progetto editoriale ho cercato di far comprendere ai lettori la necessità e l’importanza di analizzare e contestualizzare la cultura Hip Hop (così come qualunque altra forma d’espressione culturale) tenendo in debita considerazione la storia, la tradizione culturale e il contesto socio-economico che caratterizzano la comunità di cui sono espressione i suoi principali esponenti.
F.L. Nell’introduzione ricordi il tuo primo contatto con il mondo dell’Hip Hop attraverso It takes a nation of a million to hold us back dei Public Enemy (1988), cosa ricordi di più di quegli anni?
U-N: Beh della metà degli anni Ottanta ho dei ricordi meravigliosi… Nell’88 avevo 16 anni e benché avessi avuto già i primi assaggi di musica rap con Big Daddy Kane, Kool Moe Dee, Erick B & Rakim, Run-DMC e LL Cool J non avevo la benché minima idea di che cosa fosse l’Hip Hop né della storia e complessità di questa cultura. Mi piacevano quelle basi scarne, la batteria elettronica e bassi potenti, quelle rime ipnotiche, mi piaceva l’idea che il rap fosse talmente vario (com’è cambiato nella versione presente…) da potermi sconvolgere con ogni nuova uscita discografica… ma fu solo quando mi regalarono It Takes a Nation of Million to Hold Us Back, il secondo album dei Public Enemy, che rimasi davvero folgorato! Non essendoci internet né riviste o programmi televisivi che parlassero di questa nuova cultura, impossibilitato a rivolgermi verso forme di informazione esterne, dedicai tutte le mie attenzioni ai testi dai rapper. Iniziai a scoprire un mondo che mi affascinava moltissimo e fui attratto, spronato dalle parole di Chuck D, dalla storia tormentata dei neri in America. A distanza di vent’anni posso affermare senza dubbio – non che ne fossi minimamente cosciente all’epoca – che quei mi spedirono in un viaggio tra realtà e fantasia che ha condizionato la mia vita successiva. Non ho mai capito che cosa scattò quel giorno, che fuoco mi bruciasse dentro in quegli anni… ho smesso da tempo d’interrogarmi sul motivo (che non ho ancora del tutto decifrato) ma quel fuoco continua a bruciare. Impossibile domarlo.
F.L.: A New York ho sentito Chuck D parlare del valore della cultura (nel senso più ampio del termine, cioè quello legato alla conoscenza), lo stesso afferma Afrika Bambaataa parlandone come del “Fifth Element”.
Pensi se ne possa parlare anche oggi o credi sia un concetto limitato solo a certe persone e a certe realtà particolari?
U-N: Il problema di come fare interagire componente politica e componente culturale per creare un movimento credo sia un argomento d’interesse generale per le sue ripercussioni nel nostro quotidiano. Va da sé, però, che il dibattito e l’impegno attorno a questi temi riguarda un numero ancora esiguo di artisti, intellettuali e militanti. La sfida è proprio questa… perché it’s Bigger than Hip Hop! I gravi problemi economici, politici, assistenziali ed educativi che gravano sull’america nera contemporanea, solo ufficialmente integrata, hanno creato una generazione di giovani neri stigmatizzati da questa società come ignoranti violenti per lo più appartenenti al sottoproletariato.
Un’immagine falsa e negativa, che molti rapper hanno contribuito a perpetuare con i loro testi. Vi siete mai chiesti come si è passati dai protagonisti della Golden Age, di estrazione pseudo borghese, impegnati a diffondere edutainment, alla fase gangsta di metà anni novanta, i cui protagonisti sono giovani che non hanno mai avuto alcuna reale possibilità d’educazione e mobilità sociale? Basta guardare alla politica di quell figlio di puttana di Ronald Reagan e alle conseguenze che le sue scelte, nonché quelle di molte amministrazioni cittadine in grave crisi economica, hanno avuto sulla popolazione di colore negli Stati Uniti. Dal disimpegno degli artisti, capaci di galvanizzare con i loro slogan migliaia di giovani aiutando in questo modo al rafforzamento di un movimento, al disimpegno dei fan, dei giovani, e alla scomparsa dell’impegno politico. Questo per rispondere in sintesi ad una domanda molto complessa.
F.L.: Come si è evoluto, secondo te, negli anni il rapporto tra Hip Hop e politica?
U-N: Altra domandina leggera… L’Hip Hop nasce come reazione alla politica d’abbandono e isolamento del Bronx degli anni Settanta. Nasce come forma d’espressione e aggregazione alternativa giovanile. Nasce come inno alla festa, al ballo e al divertimento, necessari per scrollarsi di dosso le brutture del quotidiano. L’Hip Hop racconta in rima la complessità delle più diverse esperienze di vita. Inevitabile, dunque, che vi fossero artisti che avrebbero espresso con il proprio rap l’oppressione e la disperazione dei giovani di colore che popolavano i ghetti neri d’America. Non era scontato, però, che il primo artista (testimonianze in pubblicazioni recenti hanno evidenziato come Flash e Melle Mel provarono in tutti i modi a rifiutare la canzone che Silvia Robinson aveva già fiutato come successo commerciale e di critica a livello internazionale) a pubblicare un disco Hip Hop impegnato fosse il re della scena, Grandmaster Flash con i suoi Furious5; il titolo del disco, The Message (1982). Detto questo è ora importante provare ad allargare la prospettiva d’analisi cercando di comprendere come il Movimento di Liberazione Nero fosse stato duramente colpito attraverso una serie di operazioni clandestine, denominate COINTELPRO, la cui efficacia e scientificità portò ad un vuoto politico tale che, nella seconda metà degli anni Ottanta, quando i Public Enemy articolarono nei loro testi le idee radicali di Malcolm X, di Farrahkan e del Black Panther Party per la nuova generazione, colpirono un nervo scoperto della comunità, colmarono un vuoto inespresso e furono erroneamente accolti come i leader di un nascente movimento politico. Questo tipo di reazione è comprensibile tenendo a mente le cose ap
pena dette. L’elemento culturale e quello politico devono essere componenti complementari nello sviluppo individuale così come nell’evoluzione di un movimento politico; devono convivere e contaminarsi ma non possono essere potati avanti dai medesimi individui. Artisti e militanti hanno funzioni complementari ma differenti; i primi impegnati nel galvanizzare la folla dei giovani fan attorno a determinati temi, i secondi nel lavoro d’organizzazione quotidiana che fornisca guida e struttura per il movimento. L’errore commesso verso la fine degli anni Ottanta fu quello di etichettare artisti, non solo come militanti, bensì come leader politici. Chuck D e Paris infiammavano gli animi e le menti di migliaia di giovani in quegli anni ma nella comunità nera erano state distrutte le più grosse strutture organizzative e non avrebbero potuto essere quegli artisti, impegnati nei loro tour a diffondere la voce della radicalità nera, a ricrearle… avrebbero e hanno contribuito a popolarle però! Un contributo non indifferente, quando sono riusciti a coinvolgere giovani, che ripetevano slogan ai loro concerti, ad impegnarsi per migliorare le condizioni di vita della propria comunità. Chi vi scrive ha preso questa via…Compresa la lezione del passato, oggi una nuova generazione d’intellettuali, militanti e artisti stanno gettando le basi per la formazione di un’organizzazione nera che possa avere un impatto reale nella società statunitense.
F.L.: Progetti per il futuro?
U-N: Renegades of Funk è il titolo del nuovo progetto editoriale a cui sto lavorando che vedrà la pubblicazione nel maggio del 2008. Renegades of Funk è una storia orale sulle origini della cultura Hip Hop, sulle gang e la vita nel Bronx degli anni Settanta, sul periodo in cui la old school non aveva ancora un nome. Anche questo progetto sarà un’opera collettiva nella quale hanno contribuito numerosi pionieri della cultura Hip Hop (DJs, MCs, B boys, Writers) nonché molti dei fotografi che hanno contribuito a creare l’aura del mito attorno a quell’esplosione di creatività giovanile. Un tentativo di ripercorrere i primi dieci anni della cultura Hip Hop, dai parchi e centri comunitari del Bronx fino ai giorni di Rapper’s Delight e all’esplosione mediatica del fenomeno dei primi anni Ottanta, attraverso le testimonianze dei protagonisti di quella rivoluzione culturale. A questo nuovo progetto parteciperanno anche alcuni artisti italiani tra i quali Esa, Danno, Lord Bean, Militant A & Bonnot, Gopher, Pandaj e spero altri ancora. In che modo contribuiranno al progetto? Iscrivetevi alla newsletter di Hip Hop Reader e visitate il sito ( www.hiphopreader.it ) per saperne di più. Alcune anticipazioni sono già ondine, come ad esempio gli estratti dell’intervista a DJ Disco Wiz e a Charlie Ahearn. Check the shit out!
Per maggiori informazioni: