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Giallo Man: l’intervista

02-03-2022 Haile Anbessa

Giallo Man: l’intervista

Gianlorenzo Scarpa è da tutti conosciuto sulla scena come Giallo Man. Un vero e proprio veterano della scuola veneziana che si è fatto conoscere e apprezzare negli anni in tutta Italia e anche all’estero, con i suoi dischi e con le sue partecipazioni a importanti festival reggae. È uscito da poco il suo nuovo album Bonfyah e noi di Hotmc.com lo abbiamo intervistato con grande piacere.

Haile Anbessa: partiamo subito dal nuovo disco Bonfyah. Che cosa puoi dirmi a riguardo?
Giallo Man: Bonfyah è un disco che è uscito lo scorso 8 febbraio e che contiene 11 brani inediti. Abbiamo già lanciato il video del primo singolo, un video particolare che mi riprende mentre sto scrivendo la canzone. Un momento intimo che rappresenta in che modo un cantautore prenda ispirazione per le sue canzoni. La genesi di questo video è anche particolare dato che incontro molti artisti che vengono a Venezia per le loro creazioni e nel caso specifico l’ho realizzato con un collettivo sudafricano che ho aiutato, portandoli in giro in barca per il loro documentario. Il regista mi ha chiesto di portare il gruppo nei luoghi della laguna dove prendo maggiore ispirazione ed ecco la nascita del video del singolo.

H.A.: che cosa ha di speciale questo album rispetto a quelli passati?
G.M.: Bonfyah è una vera e propria fotografia, dato che ho scritto tutti i pezzi nel giro di sei mesi. Ho scritto con una certa disciplina, provando a scrivere tutti i giorni allo stesso orario, ossia alle 7.40 del mattino. Una vera e propria palestra creativa. Ho riempito quaderni di testi che poi ho selezionato e trasformato in canzoni con accordi. Ho quindi coinvolto i musicisti della mia band per gli arrangiamenti e loro mi hanno dato un grandissimo contributo per la realizzazione dell’intero album. La pandemia, paradossalmente, ci ha dato una mano per coordinarci al meglio anche a distanza.

H.A.: e perché il nome Bonfyah che in italiano significa falò?
G.M.: quella dei falò è una situazione a cui sono molto legato. Qui a Venezia c’è un’isola che si chiama Lido di Venezia appunto, dove d’estate andiamo spesso a fare dei falò e facciamo delle feste con percussioni e impianti, essendo un po’ lontani dal centro abitato. La cultura reggae qui a Venezia è stata aiutata moltissimo da questi momenti di condivisione. Attorno al fuoco ci si racconta e ci si ascolta a vicenda, è un punto d’incontro ed è quello che per me rappresenta la musica, ossia un linguaggio universale di condivisione, comprensibile a tutti.

H.A.: come hai cominciato con il reggae? Perché proprio il reggae rispetto agli altri generi?
G.M.: mi sono appassionato al reggae dopo avere letto un libro su Bob Marley. Ero molto giovane e la sua storia mi ha appassionato. Ho quindi cominciato ad ascoltare i suoi primi album come Burning e Catch a Fire e a leggere i suoi testi. Sono passato poi ai Black Uhuru e Aswad, approfondendo così il genere. Del reggae mi piace soprattutto il senso di indipendenza che esprime, lo stesso della filosofia rasta. È una musica mistica che propugna l’autodeterminazione e la sostenibilità, da sempre, fra uomo e uomo e fra uomo e natura. Il reggae porta dei valori importanti. In più, oltre a farti pensare e meditare, ti fa anche ballare in maniera sfrenata. Un’altra musica che mi coinvolge molto è il gospel ma il giro di basso del reggae per me è imbattibile.

H.A.: la scuola veneziana, per quanto riguarda il reggae, ha fatto la storia del genere con artisti come te, Pitura Freska, Toni Moretto o con Steve Giant con il suo Rastasnob. Perché, secondo te, questa realtà è così fertile?
G.M.: sicuramente per fattori naturali principalmente, perché a Venezia abbiamo altri ritmi. A Venezia non si usa la macchina ma si cammina, si va più piano. È una città ancora a misura d’uomo dove il ritmo è meno frenetico rispetto ad altre realtà. Venezia è anche un posto fantastico perché si può passare dalla confusione del centro storico alla calma della laguna, in un attimo. Ha un equilibrio perfetto dove si può respirare l’orizzonte, senza rinunciare però alla sua identità cosmopolita e ai suoi scambi culturali. Non dimentichiamoci, poi, che nel 1970 Haile Selassie Ras Tafari è venuto qui in visita, alloggiando in Piazza San Marco all’hotel Danieli e il popolo veneziano lo ha accolto molto calorosamente, per la sua grande umanità.

H.A.: hai citato il Ras Tafari. Mi parleresti della tua spiritualità?
G.M.: tralasciando l’aspetto mistico, per me Haile Selassie è stato un leader mondiale eccezionale che ha lasciato all’umanità discorsi e parole di grandissima saggezza. Io mi riconosco nella visione della vita rasta e sono convinto che nulla accada per caso. Il fatto che io sia entrato in contatto con determinati valori attraverso il reggae per me ha un grande significato. Lui per me quindi ha rappresentato il tramite per giungere a questi valori e alla spiritualità in generale. La sua venuta sulla Terra si è verificata proprio per ricordare all’umanità intera certi valori, opposti ai vari ismi e schismi. Per i rasta nessuno prevale sull’altro ma ognuno contribuisce e si autodetermina. Ripropongo spesso i suoi messaggi nelle mie canzoni, come ad esempio quello che ha esposto all’Assemblea delle Nazioni, dopo l’invasione fascista dell’Etiopia. In questa occasione ha avuto modo di affermare che tutti gli abitanti del pianeta dovrebbero rinascere come cittadini di una nuova razza, quella umana, abbandonando le differenze volute dai governanti che pensano solo al divide et impera. Alla fine ognuno di noi su questa Terra vuole le stesse cose: pace, serenità, cibo per vivere, un tetto sopra la testa e amore, quella forza che dà veramente qualità alla vita.

H.A.: parlando di amore, è vero che canti le serenate sulle gondole?
G.M.: assolutamente sì e ne vado particolarmente orgoglioso. È un’attività che ho cominciato una decina di anni fa e mi permette di cantare canzoni tradizionali veneziane, nel pieno spirito del roots & culture. Queste sono le mie radici e quindi sono onorato di portare avanti certe tradizioni. Mi sono appassionato, approfondendo questo genere, spesso inglobando questa cultura, sconosciuta ai più, nelle mie canzoni reggae. In questo modo posso anche tramandare questo retaggio che altrimenti, con il tempo, morirebbe assieme agli ultimi suoi cantori.

H.A.: tu sei un artista molto eclettico che spazia dal roots alla dance hall. Su quale ritmo ti trovi meglio?
G.M.: certamente su quel suono roots anni Ottanta, alla Roots Radics per intenderci. Sono stato tre volte in Giamaica e due volte in Africa quindi per me nel reggae è fondamentale anche la dimensione del ballo. Quindi apprezzo anche la dance hall. purchè non sia slackness fine a se stessa. I testi monotematici non mi piacciono mentre, se ad esempio il sesso diventa una celebrazione della vita, allora posso comprenderlo. Anche in quel tipo di ritmi ci può essere un’energia positiva. Mi piace molto, ad esempio, la dancehall che fanno Chronixx o Kabaka Pyramid, con un ritmo molto ballabile ma un testo profondo.

H.A.: perché secondo te il rap è diventato main stream qui da noi mentre il reggae no? E nel caso sarebbe stato un bene se lo fosse diventato?
G.M.: ti posso dire che il rap è ormai la musica commerciale da almeno vent’anni, non solo in Italia ma nel mondo. Ha inglobato tanti altri generi dentro di sè, pensiamo ad esempio al Nu Metal. Il reggae potrebbe essere altrettanto duttile ma non vuole tradire la sua filosofia. Mantiene ancora dei valori mentre l’hip hop è diventato l’ingrediente di tanti generi e stili diversi, snaturandosi un po’. Sarebbe bello che il reggae arrivasse certamente a più gente possibile però ci sarebbe il rischio di svendersi.

H.A.: il tuo stage name Giallo Man è un omaggio al grande Yellowman?
G.M.: no, a dire il vero è legato al mio nome Gianlorenzo, per cui tutti mi chiamavano Giallo come abbreviativo, fin da piccolo.

H.A.: chi sono i nomi musicali che al momento ti piacciono di più e con cui magari ti piacerebbe fare un featuring?
G.M.: apprezzo molto Lutan Fyah e mi piace tutta la sua produzione. Mi piacciono molto anche Chronixx e Protoje, anche se ultimamente non sento un grande rinnovamento in Giamaica, dal 2015-2016. Qualche tempo fa era uscito anche l’album Black Gold di Samory I che mi era parso un ottimo lavoro ma l’artista si è un po’ eclissato. Per quanto riguarda l’Italia, apprezzo molto il lavoro di Paolo Baldini, dei Mellow Mood, la voce di Forelock ma anche per l’Italia non vedo tanta aria di novità. Il suono è sempre più o meno quello. Altri esperimenti recenti snaturano un po’ l’essenza del genere invece. Io non mi ci riconosco molto.

H.A.: stai già lavorando a qualcosa di nuovo?
G.M.: assolutamente sì, visto che sono una fucina di idee. Ho già una decina di canzoni già pronte, frutto del lavoro di scrittura forsennato di Bonfyah. In aggiunta a questo poi, sto cominciando un progetto in cui la musica popolare veneziana è al centro di un lavoro in cui tento di fondere un suono reggae moderno con canzoni folk di Venezia.