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Fahbro: l’intervista

14-12-2020 Haile Anbessa

Fahbro: l’intervista

Fahbro, all’anagrafe Fabrizio Fiorilli, classe ’86, fin dall’inizio si appassiona e av- vicina alla musica, grazie anche a suo fratello maggiore, Viktor, concentrandosi, in particolare, sull’aspetto culturale e sul messaggio della Black Music. Nel 2010, insieme ad altri attivisti, crea un collettivo chiamato PSALM (Powerful Souls and Lighted Mind). Nel 2015, Psalm Collective produce la prima release in vinile chiamata Footsteps of Madiba, con la collaborazione di artisti quali Macka B e Paolo Baldini. Nel 2016 Fahbro si trasferisce a Bologna dove inizia a collaborare con artisti come Dj Lugi e the Mixtapers. Il 2017 è l’anno di ‘Addis Zemen’, un nuovo inizio, un viaggio a cavallo tra dub e reggae ricco di messaggi che catapulterà l’ascoltatore in un mood danzante ma al contempo riflessivo e meditativo.

Haile Anbessa: come ti sei avvicinato alla conscious music?
Fahbro: nel corso della mia vita ho avuto un percorso musicale segnato, sin da giovane, dalla musica underground. Quando avevo circa 15-16 anni, i miei coetanei ascoltavano i vari “hit mania dance”, io con mio fratello Viktor che mi ha fatto da chioccia, sono stato “iniziato” a Bob Marley e alla musica Rap. Sono cresciuto con il mito di Bologna come “capitale” del Rap italiano, con SXM,
con il mito di Joe Cassano, Inoki, con la scuola di DjLugi (con cui ho avuto la fortuna di condividere ore in studio di registrazione) e con la dicotomia Tupac-Biggie. Io, ci tengo a precisarlo, ho sempre parteggiato per Tupac. Andando avanti, inevitabilmente la ricerca mi ha portato ad analizzare i testi ed i contenuti che sono dietro la musica del Rap e di Marley, a comprenderne i significati, lo slang ed anche l’humus culturale. Così, attraverso le canzoni di Tupac ho iniziato a comprendere e “studiare” il movimento delle Black Panther, quello per i diritti civili degli afroamericani in USA, e attraverso i testi di Marley, mi sono avvicinato sempre più, in un crescendo di interesse, alla fede ed alla spiritualità Rastafari ed ovviamente a tutta la scena reggae. La musica mi ha spinto ad approfondire la nascita e l’evoluzione di movimenti sottoculturali, di resistenza, di lotta e ad analizzare l’impatto sociale che ha avuto nel dispiegarsi nella Storia. E’ stata una delle mie “insegnanti” più care.

H.A.:quando hai iniziato a produrre?
F.: la musica è stata da sempre presente nella mia vita. Infatti, quando ero piccolo, intorno ai 7-8 anni, mia nonna pagò un insegnante per impartire lezione di pianoforte a me ed ai miei cugini una volta a settimana. Siamo 12 nipoti, ma allora studiare pianoforte non mi sembrava cool, lo ritenevo poco interessante, perchè preferivo giocare a basket tutto il tempo che avevo a disposizione oltre la scuola. Decisamente altri tempi. Mi sono interessato alla produzione musicale relativamente tardi, intorno ai 18 anni, quando con il mio primo “collettivo” reggae dancehall di Campobasso, gli Almighty Squad, abbiamo iniziato a registrare i primi dubplates. E’ partita così la curiosità sulle varie tecniche di registrazione, sull’attrezzatura da studio, e poi pian piano anche sulla vera e propria produzione musicale. L’interesse verso il mondo audio professionale, mi ha portato a intraprendere un percorso di studi terminato con un ‘Bachelor of Arts in Commercial Music’ presso la University of West Scotland dopo circa 4-5 anni di studio in Italia.

H.A. hai dei modelli artistici di riferimento sia a livello di produzione che a livello di artisti/cantanti?
F.: da buon nerd e audiofilo, ma anche da producer, ho diversi punti di riferimento che mi fanno sognare e vibrare forte. Ammiro tantissimo il lavoro di un audio engineer italiano molto giovane, che ha già vinto un Grammy Awards ed ha lavorato con nomi come Jorja Smith, Sam Smith, Mark Ronson, Alicia Keys, Ezra Collective, tale Riccardo Damian, nome che ai più non dirà nulla. In ambito reggae, invece, sono affascinato tanto dall’approccio in studio di Dj Afghan, storico produttore italiano che ha l’ossessione per il suono originale del roots e dei riddim ben costruiti dalle backing band in recording room. Mi lascio molto ispirare dalle produzioni e dalle sonorità dub che escono dall’Alambic Conspiracy Studio di Paolo Baldini Dubfiles, con cui ho anche un ottimo rapporto personale, al quale invio costantemente le mie produzioni per avere linee guida e feedback schietti e sinceri. Amo follemente tutto il movimento del Roots Revival jamaicano, da Micah Shemaiah a Protoje, passando per Etana, Jah9, Kazam Davis (con il quale ho anche collaborato nel mio precedente lavoro Addis Zemen).

H.A.: cosa pensi di quel tipo di reggae/dancehall non necessariamente conscious ma che parla delle realtà più difficili in giro per il mondo?
F.: credo che ognuno ha diritto di esprimersi attraverso la musica, secondo i temi e i testi che ritiene più opportuni o più cari a se stesso, sempre rispettando però i limiti di decenza linguistica. Penso non sia questione di conscious o di generi musicali, ma piuttosto che la questione sia essere “real”, di essere vicini alla realtà che si vive, di essere connessi con la persona che si è, e di non far prevalere il personaggio sulla persona. Pertanto, non ho nulla in contrario se si parla di realtà difficili, anche in termini tuff (tough) and ruff (rough). Ci sta l’incazzatura e la rabbia del momento in un testo particolarmente tagliente. Non sopporto, però, gli stereotipi, non sopporto i personaggi, non sopporto la violenza lessicale e linguistica. Oggi, purtroppo, ci si focalizza più sul personaggio, sui tatuaggi, sugli eccessi, sull’estetica e non sulla musica, sugli album, sui contenuti. Questo è gossip non musica, è solo uno show spettacolarizzato da Instagram, o da qualsiasi altro social. Questo approccio di “marketing” estremo ed eccessivamente aggressivo non ha fatto altro che danneggiare la musica stessa. Ahimè. Attualmente il minimo comun denominatore di tanti generi musicali, mainstream e non, sono i testi scabrosi, poveri, decadenti, ripetitivi e svuotati di ogni significato profondo. Il sessismo, l’estremo arrivismo, il capitalismo musicale fatto di Bling Bling, Bitches, Ganja, Flex ecc. No, questi stereotipi non mi riguardano, non mi interessano. Non fanno parte della mia musica, della mia realtà, della mia visione.

H.A.: come è nato il collettivo Psalm e cosa si è prefissato dalla sua nascita?
F.: il collettivo è nato come un gruppo di amici fraterni che avevano la necessità di cambiare in meglio la realtà cittadina di un piccolissimo capoluogo di regione, Campobasso, di creare un attivismo socio-musicale in una realtà quanto mai piatta e monotona. Psalm è un acronimo che sta per Powerful Souls And Lighted Minds e anche Promote Social Attitude and Livity through Music. Proprio in linea con il significato dell’acronimo, abbiamo la voglia di portare in strada, nei club, nelle sessions la nostra visione di aggregazione sociale. Promuovere una socialità attiva attraverso la musica. Infatti i nostri primi eventi sono stati strettamente legati a cause sociali e a momenti di aggregazione culturale in cui la musica non era la sola protagonista. Attraverso la musica, tutt’oggi, vogliamo esprimere la nostra visione ispirata alla fede Rastafari, il nostro rifiuto a questo modello di società materialista, arrivista e capitalista.

H.A.: come è nato il progetto Footsteps of Madiba?
F.: il “Footsteps” è stato il nostro primo grande progetto. Come collettivo eravamo arrivati a un punto di maturazione tale che volevamo mettere in concreto la nostra visione. Con questo 12 pollici abbiamo deciso di tributare onore a un grande personaggio della Black Culture e della resistenza africana, un freedom fighter come Nelson Mandela. Grazie allo studio di registrazione che avevamo messo su, il Prime Time Studio, e grazie al supporto di numerosi amici-musicisti-produttori come Rocchino, Sproots, Jimmy, Ras Tewelde, Paolo Baldini, Macka B, siamo riusciti a realizzare un progetto internazionale ambizioso. Il Footsteps e i tanti feedback positivi che abbiamo ricevuto sono stati un ottimo carburante per il proseguio del nostro lavoro.

H.A.: poi il tuo primo EP Addis Zemen…che cosa ha rappresentato nella tua carriera? Perché la scelta di questo nome?
F.: con il Footsteps è stata la prima volta che ho prodotto un vinile curando da solo l’aspetto tecnico ovvero registrazioni, mixes, arrangiamenti. Ma allo stesso tempo è stato un lavoro corale, a più mani, in cui ho ricevuto molto supporto da tutti i ragazzi della band, dal collettivo e dalle persone coinvolte. Addis Zemen è stata una sfida. Volevo vedere dove potevo arrivare curando un EP tutto da solo. Dalla pre-produzione, ai mixes, passando per tutto il processo creativo e gli arrangiamenti. E’ stato uno studio continuo, un progetto molto lento, graduale. Sono stato circa un anno a produrre tutto minuziosamente prima di chiudere i progetti. Non ero mai soddisfatto in pieno dei suoni, dei riverberi, dei mixes, e tutti’oggi quando riascolto, sono molto critico su tanti aspetti. Ho superato molte incertezze, molte insicurezze, ho imparato a fidarmi del mio istinto ma soprattuto delle mie orecchie. Per me Addis Zemen è stato un punto di svolta. Perciò ho anche scelto quel nome, che in amarico, la lingua ancestrale dell’Etiopia, terra cara alla fede Rastafari, significa Nuova Era, Nuovo Inizio. Avevo la necessità di porre le basi per un futuro, di iniziare un nuovo capitolo. E cosi è stato… Infatti grazie anche all’intensa promozione dell’ufficio stampa di Subaddict, siamo riusciti anche ad ottenere recensioni internazionali e la candidatura ad album dell’anno 2017 sul portale specializzato Reggaeville.com.

H.A.: parlami ora del vostro ultimo progetto Live Up Right con Ishmel McAnuff..
F.: con Live Up Right ho voluto alzare il tiro e fare esperienza di un approccio produttivo che avevo sempre sognato. Volevo realizzare qualcosa dalle sonorità molto roots, che richiamassero i Nyahbinghi jamaicani con l’aiuto di una band. Non più soltanto plug-in e emulatori virtuali, ma persone vere, musicisti in carne ed
ossa. Così, ho chiesto ad alcuni musicisti italiani e non se fossero interessati ad un progetto di questo tipo ed ho così fondato la Roots Chefs band, nome dietro il quale si cela una
schiera di musicisti. La formazione della Roots Chefs per questa produzione è composta da Meekman Drums (Francia-percussioni), Davide Luzi (Italia-basso), Sy Sao (Franciamelodica), Jake Sarli (Italia-chitarra), Armin (Italia-flauto). E’ stata una sfida anche lavorare a distanza con tutti i musicisti, coordinarsi, provare ad esprimersi e raggiungere la stessa lunghezza d’onda. Un conto è essere in studio di registrazione tutti i giorni, tutti assieme, altro è lavorare distanti, coordinandosi in chat o su facebook. Dopo la composizione e la stesura della strumentale ho iniziato ad avvicinarmi a Ishmel, figlio del grande Winston. Abbiamo parlato molto, ci siamo confrontati per mesi e mesi. Abbiamo condiviso il progetto in toto, e dopo chat su whatsapp e diversi scambi di pareri siamo giunti all’accordo finale per la collaborazione. Ishmel è un fratello di cuore; ora siamo diventati amici e ci sentiamo spesso.Questo è il bello della musica, unisce, e molte persone con cui ho collaborato nel corso degli anni sono diventati amici o comunque figure di riferimento. Abbiamo molto in comune con Ishmel e lui ha un’attitudine roots nel DNA. Riesce a colpire il cuore di chi lo ascolta con la sua voce graffiante e ha anche molte skills nella scrittura. Non potevo chiedere di meglio e spero che questa sia solo la prima di altre future collaborazioni assieme.

H.A:: stai già lavorando a qualcosa di nuovo? Con chi ti piacerebbe collaborare in futuro?
F.: al momento sono molto concentrato su Live Up Right ma ho già un progetto in corso di realizzazione. Una produzione parallela a quello reggae con cui voglio sperimentare delle strumentali. Per il futuro ho in ballo un’interessante collaborazione con un’artista reggae che ho anche citato in precedenza e con cui sono in contatto da un anno… Ma non voglio aggiungere altro finché non sarà certo della realizzazione, ma vi terrò aggiornati. Grazie per lo spazio ed il tempo dedicato, speriamo di sentirci presto con tante novità, e perchè no, rivederci ad un concerto, ad una session, ad un dj set. Con il cuore.