Si fa fatica a credere che Aretha Franklin sia morta davvero, perché nella testa, nel cuore e nelle orecchie di chi la seguiva era ed è una figura eterna, senza una vera collocazione temporale. Apparteneva alle vestigia sbiadite di un glorioso passato, alla golden age del soul che probabilmente senza di lei non sarebbe stata mai tale, ma allo stesso tempo non aveva mai disdegnato la contemporaneità. Anziché riciclarsi anno dopo anno, aveva provato strade diverse per rimanere sempre attuale: si era fatta scrivere e produrre canzoni da Lauryn Hill, aveva lavorato a lungo con Mary J. Blige eleggendola a sua erede e protetta, si era cimentata perfino con delle cover di Adele. Molti dei suoi fan avrebbero preferito che continuasse a fare quello che aveva sempre fatto anziché avventurarsi in territori così moderni (in effetti alcuni dei suoi esperimenti non sono propriamente riuscitissimi, come quelli degli anni ’80), ma lei ha sempre continuato testardamente a fare di testa sua. D’altronde non è mai stata una donna facilmente manipolabile: ai consigli di manager, amici e colleghi ha sempre preferito seguire il suo cuore, il suo istinto, le sue paure e le sue ansie, anche a costo di rischiare di rovinarsi la carriera. Come era successo quando aveva deciso che il panico per il volo era troppo forte e non avrebbe mai più preso un aereo in vita sua, cosa che puntualmente ha fatto dal 1984 fino alla sua morte, di fatto rinunciando a un buon 70% delle richieste di concerti in tutto il mondo. (Continua dopo il video)
Aretha cominciò a fare musica da bambina, grazie al padre, C.L. Franklin, che era uno dei predicatori più richiesti d’America: teneva sermoni nelle chiese di tutto il paese, guadagnando migliaia di dollari. Quando si rese conto – forse anche grazie a Clara Ward, star del gospel e matrigna di Aretha, anche se lei e C.L. non si sposarono mai – che la figlia aveva la voce più bella, potente e versatile che si fosse mai sentita, iniziò a fargli da manager e a introdurla nell’ambiente della musica sacra. Un mondo in realtà tutt’altro che casto e puro, dove tra un inno e l’altro i musicisti si dedicavano a gioie molto più terrene, tanto che i primi due figli di Aretha nacquero quando lei aveva dodici e quattordici anni: non svelò mai chi erano i padri dei bambini (anche se leggenda vuole che il primogenito fosse figlio di Sam Cooke… Se fosse vero, è molto triste che non abbia mai inciso un disco). Fin da allora, è sempre stata una contraddizione vivente. Una cantante gospel e fervente cristiana che beveva troppo, fumava come una ciminiera e aveva affrontato due gravidanze da bambina; un’icona dei diritti civili che non militò mai in prima linea nel movimento, ma si limitò a fornirgli una colonna sonora; la miglior cantante nera di Detroit che però non era arruolata nella migliore etichetta nera di Detroit (la Motown), anzi, si contrapponeva nettamente ad essa; un genio della musica che componeva e aveva imparato a suonare il piano a orecchio ma non riuscì praticamente mai a portare al successo canzoni scritte da lei (le uniche eccezioni sono Rocksteady e Think); una diva che per trovare il suo iconico sound, che oggi è la colonna portante della musica black, dovette rivolgersi alla sezione ritmica del Muscle Shoals, uno studio dell’Alabama il cui 99% dei musicisti erano bianchi. (Continua dopo il video)
Forse anche per questo era una delle artiste preferite dagli artisti hip hop, un genere musicale che delle contraddizioni ha fatto una bandiera. In questi giorni girano parecchie liste che elencano le canzoni e i beatmaker che l’hanno campionata o citata, dall’iconica All I Need di Method Man e Mary J. Blige in avanti. Eppure, nonostante i continui omaggi e la reverenza con cui veniva trattata – ennesima contraddizione – non c’è uno straccio di prova che lei ricambiasse questo amore: anzi, apparentemente l’hip hop non lo amava né lo capiva. Tanto che l’unico mc con cui ha mai collaborato è il figlio minore, Kecalf Cunningham, un rapper cristiano che l’ha accompagnata varie volte sul palco e la cui breve carriera è terminata precocemente dopo che venne definito “lo Shaquille O’Neal del christian rap” (riferito non al talento sul campo da basket, ma alle sue scarsissime performance al microfono). Ma noi non gliene vogliamo, onestamente. Aretha l’abbiamo amata così com’era: umana fino al midollo, divina fino all’ultima nota, temeraria fino all’ultimo giorno. Ma non così tanto da farsi tentare da un featuring con i Migos di turno, per fortuna.