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Black Beat Movement: l’intervista

07-05-2018 Marta Blumi Tripodi

Black Beat Movement: l’intervista

Se non ne avete mai sentito parlare e ascoltate per la prima volta un loro album (particolarmente l’ultimo, Radio Mantra), è molto possibile che restiate sconvolti scoprendo che si tratta di una band al 100% italiana, con base a Milano. Il sound vellutato e incisivo dei Black Beat Movement, che non sfigurerebbe affatto tra i giganti del contemporary soul americano, va del tutto al di là dei nostri confini, e questo vale sia su disco che dal vivo, dove i loro brani hanno addirittura una marcia in più, se possibile – se non ci credete, date un ascolto al meraviglioso live che hanno registrato a Babylon, su Radio2, domenica scorsa. Difficile immaginare che resteranno un progetto underground ancora per molto: hanno tutti i numeri per arrivare lontanissimo. Nel frattempo, però, ne abbiamo approfittato per fare quattro chiacchiere con i due portavoce del progetto, la cantante e songwriter Naima Faraò e il bassista Luca Bologna (anche se queste definizioni, per come viene impostato il loro lavoro, sono assolutamente riduttive, scopriremo tra poco). (Continua dopo la foto)

Blumi: Com’è nato il progetto?

Luca Bologna: I Black Beat Movement esistono dal 2012, anche se ci conosciamo da molto prima. Ero appena tornato dalla Spagna, dove avevo lavorato a lungo con un’orchestra, e anche Naima si era appena ritrasferita in Italia dopo un periodo lì. Abbiamo cominciato a coltivare l’idea di fondare una band specializzata in black music, ma intesa in senso un po’ più moderno: quella di J Dilla, di Erykah Badu, di Robert Glasper, di Dam-Funk e di tanti altri. In Italia ancora non c’era nulla, in questo senso.

Naima Faraò: Inizialmente il collettivo comprendeva sei persone (oggi sette) e nel corso degli anni ci sono stati vari avvicendamenti all’interno della band.

L.B.: Esatto. Nel 2016 abbiamo pubblicato l’album Love Manifesto, scritto dopo un cambio di batterista: è subentrato Nico Roccamo, che già collabora con Casino Royale, Nina Zilli, Giuliano Palma… Dopo il tour abbiamo tirato in mezzo anche Veez_0 (Fabio Visocchi, ndr), il tastierista dei Loop Therapy, che avevo conosciuto qualche tempo prima. Ci è sembrato subito la persona perfetta. Oltre che spaccare quando suoni, per essere parte dei Black Beat Movement devi anche avere tanta pazienza, perché siamo sette persone e tutti hanno voce in capitolo: siamo una democrazia, con tutte le sue lentezze burocratiche! (ride)

B: Una cosa che vi caratterizza molto è il fatto che suonate tantissimo in giro, e oltretutto dal vivo siete fortissimi…

N.F.: Per me quella del live è sicuramente la nostra dimensione migliore, quella in cui trasmettiamo di più. I primi tre anni abbiamo cercato di suonare ovunque e il più possibile: abbiamo fatto quasi 300 concerti, cosa che ci ha permesso di diventare delle rocce! (ride) Ma anche di imparare a sopportarci e autoregolarci, perché ovviamente con la vita da tour sei sempre a stretto contatto.

L.B.: Credo comunque che anche il lavoro in studio ci stia premiando: il tipo di musica che facciamo noi in genere non è suonata, è campionata, quindi abbiamo dovuto decostruirla per adattarla a una band vera e propria. Dal vivo ci siamo riusciti quasi subito, mentre in studio ci è voluto un po’ di più: abbiamo dovuto imparare quel tocco di produzione che magari per gli americani è più facile e intuitivo creare. Credo che Radio Mantra suoni davvero internazionale e contemporaneo, esattamente come lo volevamo: di questo siamo molto orgogliosi. Dal vivo magari non suona esattamente identico, ma quello è quasi uno stimolo in più per venire a sentire un nostro concerto e percepire le due facce della medaglia.

B: Tra le altre cose avete anche aperto il live milanese dei De La Soul lo scorso novembre, in occasione del JazzMi. Che esperienza è stata?

N.F.: Una bomba!

L.B.: Loro sono davvero persone straordinarie, oltre che delle leggende della musica hip hop, quindi ci ha fatto doppiamente piacere. Non li avevo mai sentiti dal vivo, tra l’altro, ed era tantissimo tempo che una band non riusciva a trasmettermi una tale presa bene. Sono riusciti a far scomparire del tutto i problemi dell’intero pubblico, a farglieli lasciare davvero fuori dalla porta. (Continua dopo la foto)

Copyright: Manuela Liotto Photography, tutti i diritti riservati

B: Tornando a voi, che tipo di formazione musicale avete?

L.B.: Ovviamente tutti abbiamo una preparazione solida e ci siamo innamorati del nostro strumento, però l’approccio varia. Per esempio Veez_0, che è uno dei più talentuosi tra noi, non ha una classica formazione accademica: ha iniziato a studiare pianoforte molto tardi. Anche dj Agly ovviamente non ha studiato al conservatorio… (ride) Però sì, siamo tutti a favore dello studio, in un modo o nell’altro, che sia accademico o autodidatta, perché senza quello ci metti molto di più a tradurre nella pratica le tue idee. In generale tutti noi siamo molto poliedrici e non ci sono veri e propri ruoli quando scriviamo i nostri dischi: io sono un bassista ma suono anche la chitarra e i synth, il chitarrista Jacopo Boschi è capace anche di suonare il piano, Veez_0 oltre al piano usa il campionatore… Siamo in sette, ma è come se fossimo in venti.

B: Tornando all’album: il titolo Radio Mantra rimanda subito ad altri titoli di dischi di black music contemporanea, come quelli di Robert Glasper (Black Radio) o Esperanza Spalding (Radio Music Society). Voleva essere un omaggio?

N.F.: No, assolutamente, anzi, lo spunto ce l’hai dato adesso tu! (ride)

L.B.: In realtà la radio mantra è un oggetto molto diffuso nella cultura indù. È una specie di radiolina che contiene da tre a nove mantra diversi preregistrati: lo accendi mettendo due cavetti in contatto, ti sintonizzi sul tuo mantra e cominci a pregare. Sono bellissimi da vedere, io li colleziono perché sono tutti diversi uno dall’altro. Ci piaceva l’immaginario che evocava.

N.F.: Anche perché il mantra è un momento di incontro con te stesso, in cui liberi la mente e ti elevi spiritualmente: ti avvicini al tuo io più profondo. E questo è un disco vissuto, sofferto. O almeno, io l’ho sofferto molto: ero in una situazione in cui nulla sembrava andare come doveva, mi sentivo persa in un limbo. Radio Mantra è stato un modo per pensare a me, per elaborare temi e idee che poi mi sono servite anche nella vita. Nei testi, infatti, c’è sempre un risvolto positivo: anche le fasi peggiori prima o poi finiscono, ed è questo che volevo trasmettere.

L.B.: Non è facile portare avanti un progetto del genere, ci sono stati sicuramente momenti difficili. Periodicamente bisogna ricaricarsi, trovare nuova linfa, e non sai mai da dove arriverà. Oltretutto quasi tutti noi abbiamo attraversato delle fasi della vita molto difficili negli ultimi anni, ed è stata proprio la musica a curarci. Le cose brutte le abbiamo buttate fuori di getto e le abbiamo usate come catalizzatore per quest’album. Da una parte non è necessariamente un bene, perché magari bisognerebbe ragionare meglio e di più sulle canzoni: noi siamo sempre stati molto istintivi nel nostro modo di lavorare.

B: E non avete mai aspettato a pubblicare gli album nella speranza che qualche casa discografica di alto profilo vi notasse.

L.B: Esatto: scriviamo, suoniamo e poi pubblichiamo.

N.F.: Quest’album è freschissimo: abbiamo terminato il lavoro in studio due settimane prima di pubblicarlo e poi siamo partiti subito a fare concerti.

L.B.: Discograficamente magari non è la cosa più saggia, perché sei spendi un anno a registrare un album magari puoi spendere altri sei mesi a cercare qualcuno che lo possa spingere in un modo più consistente. Ma non ci interessa più di quel tanto avere una grande struttura alle spalle: la cosa che vorremmo davvero è vivere in un paese in cui anche gli artisti piccoli hanno la possibilità di lavorare bene, senza essere troppo appesantiti da fisco e burocrazia. (Continua dopo il video)

B: Tornando alla positività della vostra musica, l’album si chiude proprio con un brano incredibilmente solare, My People

L.B.: La cosa più bella dei Black Beat Movement è che siamo riusciti a creare un movimento attorno a noi, che è tale non solo perché segue la musica che facciamo, ma anche perché aderisce alla nostra stessa filosofia di vita. Ogni anno organizziamo il Black Beat Movement Pic Nic (quest’anno sarà il 17 giugno, ndr), una manifestazione in cui per tutto il giorno varie band e amici musicisti si alternano sul palco: è bellissimo, perché ha lo stesso spirito delle jam hip hop, ma allargato all’intera black music. Nel pubblico ci sono tante generazioni diverse: famiglie con figli, ragazzi giovani, nostri coetanei. Un’ottima occasione di condivisione. My People rappresenta un po’ questo.

B: Restando in tema di condivisione, dall’esterno sembra che si stia creando una piccola scena molto coesa di band che fanno più o meno lo stesso genere che fate voi. È effettivamente così?

L.B.: Sì, siamo felicemente parte di questa famiglia che comprende noi, Body Heat, i Loop Therapy, i Technoir e tanti altri. Abbiamo anche una mezza idea di fare degli eventi condivisi, ma bisogna lavorarci bene. Il nostro è un sound abbastanza peculiare di Milano, a dire il vero. È una scena nuovissima, che crea un vero melting pot e allo stesso tempo ci unisce molto: non tutti vengono necessariamente dall’hip hop, ma siamo comunque riusciti a creare un suono molto urban.

B: Radio Mantra, però, suona particolarmente hip hop rispetto alla vostra produzione precedente…

L.B.: Sicuramente la matrice strumentale è quella, e ci terrei ad aggiungere anche (con un po’ di orgoglio) che tutti i campioni che abbiamo usato sono italiani: Lucio Dalla, Fred Bongusto… Però poi c’è la voce di Naima che è estremamente soul e addolcisce l’insieme. Diciamo che dell’hip hop ci piace un sacco la condivisione della conoscenza e l’improvvisazione della jam, ma non ci piace per niente una certa chiusura mentale nei confronti del resto della musica. Vogliamo essere liberi di suonare qualunque cosa ci ispiri. Siamo hip hop soprattutto nello spirito.

N.F.: Anche perché abbiamo avuto approcci molto diversi alla materia. Alcuni di noi arrivano da quel mondo, come dj Agly. Io invece sono approdata al soul passando dal reggae e dal jazz. Luca viene dal punk, ma ascoltava anche hip hop, eccetera.

B: Cambiando argomento, per la prima volta avete fatto un pezzo in italiano, Edera, con il featuring di Ghemon…

N.F.: La gente ce lo chiedeva da tempo, e anche noi avevamo voglia di sperimentare nella nostra lingua. Scrivere in inglese è senz’altro più facile su questo tipo di musica, e anche il mio timbro lo riconosco di meno, quando canto in italiano. È stato un esperimento: c’è voluto un po’ per trovare la quadra, ma noi siamo molto soddisfatti del risultato. Ora vedremo come sarà recepito. Ma non credo faremo mai un disco interamente in italiano…

L.B.: Per quanto riguarda me, non fa proprio parte delle mie ambizioni. Piuttosto sarei più curioso di provare a fare un progetto in spagnolo, e infatti ci stiamo pensando seriamente: avendo vissuto lì, io e Naima abbiamo parecchi contatti e quindi vorremmo provare a esplorare anche quei territori.

B: Di territori ne esplorate parecchi anche in senso metaforico: tutti voi avete un sacco di progetti paralleli ai Black Beat Movement, che portate proficuamente avanti da anni. Mi fate un riassuntone?

N.F.: Io faccio parte anche degli Elephant Claps, che è un ensemble di musica a cappella contemporanea, e della Artchipel Orchestra, un’orchestra diretta da mio papà (Ferdinando Faraò; molti componenti della famiglia di Naima sono musicisti, tra cui lo zio Antonio Faraò, un pianista jazz conosciuto a livello mondiale, ndr).

L.B.: Poi ci sono i Jailbreakers, che fanno una reinterpretazione dell’hip hop old school e di cui fanno parte dj Agly, il chitarrista Jacopo e il batterista Nico. Veez_0, come già dicevamo, è tra i fondatori dei Loop Therapy; Luca, il sassofonista, è uno dei Vallanzaska.

B: Progetti futuri?

N.F.: Con i Black Beat Movement stiamo partendo per il tour.

L.B.: Senza ucciderci però, stavolta…

B: Tra di voi o in termini di fatica della vita on the road?

L.B.: La seconda! (ride) Ci piace far festa, quindi i tour dei Black Beat Movement sono sempre un’esperienza abbastanza strong. E in più, visto che tra noi regna la democrazia, c’è parecchio dibattito, che a volte sfocia in discussioni lunghissime…

N.F.: Esatto, non so quante ragazze sarebbero capaci di reggerli e tenerli in riga. Agly dice spesso che noi BBM siamo sei pinscher e un pitbull, e ovviamente il pitbull sono io. È un’immagine che rende molto bene l’idea! (ride)

L.B.: Oltre al tour cercheremo anche di trovare una distribuzione e delle date all’estero, perché ci sembra che i tempi siano maturi. E poi speriamo anche di riarrangiare l’album in versione dub, appoggiandoci a qualche produttore nostro amico. Abbiamo anche già il titolo: Black Dub Movement. Sarebbe una specie di vacanza rispetto a quello che facciamo di solito e ci permetterebbe di staccare un po’ la testa per tornare ancora più carichi sul disco successivo.