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Yazee: l’intervista

27-02-2018 Riccardo Primavera

Yazee: l’intervista

Tra i produttori più eclettici che risiedono a Milano, Yazee è fuori da qualche mese con You Get No Love, il suo nuovo album da producer. Non un disco rap, anzi, non solo un disco rap: influenze degli anni ’80 e ’90 si palesano a ciclo continuo durante l’ascolto, accompagnate da un ventaglio di sonorità dall’ampiezza imbarazzante (in senso buono). Funk, elettronica, soul, jazz, disco e ovviamente hip hop si fondono in perfetta armonia, grazie ad una “coerenza vibrazionale” che Yazee mi ha illustrato durante la nostra chiacchierata.

Riccardo: Partiamo proprio dal titolo della tua ultima fatica, You Get No Love: chi è il soggetto e cosa intendi con “amore” in questo caso?

Yazee: In realtà non si tratta proprio di un titolo “concreto”, lascia spazio per immaginare diverse cose. In primis, il fulcro del titolo: “you get no love” tradotto significa, parafrasando, “tu non mi dai amore”. Mi riferisco alla musica, vuole essere una sorta di critica alla società moderna, ormai troppo basata sull’apparenza e sul personaggio di chi fa musica, mentre ci sono sempre meno artisti consapevoli di loro stessi; questo ovviamente si riflette sulla musica che fanno. Tu devi amare la musica, come ciò che fai nella vita, come il lavoro; se non ha rispetto per le cose che fai, per la musica che produci, probabilmente questa musica – che per me è come una fidanzata, una compagna di vita – non ti restituirà mai nulla.

R.: Non è un tipico disco strumentale ma neanche il solito album da producer con ospiti su ogni traccia: come mai hai optato per questa soluzione a tratti ibrida?

Y.: Perché nella musica sono uno che si mette molto in gioco, si innamora di tante cose, non vuole soffermarsi troppo su un genere, lo trovo limitante. Tu puoi amare alla follia il rap ma sai che se fai solo rap hai dei limiti proprio a livello tecnico, dal punto di vista sonoro e musicale. Io volevo creare un disco che fosse “black” a 360 gradi: sono appassionato della black music fin da piccolo, sono fan di Micheal Jackson da quando ho 5 anni, mio padre mi passava le sue cassette da ascoltare nel walkman (sorride, ndr). Crescendo mi sono reso conto di aver assimilato quello che ascoltavo da ragazzino – black music intesa come hip hop, soul, disco music – e il rap che ascoltavo in adolescenza. Tutto questo fa parte di me, da ragazzino assorbi come una spugna, tutti gli stimoli ti rimangono dentro. In sostanza You Get No Love sono io, tutte le mie influenze, quello che sono riuscito a captare di mio da questa musica.

R.: Ascoltando il disco, a volte il rappato sembra quasi “perdersi” rispetto alle atmosfere evocate dalle tracce esclusivamente strumentali: non hai paura che una struttura simile potesse in qualche modo farlo passare in secondo piano?

Y.: Beh da producer quando fai una strumentale hai libero arbitrio, non hai il vincolo che ti da una voce; quando hai una voce devi dar spazio anche a chi canta, stando attendo a non dare troppo per non oscurarlo. Quando realizzo una strumentale quindi cerco sempre di dare il massimo a livello emotivo, con il risultato finale che una traccia esclusivamente strumentale è molto più virtuosa, molto più complessa armonicamente. L’impatto emotivo è quindi più forte, ma è normale: la musica ha un impatto emotivo maggiore rispetto alle parole del cantato, perché composta da vibrazioni. Le frequenze della musica si associano alle frequenze corporee con cui noi captiamo, dando vita alla reazione emotiva. Io creo un certo tipo di musica perché capto determinate frequenze, la mia anima, il mio inconscio, viaggia su quelle frequenze. Non è tanto il rappato a perdersi, sono le emozioni infuse in ciascuna produzione ad arrivare in maniera più forte ed evocativa.

R.: Le strofe presenti nel disco non sembrano seguire un filone tematico particolare: come ti sei coordinato con i rapper presenti nel disco? Hai lasciato loro carta bianca?

Y.: Partiamo dal presupposto che scrivere e rappare non è il mio lavoro, quindi ho lasciato tutti liberi di scrivere ciò che il beat trasmetteva loro. In questo modo anche il rappato nel mio disco è molto virtuoso, non ha limiti di scrittura legati a particolari paletti. I rapper non hanno pensato “ah cazzo devo scrivere una roba che deve funzionare perché l’ascoltatore medio deve cercare di comprenderlo”; volevo che il disco fosse una reale forma d’arte. La reale forma d’arte è quando una persona è autentica, libera di scrivere senza paranoie. Alcuni testi sono venuti fuori molto complessi, altri meno: è tutto dipeso dalle scelte degli artisti. A livello armonico ho invece diretto i cantanti, suggerendo loro le linee armoniche, lasciando sempre massima libertà dal punto di vista dei testi.

R.: A livello sonoro è un disco che strizza l’occhio a suoni, atmosfere e sfumature che raramente si vedono in Italia. Come visualizzi, nella tua mente, l’ascoltatore tipo di You Get No Love?

Y.: (sorride, ndr) Beh, sicuramente simile a me. Io sono fermamente convinto di quest’idea: nell’universo, noi ci circondiamo sempre di persone molto simili a noi – tornando al discorso di prima sulle vibrazioni. Se tu sei fatto in un modo, a livello inconscio, come personalità, sarai sempre predisposto ad avvicinare persone che la pensano come te, anzi meglio, persone simili a te.

R.: Credi quindi nella legge universale dell’affinità?

Y.: Proprio quella, esatto. Di conseguenza, se fai un disco con quelle caratteristiche emotive e armoniche, tu attrarrai sempre ascoltatori che viaggiano su frequenze simili. Penso quindi che le persone che ascoltino il mio disco siano simili a me, molto probabilmente. Puoi considerare questo disco come un mio biglietto da visita, non solo di Yazee come produttore ma anche di Andrea come persona.

R.: Il suono del disco è estemporaneo, slegato dalle correnti che vanno per la maggiore oggi; una piccola gemma senza tempo nel mercato discografico odierno, un omaggio ad un suono e ad un immaginario che io ho collocato negli anni ’80. In un ipotetico scaffale, affianco a quali dischi collocheresti You Get No Love?

Y.: Eh, mica facile (sorride, ndr)… Sicuramente mi piacerebbe vederlo vicino a quello di Kendrick, To Pimp A Butterfly. Ovviamente non mi voglio sovrastimare così tanto, non voglio metterli a confronto, però emotivamente li vedo vicini. O anche Donuts di J Dilla. Sarebbero dei bellissimi compagni di scaffale (sorride, ndr).

R.: La componente visual del disco si è dimostrata in connubio perfetto con le atmosfere evocate dalle canzoni; appare infatti evidente già dal video che ha accompagnato l’uscita del disco, quello della titletrack. Hai intenzione di realizzare altri video, magari unendoli per realizzare una sorta di “cortometraggio musicale”?

Y.: Sì, è un’idea che mi è venuta in mente, però una soluzione del genere è indubbiamente faticosa. Riuscire ad unire tre tracce, tre idee per realizzare tre video simili non è semplice. In ogni caso i prossimi video saranno legati tra loro, soprattutto visivamente. Per come la vedo io l’immaginario del disco deve essere coerente.

R.: Ultima curiosità, legata ai titoli dei brani. Essendo il disco composto per metà di strumentali, come fai a scegliere i titoli delle canzoni? Cioè, quando c’è un testo al quale legarsi è molto più semplice, ma come fai a dare dei nomi a delle melodie?

Y.: Oh madonna che domanda (ride, ndr). In generale i titoli li scelgo dopo, una volta ascoltato il brano completo, in base alle emozioni che mi suscita all’ascolto. Nelle bozze do dei nomi improponibili, ma proprio surreali. Prendiamo Butter To Fly: il pezzo mi dava una sensazione di libertà e morbidezza – quindi ho immaginato una farfalla in volo, e poi mi è venuto in mente il burro, materiale molto morbido. Quindi ho tirato fuori Butter To Fly (ride, ndr). Good Time invece rappresenta proprio un periodo roseo, un periodo felice, il periodo nel quale ho composto la traccia.