Le aspettative nella musica sono una cosa bellissima, ma anche molto noiosa: se da una parte ci permettono di andare a colpo sicuro quando ci buttiamo su un disco (“L’album precedente di Tizio mi è piaciuto tantissimo, quindi non vedo l’ora di ascoltare quello nuovo”) dall’altra ci lasciano spesso spiazzati e incapaci di seguire i nostri artisti preferiti nelle logiche e naturali evoluzioni del loro sound. Quello di Ghemon potrebbe essere un caso da manuale: l’ottimo ORCHIdee l’aveva trasformato nell’icona di un cambiamento, molto apprezzato, peraltro. Senonché con Mezzanotte ha cambiato ancora tutte le carte in tavola, togliendo ai propri ascoltatori le certezze che si erano (ri)costruiti di recente. Alcuni – quelli che si aspettavano un ORCHIdee capitolo 2 – hanno avuto un iniziale moto di perplessità nei confronti di Mezzanotte. Estremamente complesso, stratificato e ambizioso nel sound, e quasi altrettanto denso, cupo e viscerale negli argomenti, non è un progetto che si metabolizza facilmente; ma ha il grandissimo pregio di crescere esponenzialmente ad ogni ascolto, e di esplodere nella sua versione live (sintonizzatevi su Babylon, Radio2, questa domenica 17 dicembre alle ore 23 per credere, perché Ghemon sarà il protagonista di uno speciale concerto dagli studi di corso Sempione 27, Milano). Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lui per capire cosa si nasconde dietro questo suo ultimo lavoro che, ci svela, “Nasce da un proverbio campano, ‘Non può venire più scuro della mezzanotte’. Un modo per dire che peggio di come sono stato mentre scrivevo l’album non potevo stare, ma anche che non potevo essere più nero di così, nel senso di black music: in questo disco ci sono tutti i miei ascolti e le mie influenze”. (Continua dopo la foto)
Foto di Ottavio Fantin, tutti i diritti riservati
Blumi: In un certo senso il mood di questo disco è molto diverso da quello che ci si aspettava da te, ne sei consapevole?
Ghemon: Certo: sapevo che da me la gente si aspettava determinate cose, ovvero la prosecuzione di ORCHIdee, che era l’album di una persona abbastanza risolta. Era un disco intriso di positività, perché entravo in una fase di vita nuova e mi sentivo aperto al mondo. Mezzanotte invece è figlio di una grande sofferenza e di una totale spontaneità; le uniche cose studiate a tavolino sono state alcune scelte tecniche – usare o meno uno strumento, accelerare o rallentare un pezzo – ma i contenuti non sono assolutamente ragionati. Era quello che stavo vivendo, e l’ho usato come terapia. Ero consapevole che avrebbe avuto un effetto sorpresa, ma in fondo mi piace sorprendere! (ride)
B: Colpisce molto il fatto che tu abbia avuto il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: non “periodo buio”, come avrebbero fatto in tanti, ma “depressione”. Ti sei esposto molto…
G: Ci abbiamo pensato parecchio, io e le persone che lavorano con me, ma non abbiamo avuto grandi dubbi su come comunicare la cosa. Il disco non è un prontuario sulla depressione, non indaga come si manifesta, non va visto come una soluzione, però è effettivamente un diario. Questa malattia è una cosa che di solito si tende a nascondere, soprattutto nei suoi aspetti clinici, perché se lo fai mostri molta vulnerabilità agli altri, e temi che potrebbero approfittarne. Oppure perché hai paura di generare un senso di pietà, sfiga, compassione. Ma quando stai attraversando fasi del genere non hai bisogno di una pacca sulla spalla, hai bisogno di sentirti in grado di rialzarti. E infatti Mezzanotte ha dentro tanta oscurità ma anche tanta rabbia, quella che poi mi ha spinto a riscattarmi e a stare meglio. A differenza di quello che si potrebbe pensare, non mi sono mai crogiolato nel dolore, perché non ho mai sopportato di essere in questa situazione.
B: Come ci eri finito, in questa situazione?
G: Avevo chiuso da poco il tour di ORCHIdee, che era andato molto bene, e all’improvviso mi ritrovavo a casa, senza sapere bene cosa fare, e senza essere circondato da tutte le persone con cui avevo affrontato questo lungo periodo on the road. Tra l’altro tutto questo coincideva anche con la fine di una relazione importante e di una convivenza: non ero mai stato single in vita mia, così ho iniziato ad uscire con varie persone. Tra cui anche qualcuna che, anziché aiutarmi a rimettere in sesto le mie macerie, ha deciso di ballarci sopra… (ride)
B: C’è anche tanto sesso in quest’album, un argomento che non eravamo abituati a trovare nelle tue canzoni…
G: Tommaso Colliva, che è stato produttore artistico di quest’album, mi ha sempre detto “Non temere di esplorare anche territori che non hai mai affrontato prima, perché per come sei fatto, anche se ci andrai giù duro, non sarai mai volgare”. Sono un uomo di 35 anni e in un anno da single il sesso ha fatto parte della mia quotidianità, era giusto parlarne. (continua dopo la foto)
B: Mezzanotte è molto esplicito e sensuale anche nell’artwork: in copertina ci sono due ragazze nude, una nera e una bianca. Cosa volevi comunicare?
G: Era un disco che esplorava sentimenti molto fisici e carnali: rabbia, malinconia, depressione, sesso, voglia di rivincita. Così mi è venuta l’idea di recuperare un certo filone di copertine anni ’70, in cui il corpo della donna era protagonista, ma mai in maniera volgare. Le due ragazze, così diverse fisicamente, rappresentano perfettamente gli opposti che stavo vivendo in quel periodo: la notte e il giorno, lo ying e lo yang. Giuseppe Palmisano ha scattato la foto di copertina, mentre Mecna ha completato il concept con la sleeve trasparente e i pixel a coprire l’immagine. La cosa bella è che ciascuno ha visto in quella foto una cosa diversa: consolazione, tristezza, tenerezza, sensualità…
B: Ecco, a proposito di questa censura ad opera dei pixel: c’è chi ha pensato che fosse una scopiazzatura del concept usato per il vinile di My Beautiful Dark Twisted Fantasy di Kanye West…
G: Sul momento non ci abbiamo assolutamente pensato, che Kanye aveva già fatto una cosa simile: ci è venuto in mente solo dopo. Ma ormai eravamo così affezionati all’idea di quella copertina che abbiamo deciso di procedere comunque. Oltretutto le sue intenzioni erano diverse, perché aveva utilizzato un dipinto molto esplicito per creare un caso sulla censura e provocare il ritiro dal mercato. Noi, invece, partivamo da tutt’altro ragionamento.
B: Tornando alla musica, come cantante in quest’album sei migliorato tantissimo, e osi anche molto più di prima. Qual è stato il motivo della svolta?
G: In passato avevo assimilato un sacco di teoria, che però mi era servita a poco; grazie alla mia attuale vocal coach, che è stata un vero e proprio dono dal cielo, mi sono finalmente sbloccato su molte cose. Quando ho cominciato a studiare canto ero già famoso nella scena rap, quindi non ho mai avuto la possibilità di fare una serata da sconosciuto nel classico localino per emergenti, cantando delle cover davanti a gente neutrale. Ero già fin troppo esposto, ogni volta che provavo a cantare in un disco o in un live leggevo online i commenti e psicologicamente mi frenavo da solo. Ora mi sento molto più libero, anche sulla parte compositiva: non mi autocensuro più, butto giù le idee suonando un paio di accordi storti e poi gli altri della band mi vengono in aiuto sistemando e migliorando quello che accenno.
B: Anche stavolta però il rap non l’hai abbandonato del tutto, considerando che il disco si chiude con un brano come Kintsugi…
G: Tutto è partito da una strumentale a cui abbiamo lavorato in tantissimi: quasi tutti i membri della band ci hanno messo le mani. Avremmo voluto inserirla in qualche modo, e così l’abbiamo registrata “in bella”; il testo mi è venuto dopo una notte insonne, alle sei di mattina. Sono arrivato in studio e ho registrato, di botto. Ho deciso di inserirlo come pezzo di chiusura perché mi piace dare un ordine alle cose, e Kintsugi ribadisce alcuni concetti già accennati nella prima traccia, Impossibile, come se chiudesse un cerchio. È il mio modo di dire “Vi ho detto per tutto il disco che le cose non vanno, ma nonostante questo resto il migliore di tutti. Tiè!”. (ride)