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Laioung: l’intervista

23-04-2017 Marta Blumi Tripodi

Laioung: l’intervista

Se pensate che la nuova ondata di rap italiano suoni un po’ tutta uguale – e tra voi c’è anche chi firma questa intervista, che probabilmente appartiene a una generazione troppo boom-bap per capire fino in fondo un certo tipo di suono e di bpm – è il momento di ascoltare il disco di Laioung e di ricredervi. Sicuramente ha qualcosa a che fare con la trap, ma classificarlo semplicemente così sarebbe davvero riduttivo: Laioung è una one-man band in grado di fare (molto bene) qualunque cosa. Produce, canta, suona il piano, rappa, creando una sua personalissima ricetta che non assomiglia a nulla che sia già uscito dalle nostre parti. E non suona freddo e asettico, a differenza di tante altre produzioni di suoi coetanei: il ragazzo ha soul, provate ad ascoltare la sua riedizione di Je so pazzo di Pino Daniele o la cover di Everybody knows di John Legend e capirete cosa intendiamo. Incontrarlo di persona per la prima volta è una piacevolissima scoperta: nonostante abbia la sicurezza e la spacconeria sorridente dei vent’anni, e a tratti anche un po’ di ottimistica inconsapevolezza, è una persona allegra, umile, alla mano, che si è auto-assegnata la missione (insieme alla sua crew, la RRR Mob) di rendere un po’ più black la scena italiana, in tutti i sensi. Merito anche della sua storia, che non ha proprio nulla di convenzionale: ha vissuto in tutto il mondo, passando più volte dalle stelle alle stalle prima di arrivare al suo debutto discografico ufficiale. Il suo primo doppio album, Ave Cesare: Veni, Vidi, Vici, contiene un 50% di brani già pubblicati e un 50% di inediti: lo abbiamo incontrato per parlarne. E se volete avere un assaggio delle sue capacità dal vivo, potete riascoltare la puntata di Babylon di sabato scorso, in cui ha anche suonato diversi brani.

Blumi: Spesso la tua musica viene classificata semplicemente come trap, ma in realtà dentro c’è davvero molto di più…

Laioung: Questo è un bellissimo complimento. Quando è uscito Vengo dal basso, il nuovo video con Guè, per esempio, sapevo che la gente magari si aspettava qualcosa di diverso, ma io ho voluto comunque fare musica a modo mio. Onestamente, della trap non me ne importa niente: siamo arrivati a un punto, nel 2017, in cui l’elettronica come genere ha assorbito tutto. E io voglio solo esprimere questo concetto a 360 gradi: nel mio lavoro controllo tutto personalmente, dalla produzione all’arrangiamento alla finalizzazione, in un modo però che resta molto spontaneo e creativo. Se la gente vuole chiamare quello che faccio trap, va bene; se vuole chiamarlo nuovo soul, va bene; se vuole chiamarlo dubstep o rock, mi va bene comunque. Io amo la musica e basta.

B: Di solito che cosa ascolti, quindi?

L: Ultimamente ascolto spesso Migos e Post Malone, però ho un background molto diverso: i miei ascoltavano Earth, Wind & Fire e Led Zeppelin, mio nonno era un cantante gospel di quelli che facevano tremare i vetri, mio padre suonava sette strumenti diversi, mia mamma fa dancehall, anche mio zio è un musicista soul…

B: Com’è stato crescere con così tanti stimoli?

L: Non mi aspettavo che mi sarei appassionato anche io a tutto questo: fino a 12 anni volevo solo giocare a calcio, non mi importava della musica. Sapevo suonare un po’ il piano, canticchiavo, rappavo, mi veniva naturale, ma non mi interessava molto. Poi un giorno è arrivato mio fratello da Londra con un portatile con su installato un programma per fare musica, FL Studio: da lì la mia vita è cambiata. Da quel momento in avanti, volevo fare solo quello.

B: Quando hai capito che poteva diventare qualcosa di serio?

L: Quando non avevo più amici, quando me ne stavo chiuso in casa da solo, quando ho capito che fare musica per me era più importante di trovare i soldi per vivere, quando a 16-17 anni mi capitava di trovarmi in paesi diversi proprio per via di quello che facevo… Allora ho capito che c’era qualcosa in me, qualcosa che nessuno aveva ancora visto.

B: Sei abituato a fare tutto da solo: l’intero disco è prodotto da te – e non si direbbe, perché il suono è comunque molto vario. Come mai hai scelto la via dell’isolamento?

L: Dipende anche dal contesto in cui sono cresciuto. Sono nato a Bruxelles ma per caso, mio padre è di Brindisi e mia madre della Sierra Leone. Già sono nato nel posto sbagliato, in un mondo in cui se vuoi arrivare da qualche parte devi trovarti al posto giusto, al momento giusto e con la gente giusta. Non ho mai avuto una mano da nessuno neanche nella vita, anche perché le poche volte in cui ho chiesto aiuto ho ricevuto delle delusioni enormi: questo, per fortuna, è un errore da cui ho imparato. Per non affidarmi ad altri, sono diventato un mostro nel controllare la tecnologia e nell’esprimermi attraverso di essa, nessun altro professionista sa farlo come vorrei io. Uno studio da un milione di euro non potrebbe comunque soddisfare le mie aspettative, perché sono molto pignolo sui dettagli. Sicuramente vado in studio per registrare le voci e fare il master, però per il resto ho le mie tecniche e mi attengo a quelle. Lo faccio sembrare facile, ma ogni volta che premete play e ascoltate tre minuti di canzone, ricordatevi che ci sono intere ore di lavoro dietro! (ride)

B: Come funziona la costruzione dei tuoi pezzi, quindi?

L: Di solito apro il mio Alienware, che è un computer da gamer (quindi molto potente), carico dei suoni in alta qualità e tutto parte da lì. Mixo direttamente mentre compongo, carico il beat in Cubase, ci registro sopra con i miei effetti preferiti e a quel punto c’è già una hit! (ride)

B: Tu spacchi anche in versione acustica, però, tant’è che di recente hai fatto per Red Bull una bellissima cover piano e voce di Everybody knows di John Legend. Non ti capita mai di lavorare in una maniera così essenziale?

L: Io ho un catalogo molto vasto di canzoni. La musica elettronica mi fa imparare sempre roba nuova, quindi non ho fretta di fare uscire il mio lato “piano e voce”: da quel punto di vista sto ancora imparando tanto, anche sulla progressione di accordi nuovi, e sicuramente in futuro ci saranno sorprese anche su quello. Ma non adesso.

B: È interessante quello che dici, perché invece c’è chi ti ha accusato di essere troppo sicuro di te stesso per quanto riguarda le tue doti di cantante e ti ha invitato a tornare a studiare: sto parlando ovviamente di Daniele Vit e della famosa diatriba su Facebook di qualche settimana fa…

L: Preferisco dirmelo da solo, che devo ancora imparare, piuttosto che farmelo dire da uno sconosciuto. Quando ho risposto a Daniele Vit non avevo idea di chi fosse, ma mi aveva attaccato verbalmente con un messaggio che non mi sembrava quadrasse troppo, quindi non potevo stare zitto. Ognuno di noi apprende qualcosa dal suo percorso e la cosa più importante è seguire la propria visione, non quella degli altri.

B: Parlando del tuo percorso, un giornalista che ti ha intervistato recentemente ha detto di te “La sua storia è talmente intricata che anche dopo che me l’ha raccontata, non sono sicuro di averci capito qualcosa”. Ci fai un riassunto?

L: Oddio, da dove comincio? (ride) Vabbè, come dicevamo sono nato a Bruxelles e fin dalla nascita mi sono sentito un nomade. I miei genitori hanno perso la casa quando avevo cinque anni, fino ai sei sono stato in strada. Poi sono andato a vivere con i miei nonni a Ostuni, mi hanno cresciuto in una maniera un po’ old school fino a quando ne avevo tredici; dopodiché è scoppiato il delirio. Non ho mai più vissuto a lungo nello stesso posto, da allora. Sono tornato a vivere con mio padre a Bruxelles per un po’, che mi aveva rassicurato dicendo che le cose sarebbero andate meglio; invece non era vero… Partiva continuamente, era come se fossi da solo. “Ciao, sto andando a Strasburgo, torno dopodomani”, e magari poi tornava dopo una settimana. Ma non mi facevo problemi. Se mi lasciava venti euro compravo la pasta e mi facevo da mangiare, giocavo ai videogame tutto il giorno, mi svegliavo la mattina e andavo a scuola da solo. Credo di essere fortunato perché nonostante fossi abbandonato a me stesso non ho preso una brutta piega: non sono finito per strada, non mi sono drogato… Ringrazio il karma, perché se le cose fossero andate in una maniera diversa oggi sarei un’altra persona.

B: E a Milano quando ci sei arrivato?

L: In realtà sono qui da settembre, prima vivevo in Canada. Mi ero stufato dell’Europa e volevo qualcosa di più per la mia musica: lì artisticamente mi hanno capito subito, ho trovato dei fratelli che mi hanno aiutato. Dall’altra parte dell’oceano ho un’altra famiglia, di fatto.

B: A proposito, il mercato musicale italiano è molto piccolo rispetto a quello di qualsiasi altro paese: tu parli tre lingue perfettamente, hai vissuto all’estero, avresti potuto fare musica ovunque. Perché hai deciso di tornare?

L: Nel mio percorso americano ho deciso di fare un album in italiano, perché ho pensato che all’Italia mancasse qualcosa che solo io potevo provare a dare. Il disco ha riscosso molte vibrazioni positive, però ai tempi nessuno mi conosceva. Sono tornato in Italia per produrre Malcky G: poco prima avrei dovuto girare il mio video con Young Thug – è saltato perché si è quasi fatto sparare perché è arrivato in ritardo a un concerto in Guadalupe, dove i fan sono poveri e avevano pagato una cifra enorme per vederlo suonare. Sono venuto qui e ho fatto il pezzo con Izi e Tedua, Giovane giovane, che ha avuto un grandissimo successo. Insomma, adesso sono bloccato qui e non vedo l’ora di andarmene. (Scoppia a ridere) Scherzo, ovviamente: stiamo cercando di costruire qualcosa, e anche all’estero mi sembrano molto gasati all’idea che io canti in italiano.

B: Stai producendo anche altri artisti oltre a Malcky G? (rapper milanese quattordicenne di padre afroamericano e madre italiana, membro della RRR Mob, ndr)

L: Moltissimi. Malcky è il figlio di un caro amico (Mohamed Reeves, nato nel Bronx e trapiantato a Milano, ex membro della Rock Steady Crew e organizzatore delle serate Uptown, ndr) che voleva lanciarlo nel mondo della musica: si può dire che l’abbiamo creato noi. Uscirà presto, comunque.

B: Avendo vissuto soprattutto all’estero, quanto conosci della scena hip hop italiana? Hai approfondito anche la sua storia, oppure ascolti solo la nuova ondata di cui fai parte?

L: Se devo essere onesto fino in fondo, fino a settembre 2016 non avevo idea di cosa facessero in Italia, anche se avevo già fatto un album in italiano in passato. Ovviamente sapevo che esisteva gente tipo i Club Dogo e i 99 Posse, però ero un po’ disgustato da tutto l’insieme, perché mi sembrava ci fosse un monopolio di artisti di un certo tipo: non c’erano giovani, non c’erano neri… E infatti quando qualche anno fa la Def Jam è venuta in visita a Hip Hop Tv, si è fatta le stesse domande che mi faccio io: perché le sonorità del vostro rap non sono quelle attuali, e che fine hanno fatto i neri? Non volevo fare parte di tutto questo, ma è stato l’amore per la musica a farmi tornare indietro. E ora che sono qui, spero di farmi una cultura e di recuperare anche quello che mi sono perso.

B: Tornando all’album, uno dei pezzi più originali è Fuori, un rifacimento di Je so pazzo di Pino Daniele. Come ti è venuta?

L: Eravamo in studio ad ascoltare un po’ di roba per prendere ispirazione quando Adolf, che lavora nella mia squadra, mi ha fatto venire in mente quel pezzo. Ho cominciato a lavorare alla base e il ritornello ci calzava perfettamente. Dopodiché è stato un attimo: abbiamo chiuso il beat con il ritornello e mi sono concentrato solo sulle strofe, per metterci dentro un pezzo di cuore. So che la famiglia di Pino Daniele l’ha sentito per approvazione, non so esattamente cosa ne abbiano pensato ma spero e credo che fossero contenti!

B: Restando in tema della tua squadra, come hai conosciuto il resto della RRR Mob?

L: Vivevo a Bruxelles e un giorno Isi Noice mi ha mandato una richiesta di amicizia su Facebook. Ho visto che era un dj marocchino, ma quando ho scoperto che viveva in Italia e parlava italiano ho capito subito che era un fratello! Un giorno ha messo like a una mia foto e abbiamo cominciato a sentirci via messaggio privato, parlando sempre del fatto che era il momento di creare qualcosa in Italia. Qualche tempo dopo ero a Torino per caso, dove lui viveva, e gli ho scritto: ci siamo beccati e da lì è nato tutto. Crediamo tantissimo nel progetto della RRR Mob, anche perché vogliamo far capire agli altri nostri fratelli di seconda generazione che bisogna unirsi, integrarsi, lavorare duro. Se non hai voglia di fare, non arrivi da nessuna parte, non basta il talento.

B: Secondo te perché ci è voluto così tanto, perché anche in Italia arrivassero finalmente dei rapper di seconda generazione?

L: Credo mancasse la gente giusta per rappresentarci. Ammetto che è un po’ colpa mia: non sono rimasto in Italia per far sfondare ‘sta roba. Nel 2013 avevamo fatto uscire un primo pezzo e non eravamo stati capiti, avremmo dovuto spingere di più anziché arrenderci. Oggi, anche grazie ai vari Ghali, Sfera Ebbasta e Dark Polo Gang, c’è un adattamento di un certo tipo di suono per il pubblico italiano, che si è abituato. Hanno fatto capire che nel resto del mondo stanno succedendo cose diverse, musicalmente, e ci hanno facilitato. C’è stato un po’ di ritardo sulle tempistiche, ma finalmente siamo arrivati anche noi. E siamo più carichi che mai.