Illustrazione originale di Paolo Gallina x Hotmc, tutti i diritti riservati.
Bassi Maestro non ha bisogno di nessuna presentazione. Il suo contributo (enorme, quasi senza pari) all’hip hop in Italia parla da solo, e noi non possiamo far altro che ascoltare. Da qualche giorno è uscito il suo ultimo album, bellissimo, intitolato Mia Maestà: un album che unisce il vecchio al nuovo, in una sequela serratissima di beat, rime, skit e quell’attitudine inimitabile che da sempre contraddistingue ogni suo lavoro. Bassi è così: passano gli anni, le mode vanno e vengono, ma lui è sempre lì, e fa il suo; e migliora, pure. Mia Maestà è infatti probabilmente uno dei suoi dischi migliori in assoluto e parlarne – per chi si occupa di hip hop – è quantomeno doveroso. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per parlarne e questo è il resoconto della chiacchierata.
Filippo Papetti: L’altro giorno ho guardato la diretta Facebook di presentazione al disco e una delle tante cose che mi hanno colpito è che hai affermato che tu prima di tutto ti senti un dj, hai iniziato da lì e quando non avrai più nulla da dire ti limiterai, per così dire, a mettere dischi. Pensi che essere un Dj ti abbia aiutato ad avere una carriera da rapper così longeva?
Bassi Maestro: Come rapper onestamente non saprei. Come producer sicuramente, nel senso che il fatto di essere sempre a contatto con i nuovi generi musicali, il fatto di suonarli nei locali, osservare la reazione del pubblico; o anche con i vecchi generi musicali, magari scoprire dei pezzi degli anni ’60/’70/’80 che non conoscevo, ecco, tutto questo mi ha sempre offerto nuovi stimoli per la produzione. Sapere quale tipologia di suono funzioni in un determinato periodo storico aiuta molto a focalizzare il progetto. Per il rap la cosa è un po’ diversa, perché più che altro dipende da quelli che sono i miei ascolti personali: gli stimoli arrivano dall’ascolto di altri artisti rap da cui trarre ispirazione per mettere assieme qualcosa di mio, magari con degli stili nuovi, o nuovi modi di scrittura o di sviluppo delle metriche.
F.P.: Questa commistione tra vecchio e nuovo è anche una delle caratteristiche sonore principali di Mia Maestà. Viene tutto da lì, giusto?
B.M.: Sì, assolutamente. Nel disco ci sono tantissimi campionamenti e per quanto ogni pezzo possa andare in una direzione piuttosto che in un’altra ogni canzone è ispirata a musica che c’era già in precedenza, e questo è il motivo fondamentale per cui nel 90% dei casi lavoro partendo da sample o da suoni che mi piacciono. C’è sempre questa ricerca.
F.P.: C’è un brano del disco da cui sei partito come cardine per impostare l’album e decidere come si sarebbe sviluppato l’album?
B.M.: In realtà no, è successo che praticamente ho re-iniziato a mettere giù delle idee per dei pezzi, e poi il passaggio dal fare qualche brano al fare il disco intero è stato abbastanza veloce. Devo dire che la fase più difficile è stata quella iniziale, mentre invece quando ho capito in che direzione andare è stato tutto relativamente rapido. Quando ho pubblicato il primo singolo, a dicembre, avevo il disco pronto solo al 50% ma avevo già le idee chiare, e ho fatto uscire $$$ appunto perché già sapevo in che direzione sarei andato. Ancora non sapevo cosa sarebbe venuto fuori in alcuni pezzi però ce li avevo già in mente: avevo in testa le sonorità, le persone da chiamare a partecipare e il resto. Da lì ho inquadrato il percorso e ho messo assieme il tutto.
F.P.: Hai chiesto agli ascoltatori di ascoltare almeno una volta Mia Maestà per intero, dall’inizio alla fine. Come mai questa richiesta?
B.M.: Per una questione di focalizzare l’attenzione sull’album nel suo complesso, piuttosto che, come succede adesso, sulla singola canzone. Mentre ultimavo il disco poi è uscito il nuovo di Drake, con quella definizione un po’ provocatoria di “playlist”, e questo mi ha dato molto da pensare. Sono tantissimi i dischi fuori strutturati così. Io però preferisco quando un artista ti dà un album pensato dall’inizio alla fine, piuttosto che una raccolta di tracce singole. E questo è un po’ il motivo per cui in Mia Maestà ci sono tantissime variazioni, capisco che ora sia quasi un’impresa ascoltare un disco intero, soprattutto per i più giovani, ma proprio per questo il disco ha uno sviluppo molto serrato, con cambi continui ed elementi per tenere alta l’attenzione. Magari i pezzi che sarebbero potuti risultati più noiosi li ho tenuti più corti, ed invece di farci la seconda strofa ho fatto solo la prima, concentrandomi maggiormente sul far arrivare diretto il concetto del brano.
F.P.: In questo senso mi sembra che uno dei brani simbolo del disco sia Nessuno può togliermi quello che ho. Sei d’accordo?
B.M.: Me l’hanno detto in molti, e sicuramente è uno dei pezzi più personali. Certo, è un pezzo che io ho già scritto più volte, non è una novità della mia discografia; come altri brani del disco è una rivisitazione di tematiche che ho già affrontato negli altri miei dischi, come poi succede un po’ a tutti gli artisti in giro da tanti anni. Nel mio caso non è che ci siano così tante nuove cose da inventarsi. Però ecco, Nessuno può togliermi quello che ho è una versione moderna della mia storia, sia a livello lirico che a livello musicale, e quindi sì, è un pezzo che mi rappresenta al 100% e son contento che possa essere recepito come un pezzo importante.
F.P.: Interessante questa cosa della rivisitazione di tematiche già trattate. Tu come ti poni a scrivere sapendo che ti ascoltano sia persone adulte che ragazzini?
B.M.: Non mi pongo il problema. Per forza di cose non posso dedicare un disco agli ascoltatori più giovani: loro devono prendersi quello che c’è. Io parlo una lingua diversa dalla loro e tratto alcune tematiche di cui loro magari possono capire meno, cose che forse per un quindicenne non hanno quasi senso. Però credo che tutto questo faccia un po’ la differenza tra me e quello che c’è in giro, penso sia un punto di forza poter parlare anche a persone adulte, chiaramente senza fare la morale, che è una cosa che io non ho mai fatto e che non mi interessa fare. Poi certo, sicuramente mi fa piacere quando un giovane mi scrive per dirmi che si ritrova nei pezzi o in quello che dico, e in questo senso un buon feedback che mi arrivato in questo periodo è quello su Poco Cash assieme a Vegas Jones. In molti mi hanno scritto per dirmi che stanno vivendo quella situazione e stanno tenendo duro, e questo mi rende felice perché vuol dire che la nostra è una descrizione lucida di un fenomeno che non riguarda più noi in prima persona, ma che abbiamo vissuto e che osserviamo tutti i giorni.
F.P.: Il tuo stile di scrittura è in apparenza semplice, molto diretto. Eppure mi dà l’idea che ci sia un gran lavoro dietro. Lavori molto sulla rifinitura dei testi o sei più uno da buona la prima?
B.M.: Mi viene più da buona la prima. Ultimamente sono un po’ più scrupoloso, in questo disco alcuni pezzi li ho provinati prima e poi ri-registrati dopo, quando mi sono accorto che potevo fare meglio. Però per dire Poco Cash l’ho scritta quasi in tempo reale, in dieci minuti. Il mio scrivere comunque di solito è molto immediato, non ho molto da riguardare nei testi. Anche se c’è da aggiungere una cosa: in questo disco ho prestato particolare attenzione al fatto che le parole fossero tutte al loro posto, che non ci fossero ripetizioni o robe brutte da sentire analizzando il testo; e questo scrupolo è una cosa che nei miei primi lavori non ho fatto, e quando li riascolto un po’ me ne pento, perché ci sono delle banalità a cui avrei potuto fare più attenzione. E questo è un errore che in futuro non voglio assolutamente più fare.
F.P.: Per i beat è la stessa cosa? Anche lì, è più una cosa immediata o c’è molto lavoro dietro?
B.M.: Non c’è una regola. Il disco è molto curato a livello di missaggio e mastering, in modo che tutto scorra liscio dall’inizio alla fine, c’è un lavoro attento e anche abbastanza lungo. Per quanto riguarda la produzione dei beat, dipende. Ce ne sono alcuni che partono da un loop e sono praticamente finiti, altri invece più complessi. Ad esempio quello del brano con Gemitaiz parte da una sessione in studio con i musicisti, i Loop Therapy, che poi io ho ri-campionato e ri-ealaborato, ma ce ne sono molti altri più ignoranti, come Gesù Cristo, o alcuni che partono da una batteria boom-bap anni ’90 e girano attorno a quella. Come ti dicevo: non c’è una regola. Anche se in generale credo che se un beat richiede troppo tempo allora c’è qualcosa che non va, ed meglio passare a quello dopo.
F.P.: Una delle cose che più mi ha sempre colpito di te è che da tutte le cose che fai emerge una passione che va oltre quello che può essere il lavoro, o l’autopromozione. Ti sei mai chiesto da dove ti arriva tutta questa energia?
B.M.: Perché è l’unica cosa che mi piace (ride). Io mi rendo conto che è proprio una cosa innata, nella mia vita non c’è quasi mai un momento senza musica. La prima cosa che faccio al mattino è accendere il cellulare e sintonizzarmi su una web-radio. C’è sempre un sottofondo musicale nella mia giornata, a differenza di altri miei colleghi che non sentono questa necessità, a cui magari basta il loro fare musica. Per me non è così, ma non è una cosa scontata. Mi viene naturale. Poi c’è tutta la questione delle passioni parallele, come possono essere magari il digging o il collezionismo di dischi, che ora è un po’ la moda del momento ma per me è una passione da trent’anni.
F.P.: A me in questo senso piace molto il tuo modo di utilizzare Instagram, per far conoscere alcune chicche musicali o magari far sentire la produzione di qualche beat.
B.M.: Ti ringrazio, anche se Instagram è una cosa che non faccio per promuovere il mio lato artistico ma perché mi piace utilizzarlo così, anche se poi mi sono reso conto che forse funziona meglio di una pagina promozionale qualsiasi, magari di quelli che postano solo selfie o locandine degli eventi o cose del genere. A meno che non sei un teen-idol o un sex-simbol non gliene frega un cazzo a nessuno. Instagram mi sembra l’unico social network che ti dà la possibilità di seguire quello che ti interessa davvero. Nel mio caso sono i vinili, il digging e il mondo della produzione musicale, e quando qualcuno ad esempio mette troppe foto dei figli dopo un po’ smetto di seguirlo (ride).
F.P.: Ti va di dire due parole su Down With Bassi, a mio parere un esperimento davvero ottimo?
B.M.: Io lo considero come un progetto in stand-by: è stata un’esperienza davvero positiva e non escludo che in futuro non posso avere una forte ripresa, magari con altre modalità. Il marchio c’è e non è una cosa che di certo consegno ai posteri. Anche se ti dico la verità: non essendo quello il mio vero lavoro non mi ha dato la stessa soddisfazione che mi dà il fare musica, è una cosa che mi interessa relativamente, e ti confesso che per me è stato un po’ faticoso. So che comunque sia io che Bosca abbiamo creato una bella cosa, ora lui sta continuando con Real Talk, che è un format che in Italia mancava, e sono contento che abbia trovato questa sua dimensione. Ecco, diciamo che siamo stati i primi a tirare fuori questo tipo di progetto e mi sembra che ce ne fosse bisogno, dato che poi in molti stanno continuando a fare cose interessanti in questo ambito, con i loro mezzi e le loro possibilità.
F.P.: Secondo te funzionerebbe in Italia qualcosa come Rhythm Roulette o format analoghi legati alla produzione musicale? Perché nessuno ci ha ancora pensato?
B.M.: Sicuramente funzionerebbe. E mi farebbe davvero piacere se in Italia ci fosse qualcuno ad occuparsene. Purtroppo sembra sempre che la roba più interessante sia il creare polemica, i pochi magazine che contano in Italia si preoccupano di creare provocazione, commentare i commenti di Youtube o robe simili, poi chiaro: son tutte cose divertenti a livello promozionale, però poi mancano le cose per gli addetti ai lavori, che si addentrino sul lato tecnico. Capisco che sarebbe mettere a confronto cento visualizzazioni contro diecimila, ed ognuno fa le sue scelte. Ma per me è ovvio: facessero una roba come Rhythm Roulette italiana, purché fatta bene, io sarei il primo a voler partecipare.
F.P.: Ti faccio un’ultima domanda. Tu produci tantissimo e son sicuro tu abbia una montagna di materiale inedito. Quali sono le migliori cose tue non ancora uscite?
B.M.: Come beat ne ho una quantità incredibile (ride). Nel cassetto, che non sono ancora uscite e che forse non usciranno mai, ho delle bellissime produzioni elettroniche, che io chiamo “house” ma che comunque è roba con molti campionamenti, che sfiora il jazz, cose anche suonate con musicisti. Tutti progetti paralleli che ho fatto e che continuo a fare quando ho tempo, e che ho difficoltà a far uscire e promuovere perché sono un po’ “segnato” dal mio impegno col rap, che è il mio lavoro principale. Purtroppo rimettersi in gioco da zero con altri progetti strumentali sarebbe un po’ complicato. Magari potrei farlo sull’estero se riuscissi a trovare una distribuzione internazionale per la mia etichetta Com’Era Records. Vedremo. Dieci anni fa inoltre, nel periodo dell’esplosione dei Crookers, avevo registrato un disco house, con un sacco featuring di artisti italiani, a nome Mr. Cocky. Sembrava ci fosse un buon ritorno della cosa del rap unito all’house poi la cosa si è spenta quasi subito e non l’ho fai fatto uscire perché avrebbe generato solo confusione, sarebbe stato un disco che nessuno avrebbe davvero capito e quindi l’ho accantonato. E per una volta sono riuscito ad accantonare qualcosa! (ride)