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Millelemmi: l’intervista

18-01-2017 Marta Blumi Tripodi

Millelemmi: l’intervista

Illustrazione di Paolo Gallina, tutti i diritti riservati

Ci sono artisti in grado di stupirti a ogni disco: altri riescono addirittura a spiazzarti. E’ il caso di Millelemmi, uno che il suo nome se l’è meritato fino in fondo: liricista poliedrico e funambolico, figlio di quella Toscana che ultimamente è la culla dell’hip hop italiano più sperimentale, riesce nella difficile impresa di non essere mai del tutto uguale a se stesso. In questo disco, però, è riuscito a superarsi: Italodelicastrofunk è un album così schizzato (in senso buono), pieno di funk, di psichedelia, di riferimenti cantautorali e di esperimenti a ruota libera che gli unici paragoni che ti vengono alla mente sono quelli con Outkast, Sly and The Family Stone o con il Lucio Battisti post Anima Latina. Tutte similitudini molto ambiziose, ovviamente, e sarà a voi posteri stabilire se sono calzanti o meno, perché l’album esce proprio domani, 20 gennaio: lo abbiamo ascoltato in anteprima e abbiamo raggiunto telefonicamente a Firenze il diretto interessato per parlarne.

Ps: con quest’intervista cominciamo una collaborazione con l’eccezionale fumettista Paolo Gallina, già autore con Antonio Solinas della bellissima graphic novel Tupac Shakur: solo Dio può giudicarmi (BeccoGiallo). Ci farà l’onore di accompagnare i nostri articoli con alcune illustrazioni inedite e originali.

Blumi: Da dove nasce l’esigenza di un album del genere, così diverso da tutto ciò che hai fatto finora?

Millelemmi: Ogni mio disco nasce in modo molto spontaneo, con un vissuto che si traduce in musica. Non sono molto d’accordo sul fatto che sia molto diverso, però, perché sia come contenuti che come modo di rappare se si ascolta il mio passaggio da Nosocomio Tungsteno a Cortellaha si possono ritrovare dei tratti comuni. Posso capire che il mio approccio spiazzi, soprattutto se qualcuno ha sentito più un disco rispetto a un altro, però fa parte di Millelemmi essere funambolico e mai troppo diretto. Sono una persona che non ama l’immobilismo neanche nella quotidianità, e se facessi sempre lo stesso tipo di musica vorrebbe dire che ho una vita molto noiosa… (ride)

B: E questo è un discorso del tutto valido rispetto al contenuto, ma io mi riferivo alla forma: tutti sappiamo che ami molto il funk, l’elettronica e i cantautori, ma finora non avevi mai inserito così massicciamente questi elementi dentro a un disco…

M: Sicuramente per quanto riguarda il lato musicale per me è un ritorno alle origini: da pischello io e i miei amici provavamo a fare del rap sulla musica suonata. Ovviamente all’epoca non eravamo per niente in grado di farlo! (ride) Ma grazie all’esperienza di Yes We Jam!, che mi ha visto lavorare con molti musicisti di Firenze e dintorni, abbiamo finalmente avuto la possibilità di unire i due aspetti, prima dal vivo e poi su disco. Anzi, ci terrei a ringraziare le persone che hanno lavorato con me al progetto: Filippo Guerrieri, dj Spada, dj Muffa, Ricky Cardelli, Sara Lima, Davide Mollo, Stefano Tamborrino, Donald Renda, Francesco Cangi e Matteo Bennici.

B: Per fare un album come Italodelicastrofunk, dove la melodia e il sound spesso prevalgono sul rap duro e puro, bisogna essere rapper più o meno tecnici rispetto alla media?

M: Dipende da cosa intendiamo per tecnica: io credo che avere tecnica nel rap significhi adattare la propria forma al contesto nel modo più efficace. All’interno di Cortellaha, ad esempio, l’aspetto degli incastri era molto esasperato in parecchi pezzi perché veicolava quel tipo di contenuto. In Apri la porta, invece, che è il primo singolo di quest’album, la tecnica consiste nell’usare parole che suonino in un certo modo, mettendo la metrica al servizio della melodia. In questo disco ho cercato di adattare vari tipi di rap alle singole canzoni, a volte valorizzando la semplicità e a volte meno: credo comunque che questo tipo di lavoro faccia parte di una ricerca matura, spesso andando a semplificare dove era necessario: a volte less is more, come si suol dire.

B: Come hai lavorato, per realizzarlo concretamente?

M: Nella maggior parte dei casi ho lavorato prima alle musiche, in maniera quasi razionale – anche se sembra un brutto aggettivo – per essere sicuro di inserire tutti i tipi di sonorità e di brano che volevo avere nell’album. Ho scritto anche molte più tracce del necessario, in modo da poter scartare quello che non mi convinceva. Dopodiché c’è stato un lungo periodo in cui, a causa di vicende personali, non riuscivo assolutamente a scrivere: per fortuna a un certo punto la vena creativa si è sbloccata e sono cominciati ad uscire fuori anche i testi.

B: Hai composto tu le musiche, quindi?

M: In certi casi ho fatto delle bozze di arrangiamento che poi ho sviluppato in studio con Filippo Guerrieri, altre volte componevo direttamente in studio con lui: magari gli input arrivavano da me, ma è stato un lavoro 50-50. Le mie nozioni musicali non sono tali da riuscire a comporre davvero, però la bozza di un beat hip hop può essere poi espansa con l’aiuto di altri strumentisti che ci suonano sopra, ed è esattamente quello che ho fatto io.

B: Un album del genere, nell’Italia di oggi, come verrà accolto secondo te? Non ti è venuta la classica paranoia del “E se poi non lo capisce nessuno”?

M: Il contesto non è dei più ricettivi, sicuramente. La ricerca di novità praticamente non esiste più, si tende molto alla standardizzazione, e questo non è un bene sotto nessun punto di vista. Questa continua ricerca di conferme o voglia di dare sicurezze non fa bene, non solo all’hip hop, ma alla musica in generale. Certo è che non ci si può porre questo limite, il panorama che ci circonda non può diventare un freno. Bisogna andare avanti per la propria strada. Io, e lo dico senza nessuna presunzione, non voglio fare musica commerciale e quindi se nessuno mi capirà, pazienza. Avrò comunque fatto l’album che volevo.

B: Questo è un progetto molto variegato, contiene in sé molti mondi diversi e ogni traccia si differenzia tantissimo dalla precedente…

M: Probabilmente è a causa dei live con le band che spingevano al situazionismo e al differenziare il più possibile i pezzi l’uno dall’altro: è venuta fuori la voglia di fare un live “a momenti”, come se fossero tutti gli archetipi interiori che abbiamo dentro. L’io, il super-io, il contrasto… Anziché cambiare il mood a seconda del progetto – Nosocomio Tungsteno era molto introverso, Cortellaha era molto più diretto e esplicito – ho voluto essere schizofrenico e unire tutto in un disco. Il prossimo traguardo è cercare di essere schizofrenici all’interno della stessa canzone, penso! (ride) In ogni caso penso che le sonorità di Italodelicastrofunk siano abbastanza omogenee, forse le differenze usciranno soprattutto nella sua versione live.

B: A proposito di live, qualche settimana fa parlavamo anche con Moder del connubio rap + musica suonata e lui presentava un problema molto pratico: i locali in cui di solito suonano gli artisti hip hop non sono attrezzati, e inoltre i costi di portare in giro una band sono proibitivi. Tu come la vedi?

M: Non credo sia un problema di contesto, è uguale per tutti i musicisti in Italia: girare in tour con una band ha costi abbastanza insostenibili, indipendentemente dal genere musicale. Per quanto riguarda il mio live ci sto lavorando, credo che opterò per un compromesso: vedremo cosa riusciremo ad assemblare.

B: Una domanda riguardo a una delle mie tracce preferite, Come le Orche: a un certo punto del brano viene applicato il tipico pattern ritmico dello scratch, ma con una sonorità diversa, molto onirica e psichedelica…

M: Se ti riferisci a quel suono molto subacqueo che segue la prima strofa, quelli sono davvero scratch! (ride) I dj lo chiamano Tu, che sarebbe il suono che precede il Ta. Nulla di particolarmente eccentrico, ma se li hai notati hanno prodotto l’effetto che volevo!

B: Un’altra canzone molto riuscita è Inventando, che a tratti ricorda gli esperimenti ibridati col soul che negli anni ’90 erano tipici della scuola napoletana, tipo Speaker Cenzou e 99 Posse. Da dove nasce quel pezzo?

M: Il testo l’ho recuperato da dei taccuini abbastanza vecchi, dove ai tempi annotavo le mie impressioni durante la vita quotidiana. Per la parte sonora ho campionato degli archi di Fabio Vacchi, il compositore di un’opera a cui ho preso parte al Teatro Comunale di Firenze lo scorso maggio; l’ho fatto con il suo permesso. Ci ha suonato sopra un groove di batteria Stefano Tamborrino e una volta creato il loop mi è venuto in mente un giro di basso alla Larry Graham, il bassista di Sly and the Family Stone. Il ritornello è rimasto vuoto per un bel po’, ma a un certo punto a qualcuno è venuto in mente di tirare fuori il vocoder, a cui abbiamo sovrapposto un cantato/rappato. In sostanza è una canzone d’amore in cui riunisco le caratteristiche di varie persone fino ad arrivare a una donna ideale.

B: Cambiando argomento, la scena toscana forse rimane più nascosta rispetto a quelle di altre regioni, ma comunque sembra che ci sia parecchio fermento grazie anche al contributo di realtà come la tua etichetta, Fresh! Yo Label…

M: è effettivamente un territorio in fermento: begli eventi, realtà solidissime, un bellissimo pubblico. Oltre a Fresh! Yo citerei Lattex, Autentica, Numa Crew eccetera: organizzano serate molto eclettiche in cui non ci si pongono limiti in termini di genere. C’è anche un sacco di gente che compra dischi, aprono nuovi negozi di qualità e questa è una soddisfazione. Non vale solo per Firenze, ovviamente: a Pisa, ad esempio, Fricat sta creando situazioni molto interessanti. Trovarsi al centro di tutto questo ti spinge a rimanere aggiornato e ti fa venire voglia di alzare l’asticella. Aggiungerei che di recente c’ è stato un bando della regione dal titolo Toscana 100 Band, grazie a cui anche io ho pubblicato il mio album in virtù dei finanziamenti che ci hanno elargito. Nei prossimi mesi usciranno parecchi altri dischi di realtà toscane proprio per via dei fondi ottenuti da questo bando.

B: Come mai, però, nell’hip hop toscano c’è così tanta sperimentazione secondo te?

M: Non saprei: ci sono anche ragazzi che fanno hip hop in senso più classico. Diciamo che è sempre andata così e anche nel ricambio generazionale siamo favoriti, perché quando educhi il tuo pubblico ad ascolti che sottolineano la continuità tra rap, jazz, funk, hip hop, elettronica, dubstep e house, loro si abituano così. E quando lo capiscono, ti premiano: da noi è difficile che capitino serate con un pubblico di 50 b-boy arroccati sulle loro posizioni. I dj dalle mie parti sono stati molto bravi a fare proposte costruttive, e la gente li ha ascoltati.

B: Ultimissima domanda: dato un album in cui spazi tra parecchi album e parecchi stili, come vedi il tuo futuro? All’interno della scena hip hop o come musicista a 360 gradi?

M: Spero di spiccare il volo verso altri lidi, tipo un qualche paradiso tropicale soleggiato, un po’ come tutti… (ride) A livello musicale non sono sicuro di essere sempre stato parte della scena rap: ho sempre avuto un piede dentro e un piede fuori. Se per esserne parte bisogna dare conferme e sfornare prodotti monolitici, non fa per me: vi prometto che sicurezze non ve ne darò mai. Continuerò a fare quello che mi viene, e chi vivrà vedrà.