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Murubutu: l’intervista

16-11-2016 Marta Blumi Tripodi

Murubutu: l’intervista

Chi dice che certi testi rap andrebbero studiati sui libri di scuola probabilmente pensa a testi come quelli di Murubutu (che tra l’altro, e non è una coincidenza, a scuola ci lavora: nella vita di tutti i giorni, quando non è sul palco, è in cattedra in qualità di professore di storia e filosofia). Dopo il suo esordio con la storica crew emiliana La Kattiveria, Murubutu si è sempre distinto per profondità e attenzione, facendo del cosiddetto rap didattico la sua missione. Ogni suo album è un’incursione in un mondo nuovo, da esplorare insieme a lui: nulla è mai lasciato al caso, ogni dettaglio è importante, ogni sfumatura conta. Se il suo precedente lavoro era dedicato al mare, stavolta si passa a un elemento molto più intangibile: L’uomo che viaggiava nel vento (e altri racconti di brezze e correnti) indaga ogni refolo che abbia mai soffiato su questo mondo. Lo abbiamo raggiunto al telefono a Reggio Emilia per parlarne con lui.
Blumi: Da dove nasce l’idea del vento?

Murubutu: Cercavo un comun denominatore, un viandante che potesse muoversi tra tanti ambienti e situazioni diverse; invisibile, che però serbasse la memoria dei fatti di cui è testimone. Il mio vento raccoglie le storie e le conserva nel proprio grembo.

B: Storie di luoghi e tempi lontani, come da tua migliore tradizione…

M: Il fatto che io sia un amante del passato non è un segreto per nessuno, ormai! (ride) Nelle mie storie c’è sempre un legame tra l’individuo e il contesto, e il contesto è spesso antico: sarà che leggo praticamente solo romanzi e racconti scritti nell’800, i miei gusti in fatto di libri mi influenzano.

B: Ti sei fatto una cultura di meteorologia, per quest’album: hai dovuto imparare come funzionano e dove soffiano i vari venti del mondo?

M: Innanzitutto ho letto un saggio che è diventato per me un imprescindibile punto di riferimento, Il libro del vento, che tratta il tema a partire dalla mitologia per poi arrivare alla meteorologia, ma per i singoli brani mi sono anche documentato a livello storico, con tomi molto specifici. Ad esempio, per Mara e il maestrale ho studiato le migrazioni degli anni ’40 dalla Brianza alla Provenza: mi ha dato un bagaglio notevole per poter descrivere i personaggi e le situazioni.

B: Come ti vengono le idee per i vari brani, a proposito?

M: Comincio sempre documentandomi e cercando dei punti di riferimento concreti, cose che esistono veramente, anche se magari poi la storia che racconto è romanzata. E poi, sono innamorato del suono delle parole: ad esempio in Mara e il maestrale cito la basilica di san Gaudenzio, che è un nome che mi è subito piaciuto tantissimo! All’inizio comunque parto con l’intelaiatura del pezzo, (quindi con il tema generale), dopodiché lo contestualizzo e aggiungo i particolari.

B: Nel booklet del disco c’è una citazione di Claude Debussy (un compositore molto complesso, tra l’altro, e che è praticamente sconosciuto a chi ascolta rap) che parla proprio di vento: perché hai scelto di inserirla?

M: Per l’album scorso avevo scelto una frase di Umberto Saba, poeta italiano anche lui abbastanza sconosciuto ai più, anche se lo si studia ogni tanto a scuola… Per me è importante proporre al pubblico hip hop dei punti di riferimento culturali totalmente estranei al loro bagaglio.

B: A livello di sound, L’uomo che viaggiava nel vento sembra più melodico dell’album precedente. Ti spingi addirittura a canticchiare ogni tanto…

M: Assolutamente! Scherzando con gli amici dico sempre che la mia produzione è legata a delle fasi, come tutti i grandi narratori… (ride) Ne ho già passate tre, ovvero quella politica, quella didattica e quella narrativa, e ora sono nella mia fase melodica. Non ho una gran voce e non so suonare – anche se ho fatto due anni di clarinetto, da cui mi hanno cacciato a pedate! – ma ho sempre ascoltato moltissima musica melodica e anche hip hop melodico, come Wyclef Jean o il primo Sean Paul, perciò non mi dispiace per niente chi mescola le due cose: ora che mi sento più sicuro di me stesso, provo anche io a tentare questa strada.

B: In quest’album, per la gioia dei tuoi fan, ci sono tre featuring che tutti aspettavano con ansia: innanzitutto quello con Rancore, che per il suo incredibile talento di storyteller potrebbe essere considerato il tuo vero erede, e a seguire quello con Dargen e Ghemon…

M: Non credo che Rancore possa essere considerato un mio erede, nel senso che ha uno stile talmente originale e personale che lo vedo profondamente diverso da me, anche se entrambi siamo più visionari e ricercati rispetto alla media. Ci tenevo davvero tanto ad avere tutti e tre questi artisti, comunque, per dare alle giovani generazioni un esempio di scritture diverse ma di altissimo livello, in un periodo in cui la scrittura è considerata sempre meno importante nell’hip hop. Ghemon l’avevo incontrato un paio di altre volte, mentre Rancore e Dargen non li conoscevo personalmente: li ho contattati apposta per l’album e mi ha fatto un immenso piacere che abbiano accettato subito. Ho scoperto che conoscevano già la mia musica e che – e questo lo dicono loro, non io, ci tengo a sottolinearlo! – pensano che io abbia dato un contributo alla scena hip hop nazionale proprio per quanto riguarda il valore culturale dei testi.

B: L’idea di mettere Dargen e Ghemon nello stesso pezzo, Levante, da cosa deriva?

M: Volevo mettere a confronto tre tipi di scrittura diversi alle prese con un flusso di coscienza, che è una cosa che non faccio spesso, ma visto che ci ho provato ho pensato che tanto valeva cimentarsi con due grandi maestri del genere! A differenza mia, penso che entrambi siano eccezionali nel parlare di argomenti non particolarmente concreti senza mai annoiare.

B: Restiamo in ambito di rap e scrittura: come dicevi prima, ultimamente l’aspetto più lirico del rap sembra essere stato un po’ messo da parte, anche per il dilagare di nuovi sottogeneri che si identificano soprattutto con un tipo di suono. Cosa pensi di questa piega che sta prendendo il rap?

M: Penso di poter dire che il rap italiano non ha mai brillato per contenuti, e quindi non è certo la trap a fare la differenza. Certo, è più asservita al suono che alla parola, però non trovo che ci sia un abisso rispetto al rap; forse la differenza vera è che è molto stereotipata anche a livello melodico. Se l’hip hop è derivativo, la trap lo è ancora di più, ma la degenerazione sui testi non è colpa sua: quella c’è già stata da tempo.

B: Sei famoso soprattutto per la scrittura e i testi, ma spesso si tende a dimenticare che nel tuo rap c’è molto di più: in quest’album ci sono anche pezzi molto tecnici, tipo Bora

M: Bora è un extrabeat fatto alla vecchia maniera: l’ho inserito perché mi piace fare dei live potenti, e un pezzo del genere si presta tantissimo a quella dimensione. Un sacco di gente mi dice che i miei pezzi sono molto tecnici anche senza essere veloci, ma so di non poter fare quindici pezzi tutti uguali, e quindi ogni tanto cerco di variare anche metricamente. Però, se dovessi seguire il mio cuore, andrebbe sempre in direzione di canzoni lente che raccontano grandi struggimenti amorosi. Si vede che sono figlio dell’ottocento, anche in questo caso! (ride)

B: Una cosa che per contratto devo chiederti ogni volta che ti intervisto, nella speranza che la risposta sia sì: scriverai mai un libro (magari a breve)?

M: Ho avuto delle proposte editoriali anche ultimamente: mi piacerebbe tantissimo provarci, ma per ora mi manca il tempo per dedicarmi a questa cosa. Quando ce l’avrò – magari quando lascerò la musica – sicuramente proverò a cimentarmi, ma al momento non ci sono gli estremi, purtroppo.

B: Un’altra domanda che devo inserire per contratto e a furor di popolo: ci consigli qualche libro che il giovane rapper dovrebbe assolutamente leggere?

M: Sicuramente Il magnifico viaggio di Octavio di Miguel Bonnefoy, un giovanissimo autore franco-venezuelano: è un testo molto breve che riprende la tradizione del realismo magico latinoamericano. Mi sono ispirato a questo libro per scrivere La bella creola, uno dei brani dell’album.

B: A proposito, credi che qualcuno in Italia abbia raccolto la tua sfida di fare rap didattico e culturale?

M: Non so se qualcuno ha questa volontà, ma sicuramente si sta diffondendo in Italia la voglia di fare rap narrativo, e questo mi fa molto piacere: c’è chi prova a fare storytelling in maniera sistematica, tipo Picciotto che come me esce su etichetta Mandibola Records, o Mauro Marsu dei Resurrection, o U.G.O. (Kattiveria crew, o Carlo Corallo di Ragusa.

B: Per finire, progetti futuri?

M: Ovviamente, suonare innanzitutto: ho già diverse date in programma in tutta Italia da qui a maggio 2017, a cui vorrei attaccare anche un tour estivo, perché è la cosa che mi diverte di più. Spero di continuare a fare belle collaborazioni nel frattempo, e spero anche che continui una piacevole tendenza che ho riscontrato con la pubblicazione di quest’album, ovvero il ritorno di un pubblico diverso da quello mio solito. Ad esempio di recente sono stato contattato da una giornalista di Repubblica, interessata a me non dal punto di vista musicale ma culturale: amo l’hip hop e mi fa molto piacere godere di una buona considerazione nella scena, ma affrontare anche ambiti diversi è stimolante.