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En?gma – L’intervista

25-10-2016 Marta Blumi Tripodi

En?gma – L’intervista

Si parla spesso di artisti hip hop che si rassegnano a scelte di convenienza (in materia di sound, di appartenenza, di etichette, di contratti, di cose che è meglio fare o non fare) e restano attaccati a quelle anche quando non ne sono più convinti e felici. Si parla molto meno del contrario, ovvero di quegli artisti che si trovano in una posizione invidiabile ma decidono di correre il rischio di rinunciarvi per perseguire la propria strada. E’ il caso di En?gma, che per anni è stato uno dei nomi più eclettici e interessanti della Machete Crew, di cui è stato anche uno dei fondatori: qualche mese fa, però, ha deciso di comune accordo con i suoi ex soci di prendere un’altra direzione, lasciando quella che era stata la sua casa dall’inizio della sua carriera ad oggi. In concomitanza con questa decisione ha annunciato anche il suo nuovo album, Indaco: pubblicato un paio di settimane fa, con assoluta evidenza non solo è il più maturo che abbia mai realizzato finora, ma è anche uno dei lavori più originali e ‘liberi’ usciti nel 2016. Lo abbiamo incontrato a Milano nelle pause della promozione del disco, che peraltro è stato molto apprezzato dai suoi vecchi fan e gliene ha sicuramente fatti guadagnare di nuovi: la scommessa, insomma, per ora sembra essere stata vinta.

Blumi: Leviamoci subito la domanda più ingombrante, quella che tutti ti staranno facendo: perché hai scelto di uscire da Machete?

En?gma: Non c’è nessuna ragione eclatante, nessun polverone da nascondere: come esistono matrimoni che finiscono dopo trent’anni, capita anche che legami artistici molto solidi e duraturi si interrompano. È successo in modo assolutamente tranquillo e spontaneo: abbiamo tutti preso atto del fatto che era ora che ciascuno prendesse la propria strada, e pensiamo che la cosa farà bene a entrambe le parti. Da oggi inizia un percorso diverso per me, ma continuo ad augurare il meglio a tutti loro.

B: Artisticamente non sembra essere stata una decisione sofferta, da come ne parli, ma umanamente lo è stata? Non dev’essere facile separarsi dai propri amici di sempre…

E: Infatti, è stato molto difficile. Proprio per questo è stata una scelta ponderata a lungo: io sono già uno che di suo pensa tantissimo, figuriamoci quando devo prendere una decisione del genere, in cui ci sono anche fattori umani oltre che professionali in ballo. Abbiamo creato una realtà dal niente, ci abbiamo messo il cuore, siamo sempre stati una squadra. Ma, ti ripeto, alla fine abbiamo ragionato insieme, e tutti siamo sicuri che questa decisione sarà la cosa migliore sia per me che per Machete.

B: Chi hai scelto di avere al tuo fianco, quindi, per questo primo album del tuo nuovo percorso musicale?

E: Gabriele Deriu, in arte Kaizèn. È un cantautore e produttore, ma innanzitutto un caro amico: è stato con lui che ho registrato il mio primo demo nel 2008 ed è sempre con lui che ho voluto registrare questo nuovo album, nello studio che ho costruito a casa mia. Abbiamo fatto tutto da soli: una fatica non indifferente, perché occuparsi di ogni aspetto – dalla produzione alla distribuzione passando per le grafiche – è davvero complicato. In un’etichetta di solito è un lavoro che fanno in sei o sette persone, noi eravamo solo in due, e oltretutto uno dei due era anche impegnato al microfono… (ride) Ma ne è valsa senz’altro la pena: così lo sento molto più mio. È stato una specie di ritorno alle origini, ma con la testa di oggi.

B: Parliamo del titolo. Quella dei bambini indaco è una teoria molto new age, a tratti anche un po’ fantascientifica: si parla di persone caratterizzate da empatia, curiosità, intelligenza, intuito, forza di volontà e insofferenza verso l’autorità, ma anche di aura di colore indaco e sensibilità paranormale…

E: Ho trovato in quella teoria quasi un modo per identificarmi. Non fraintendermi, non è che io mi senta un X-Man, però mi ci ritrovo, mi sembra che colga bene molti aspetti della mia personalità. La maggior parte dei bambini indaco, anche di quelli già cresciuti, non sapendo di esserlo ha vissuto determinate situazioni e dinamiche caratteriali con disagio, sviluppando un modo particolare di affrontare la vita. Diciamo che partendo da quell’idea ho trovato un modo per declinare ogni traccia del disco: c’è quella sulla presenza costante della nemesi femminile, quella un po’ più aggressiva, quella esoterica. Ogni aspetto della teoria è presente in qualche canzone.

B: Effettivamente ascoltando Indaco si ha l’impressione che tutti i brani siano collegati da un qualche filo conduttore: è effettivamente così?

E: All’inizio non era così, ma man mano che scrivevo ho trovato anch’io un filo conduttore, non solo tematico ma anche sonoro. Nel senso che ogni brano ha un sound diverso dal precedente, ma in qualche modo si abbinano tra di loro per essere complementari. Quando abbiamo deciso la tracklist ci è sembrato che creasse un buon percorso, e anche riascoltandolo in repeat dà una bella sensazione di continuità, secondo noi: quando termina l’ultima traccia e riparte la prima non senti lo stacco netto tra la fine e l’inizio. Credo che anche questo sia un segno di maturazione, non mi era mai capitato con i miei progetti precedenti.

B: Restando in tema di suono, è molto ricco e complesso: come ci avete lavorato?

E: Come dicevamo prima, il disco è stato registrato interamente nello studio che ho costruito in casa mia. Una cosa di cui vado molto fiero, perché negli anni sono riuscito a investire sulla mia musica; sono tornato in Sardegna anche perché mi sentivo forte del fatto di poter registrare lì con una qualità eccellente. Ho scelto le strumentali abbastanza di pancia: non mi andava di calcolare troppo, magari scegliendo la trap perché oggi va di moda quella. O meglio, una traccia che strizza l’occhio alla trap c’è, Eco, ma ha comunque un taglio molto personale, che secondo me è quello che dovrebbero fare tutti quando si approcciano alla materia. Tornando a noi, ho scelto cose che mi piacevano: beat più drum’n’bass, cose classicamente hip hop come quelle prodotte da Noia, cose più suonate… Anche il metodo di lavorazione è stato diverso: anziché chiudere i brani una volta per tutte creavamo delle bozze, che poi io e Gabriele andavamo a riascoltare più volte e integravamo. Abbiamo valutato attentamente ogni dettaglio, ogni suono, ogni doppia, ogni sporca: siamo stati davvero pignoli. Anche questo, credo, è il frutto dell’ottima sintonia tra me e lui: quando lavori a un disco in uno studio non tuo, con persone che non conosci bene, spesso tendi a tagliare corto o a lasciar correre perché non ti va di far perdere tempo agli altri. Con Gabriele, invece, il problema non si poneva proprio: ci conosciamo da una vita e parliamo in modo molto aperto di tutto, e la sua esperienza in ambito musicale gli permette anche di darmi dei consigli e dei giudizi molto precisi. Fa il cantautore, ha studiato arrangiamento, fonia e composizione, strimpella tutti gli strumenti tranne la batteria… Insomma, era la persona giusta per affiancarmi nella produzione di questo disco.

B: In effetti si sente che c’è un bagaglio di un certo tipo alla base…

E: Per noi era davvero importante. Ciliegina sulla torta, per la prima volta ho lavorato con Marco Zangirolami a un mio disco solista, e secondo me questo è stato fondamentale per dare una svolta al mio sound.

B: Parlando delle persone con cui hai collaborato, gli unici featuring del disco sono Gemitaiz e Noia. Del primo non c’è bisogno di spiegare nulla, ma ci racconteresti qualcosa sul secondo?

E: Noia è un ragazzo con cui musicalmente sono cresciuto: anche lui faceva rap da sempre a Olbia. Come spesso capita la vita ci ha un po’ allontanati, ma ci siamo ritrovati un paio di anni fa ed è stato come se non ci fossimo mai persi davvero. Al di là del rapporto di amicizia abbiamo ricominciato a parlare di musica, e ci siamo trovati subito in sintonia: mi è sembrato giusto coinvolgerlo perché, al di là della sua bravura come rapper, per gusto e livello come beatmaker non ha niente da invidiare a moltissimi producer quotati, e credo che questo sia molto evidente nelle due tracce che ha prodotto.

B: Allontaniamoci per un attimo dalla musica in sé e parliamo invece dello skit Radio Scano: sette minuti di messaggi vocali di Whatsapp…

E: Il fatto che tutti mi chiedano di questo skit è buffo, pensavo che la cosa passasse più inosservata! Io uso spesso i messaggi vocali di Whatsapp, soprattutto quando devo interfacciarmi con persone lontane. Alcuni di quelli che ricevevo mi sembravano a tratti geniali, così ho cominciato a metterli da parte senza dire nulla a nessuno. O meglio, a qualcuno l’avevo detto: “Ragazzi, occhio a quello che mi mandate, perché quando uscirà il disco troverete una bella sorpresa”… (ride) In ogni caso, trattandosi di audio molto diversi tra di loro e anche molto distanti a livello temporale, ci siamo ritrovati ad assemblarli tipo Blob: secondo me il risultato è molto simpatico e tutti i miei amici hanno apprezzato, anzi, c’è addirittura qualcuno che si è dispiaciuto perché era rimasto fuori! (ride) Il beat è sempre di Noia (che tra l’altro è anche presente tra i messaggi vocali): aveva talmente tante strumentali che ne ha sacrificata una per la causa. Per me era molto importante fare questo skit, per fare un tributo a tutti coloro a cui tengo: gente che c’è sempre stata, gente che negli ultimi anni è andata via, gente che è arrivata da poco, che mi ha supportato in primis dal punto di vista umano. Forse sono fin troppo ancorato a queste cose, in un momento storico in cui tanti preferiscono fare il personaggio piuttosto che la persona, però mi piaceva l’idea di fare un omaggio goliardico a chi mi sta intorno ogni giorno.

B: Due di questi audio, quelli meno goliardici, hai preferito tenerli fuori dallo skit e inserirli a chiusura dell’ultimo brano: uno, in particolare, dice “Ti vedo come Davide contro Golia”. Come mai li hai messi a conclusione di tutto l’album?

E: Perché li trovavo molto significativi e mi trasmettevano un’emozione diversa, sia quello che hai citato tu che l’altro, che è del mio amico Ciro che ormai ho occasione di vedere pochissimo perché viviamo lontani, ma che ha saputo darmi molta forza in momenti in cui ero scoraggiato, come si intuisce dal messaggio. Mi sembravano bellissime parole, di quelle che non tutti si dicono perché la gente a volte ha paura di esporsi troppo: era il modo migliore per concludere il disco, con serietà ma comunque con un sorriso – perché In ritardo, l’ultima canzone della tracklist, mi tira fuori sempre e comunque un sentimento positivo ogni volta.

B: A proposito di sostegno della gente, il pubblico ha già avuto modo di assimilare i tuoi nuovi pezzi e di esprimere un parere. La reazione è stata quella che ti aspettavi?

E: Credo che Indaco sia stato capito, anche a giudicare dai commenti e dalle reazioni che ho letto sul web. Anzi, sul web la risposta è stata molto maggiore rispetto ai miei precedenti lavori, i singoli sono andati meglio, soprattutto da Rapa Nui in poi. L’età media di chi mi segue non è bassa, e questa per me è una buona cosa: ovviamente mi fa piacere anche se mi seguono ragazzi più giovani, ma sicuramente per uno della mia età è bello avere anche un pubblico un po’ più maturo. Detto questo, so che per il mio modo di scrivere non è facile capirmi al 100%: tendo ad essere un po’ criptico in alcuni passaggi, anche se nel tempo ho cercato di limare questa cosa.

B: La reazione sul web non solo è stata maggiore, ma è stata anche molto comprensiva: quando hai annunciato il tuo addio a Machete, tutti ti hanno incoraggiato. Anzi, c’è addirittura chi si è spinto a dire che nella fase precedente della tua carriera rischiavi di essere “oscurato e sottovalutato”. Ma ti sei mai sentito davvero così?

E: Ci tengo a dire che no, non è stata neanche in minima parte una delle cause che mi ha spinto ad andarmene. A mio modo di vedere la forza di Machete è sempre stata la diversità all’interno della crew: ognuno aveva la sua personalità e il suo modo di fare musica, i Machete Mixtape erano così variegati proprio per quello. Non mi sono mai sentito sottovalutato, anzi: a volte mi stupisco del riscontro che ho avuto, perché io per primo riconosco che il mio rap è molto introspettivo e magari uso un vocabolario meno immediato rispetto a tanti altri. Credo che il nostro pubblico sia stato molto maturo, non ha preso le parti di nessuno e non mi ha accantonato solo perché non faccio più parte del collettivo. A volte tenderesti ad aspettarti sempre il peggio, ma in questo caso devo fare i complimenti a tutti i nostri fan, sono stati davvero equilibrati. L’unica cosa che desidero è di poter intraprendere la mia strada in maniera proficua, e auguro la stessa cosa anche al resto di Machete Empire, ovviamente. Sono sicuro che per loro sarà così, perché l’ho vista nascere e so che cosa può dare quella crew.

B: Da oggi in avanti, cosa succede?

E: Continueremo a pubblicare nuovi video fino a Natale: ne abbiamo fatti moltissimi per quest’album. Per il resto, per ora sono un po’ in attesa, per così dire: voglio capire come sarà recepito Indaco e questo mio nuovo modo di lavorare. La cosa che mi piacerebbe di più è dare un seguito a Prendi me, che è un brano completamente suonato: credo di avere fatto un passo avanti con quel pezzo, e vorrei che lo step ulteriore fosse chiudersi in studio con gli strumentisti e mettere bocca anche sull’arrangiamento. Noi mc di solito lavoriamo su basi già fatte, mentre invece vorrei provare a usare lo stesso metodo che usano le band: il rap resterà sempre il mio vero canale di espressione, ma la verità è che non so quale direzione intraprenderò d’ora in poi. Per esempio, di recente ho fatto in prima persona una strumentale vera e propria: senza batteria ma molto cinematica, stile colonna sonora. Come sarà rappare su una cosa del genere? Chissà, mi piacerebbe provarci. I panni del rapper classico cominciano a starmi un po’ stretti.