Questa storia inizia dalla fine, ovvero dal momento in cui l’ultimo blogger fa l’ultima domanda (“Ora che sei arrivato al successo, è tutto come te lo aspettavi?”), Sfera Ebbasta dà l’ultima risposta (“Non proprio, pensavo che se avessi svoltato non avrei più avuto problemi ma la realtà è più complicata di così”) e conclude con una citazione: “Come diceva Jay-Z, mo’ money, mo’ problems”. Pausa. “No, forse non lo diceva Jay-Z. Chi lo diceva?”. “Notorious B.I.G.” suggerisce una dei giornalisti seduti al tavolo. “Ah già, giusto!” replica Sfera, scoppiando a ridere per l’errore, “ve lo dicevo che non sono un rapper!”.
Partiamo da qui perché il punto è proprio questo: quando parliamo di trap italiana, stiamo ancora parlando di hip hop? Secondo molti appassionati, soprattutto quelli che hanno una formazione più golden age, no. E in un certo senso anche secondo Sfera Ebbasta che, quando ha incontrato i giornalisti per l’uscita del suo primo album omonimo, ha fatto una riflessione proprio su questo. Insieme al socio di sempre Charlie Charles è stato il primo a portare in alto la bandiera della trap di casa nostra. Specifichiamo: Sfera e Charlie non sono stati i primi a fare trap in Italia, ma sicuramente sono stati i primi in Italia a 1) fare solo e religiosamente trap, nel senso che gli altri magari ne prendevano in prestito qualche elemento oppure provavano a sperimentarla solo su qualche pezzo, 2) dichiarare fieramente di avere un background del tutto trap, nel senso che ascoltano praticamente solo quella e non sentono il bisogno di avere altri punti di riferimento, 3) riuscire ad arrivare comunque ad integrarsi nel panorama hip hop, nel senso che buona parte della scena attiva li rispetta, riconosce il loro talento e trova delle similitudini con quello che fanno. Sono stati anche i primi nel loro genere a rifiutare i compromessi: non hanno ammorbidito o variato il loro sound per piacere ai ragazzini, e viceversa non gli interessa provare ad essere più “rappusi” per ingraziarsi quelli che vedono la loro esistenza come un attentato alla cultura hip hop. Sono quello che sono, senza mezzi termini, e vale sia per la loro musica che per la loro attitudine: non sono interessati a diventare ciò che non sono, né in un senso né nell’altro. (CONTINUA DOPO IL VIDEO)
Parlare con Sfera Ebbasta è un’esperienza che disorienta e rinfresca allo stesso tempo. Non è un personaggio costruito: è sfrontatamente se stesso, non pesa mai le parole, non ha paura di essere impopolare o di dire cose che rischiano di sconvolgere i più bigotti o di creargli problemi e incomprensioni (vedi ad esempio la discussione con Salmo dei giorni scorsi). Cose tipo: “Non ho mai avuto un piano B. Spesso mi chiedo cosa starei facendo se non avessi spaccato: probabilmente ancora niente. Non sono mai stato portato per svegliarmi presto la mattina e andare a lavorare, né per sentirmi dire cosa devo fare. Non voglio sembrare ipocrita, so che c’è gente che deve farlo perché ne ha bisogno, io però sono sempre stato convinto che nella vita non avrei mai lavorato e avrei fatto qualcos’altro”. Immaginatevi le facce dei giornalisti generalisti davanti a un’affermazione del genere; ma perché dovrebbe dire qualcosa di diverso da quello che pensa, in effetti? Per fare contenti noi e voi?
In ogni caso, per lui la musica è sicuramente una questione serissima, così come lo è la sua carriera: è concentrato sull’obbiettivo, ci tiene a mantenere certi standard qualitativi e a fare le mosse giuste per tenere alta l’attenzione. Si è circondato da gente che sa quel che fa ed è una garanzia, tipo l’entourage di Roccia Music e quello di Universal, che ha voluto associarlo al prestigioso marchio Def Jam, un onore che finora in Italia aveva avuto solo Guè Pequeno. Ma ha anche fatto squadra con altre giovani promesse (non tutte allo stesso livello, a dire il vero) che condividono il suo approccio alla trap: Izi, Tedua, Ghali, Dark Polo Gang. Nessuno di loro, però, è presente nel suo album e perfino Charlie Charles compare solo come produttore dell’intero disco ma non come titolare dell’album, una scelta che hanno fatto di comune accordo: “Io e Charlie vogliamo avere le nostre carriere indipendentemente da quello che fa l’altro: insieme spacchiamo, e continueremo a lavorare insieme, ma abbiamo preferito fare delle distinzioni. Questo è il mio primo album ufficiale, ci ho messo tutto me stesso, era troppo personale per essere condiviso. E poi, voglio che la gente compri il mio disco perché l’ho fatto io, e non per i featuring”. Per la cronaca, l’unico feat presente è quello con il francese SCH, che dal vivo è stato suonato per la prima volta nella sede parigina di Skyrock, la radio urban più ascoltata d’Europa. (CONTINUA DOPO IL VIDEO)
In ogni caso, Sfera non sembra avere dubbi: quello che fanno loro non è hip hop italiano, è già un’altra cosa. “Noi non siamo il rap italiano, siamo lontanissimi da quella mentalità e da quelle ideologie” argomenta. “Abbiamo superato certe cose. Ad esempio, prima non si poteva fare a meno delle rime, ora è dimostrato che si può rappare anche senza. A livello stilistico è cambiato tutto. In questo momento c’è il rap italiano (quella scena che era nota fino ad adesso) e poi ci siamo noi: siamo due realtà a parte, abbiamo creato un altro movimento, un’altra estetica, nuovi fan… Credo che tra le nuove generazioni il nostro approccio e il nostro lifestyle, giusti o sbagliati che siano, sono i più apprezzati e i più imitati. Ed è un cambiamento che non si può fermare, riguarda l’originalità. In passato, secondo me, in generale i rapper erano molto intercambiabili: stessi argomenti, stesso suono, stesso look. Ora invece, c’è più voglia di essere unici e super riconoscibili”. Peccato, però, che ora tutti vogliano cavalcare la stessa onda, come ammette lui stesso. “Sì, ultimamente stanno venendo fuori solo copie di copie: da una parte è un peccato e non ne vedo lo scopo, perché ci siamo già noi che abbiamo spaccato con ‘sta roba, è inutile cercare di rifarla. Dall’altra, però, sono contento che i ragazzini di oggi inizino a rappare su beat tipo i nostri, anziché sulle solite strumentali di dj Premier del 1998. È comunque un’evoluzione: vuol dire che tra cinque anni, dopo che saranno usciti una marea di pezzi brutti, qualcun altro per caso scriverà una nuova canzone che sarà diversa da tutte quelle di prima e diventerà una hit”. (CONTINUA DOPO IL VIDEO)
Il bello della musica hip hop, in effetti, è che negli anni non è mai rimasta uguale a se stessa. La corsa al rinnovamento ha portato a una continua evoluzione, nel bene e nel male, e alla nascita di decine di sottogeneri: la musica urban, il drill, il dirty south, il reggaeton, le hip hop band, perfino gente tipo Miri Ben Ari che suona il violino in chiave hip hop. La trap italiana deve piacerci per forza? Certo che no (ma neanche Drake deve piacerci per forza, se è per questo). Magari tra qualche anno diventerà addirittura un genere a sé, che con il rap ha condiviso solo un antenato, o magari sarà solo un sound passeggero che tra qualche anno ricorderemo con un sorriso. In ogni caso, vale la pena approfondire l’argomento per comprenderlo meglio e farsi un’opinione: e il nuovo album omonimo di Sfera Ebbasta, fuori oggi in versione fisica e digitale, è un ottimo modo per cominciare.