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The Get Down è un capolavoro. Punto.

12-08-2016 Marta Blumi Tripodi

The Get Down è un capolavoro. Punto.

Baz Luhrmann è da sempre un regista molto discusso: la sua teatralità, il suo ritmo esasperato, il mischiare continuamente elementi storici e contemporanei, perfino i costumi e la color correction hanno sempre fatto discutere, fin dai tempi del suo seminale Romeo + Juliet (1996) proseguendo con l’ormai storico Moulin Rouge (2001) e il più recente Il grande Gatsby (2013). Non sempre i suoi accostamenti risultano convincenti, così come non sempre osare paga – perlomeno a livello artistico e cinematografico. Nel caso di The Get Down, ci spingiamo a dire che nessuno avrebbe saputo raccontare meglio di lui la nascita dell’hip hop: la sua narrazione serrata e sincopata è perfetta per spiegare cos’è successo nel South Bronx di fine anni ’70, quando una manciata di ragazzini di strada provenienti dalle più disparate sottoculture urbane ha trasformato “niente in qualcosa”, per citare la serie stessa. E il risultato è magistrale.

Facciamo un passo indietro, per chi negli ultimi mesi avesse vissuto su Marte: The Get Down è una serie tv creata e girata appunto da Baz Luhrmann e prodotta da Netflix che racconta la nascita della cultura hip hop (ma anche della musica disco e del movimento punk) nella New York di ormai quarant’anni fa. In molti avevano temuto che potesse deludere le aspettative, anche perché Lurhmann non ha mai avuto nulla a che fare con l’ambiente in questione, ma fin da subito è stato chiaro che l’intento dei produttori era quello di legarsi alle vere e genuine radici del movimento, tant’è che gli ambassador italiani prescelti per portare la buona novella anche qui da noi sono stati Bassi Maestro e Ghemon, due puristi assoluti quando si tratta di attenersi alla storia. Invitati sul set, hanno potuto toccare con mano e testimoniare l’enorme lavoro di ricerca e ricostruzione che è stato necessario per realizzare la serie, un lavoro che traspare in ogni fotogramma, dai costumi alle scenografie passando per la colonna sonora (che a volte include brani dell’epoca, come Apache, Bad girls o Play that funky music white boy, e altre volte rielabora e riprende in maniera perfetta e riconoscibilissima gli accordi di altri brani leggendari per creare nuove atmosfere, vedi alla voce Jesus Christ Superstar o Don’t leave me this way).

Fin dalla prima visione – si tratta di una saga di ispirazione cinematografica, con episodi lunghi fino a un’ora e mezza, tanto che finora solo la prima parte è uscita in tutto il mondo – è impossibile per i veri fan dell’hip hop non innamorarsene perdutamente. Il vero problema di The Get Down, in effetti, è proprio questo: rischia di innamorarsene solo chi ha già una certa cultura a livello musicale e storico. I rimandi, le citazioni nascoste, i fan service che si moltiplicano incessantemente scena dopo scena non sono facili da cogliere per i ragazzini rappusi dell’Italia di oggi, cresciuti senza avere un’idea precisa delle cause che hanno scatenato la nascita di questa meraviglia. Fino a una ventina (o anche a una decina) di anni fa, era facile sapere che l’hip hop era nato in un South Bronx devastato dall’abbattimento di intere comunità residenziali per costruire la Cross Bronx Expressway; in quanti, però, oggi capiranno che il fatto che nel telefilm il quartiere è ridotto in macerie non è una finzione scenica?

La storia raccontata è molto semplice e funzionale: un gruppo di ragazzini amanti dei graffiti e della musica, capitanati dal poetico Zeke che è già un mc nato senza ancora saperlo, passano le loro giornate a bighellonare nel quartiere e ad ascoltare disco music. Zeke, nel tentativo di procurarsi un disco rarissimo e introvabile che vuole regalare alla ragazza di cui è innamorato, si incontra/scontra con Shaolin, un famoso e imprendibile writer, che porterà tutti quanti alla scoperta del mondo dell’hip hop. Detto così sembra molto banale, ma ecco una lista di riferimenti che magari rischiano di perdersi all’interno del primo episodio (occhio agli spoiler):

– Anche se non è dichiarato esplicitamente la prima scena, ambientata nel 1996 con un famoso rapper sul palco di un concerto sold-out, ha un ospite d’eccezione: Nas, che doppia il rap del protagonista. Nas, tra le altre cose, è anche uno degli executive producers della serie.

– Il disco rarissimo che cerca Zeke si intitola Pakossa remix e nella realtà non esiste, ma il riferimento è allo storico Soul Makossa di Manu Dibango: un disco anche lui rarissimo, diventato un pilastro di hip hop, soul e disco perché alcuni dei dj più cool di New York negli anni ’70 erano riusciti a recuperarne una copia e a suonarla nei loro party. Ancora oggi è uno dei più famosi breakbeat di sempre.

– La gang di antagonisti, i Savage Warlords, riprendono i Savage Skulls (una delle gang più diffuse negli anni ’70) ma anche i Guerrieri della Notte, dal leggendario film The Warriors.

– Il sassofonista dal look africano che compare durante la cena dei ragazzi – è il padre del personaggio interpretato da Jaden Smith – ricalca in parte Pharoah Sanders, seminale jazzista dell’epoca e tuttora in attività, e in parte Olu Dara, il padre di Nas, che è un trombettista jazz di fama mondiale.

– La Marrakech Records, ovvero l’etichetta da cui sogna di essere reclutata la promessa della disco Mylene Cruz, è in realtà un omaggio alla Casablanca Records, l’etichetta che portò Donna Summer al successo (inutile dirvi che Marrakech e Casablanca sono entrambe città del Marocco).

– La poesia/rap che recita Zeke alla sua insegnante di letteratura si apre citando i vetri rotti che sono ovunque nel quartiere: è un omaggio a The Message di Grandmaster Flash & the Furious 5, la cui strofa si apre proprio con il verso “Broken glass everywhere“.

– Il personaggio di Shaolin è ovviamente un tributo all’estetica e alla poetica del Wu-Tang Clan, una crew che a sua volta si ispirava ai b-movie orientali degli anni ’70.

– L’unico personaggio realmente esistente che compare nel primo episodio è Grandmaster Flash (purtroppo c’è voluto un attore per interpretarlo perché il nostro eroe non ha più vent’anni), e tra quelli che non compaiono ma sono citati spiccano Kool Herc e Afrika Bambaataa. Il titolo, tra l’altro, è riferito proprio all’arte di Grandmaster Flash di trovare il perfetto break in ogni canzone (denominato “the get down”, appunto) e di portarlo avanti all’infinito suonandolo su due dischi contemporaneamente, dando così origine all’arte del loop e del campionamento.

– Shaolin afferma che Zeke e la sua crew diventeranno insieme a lui i “Fantastic 4 + 1“: anche in questo caso è un omaggio ai Funky 4 + 1, storica crew legata a Grandmaster Flash (ne ha fatto parte anche dj Jazzy Jeff, per intenderci), la prima a esibirsi in diretta nazionale tv a fine anni ’70.

Insomma, il contesto lo avete capito, i riferimenti anche. Il problema resta uno solo: riuscirà a capirli il quindicenne di oggi, che ignora perfino la prima regola appresa da tutti noi alle jam, ovvero che quando a un party il dj suona le prime note di Apache è meglio spostarsi e lasciare spazio ai breaker per non rischiare di ricevere il calcio di un windmill in faccia? Forse quel calcio in faccia se lo meritano, metaforicamente parlando: bisogna conoscere il proprio passato per costruire il proprio futuro, e The Get Down è un ottimo modo per iniziare. O per ricominciare, nel caso di noi diversamente giovani. In ogni caso, da non perdere assolutamente: vi sfidiamo a non saltare ogni pochi secondi dal divano durante la visione.